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I sec. d.C.

OVIDIO, I Fasti, IV, 417-454

Traduzione tratta da: Ovidio, I Fasti, a cura di Bernini F., Nicola Zanichelli Editore, Bologna 1942


Esige il luogo stesso che canti la vergin rapita:

riudirai più cose, poche saprai di nuove.

La Trinacria, che prese nome dal sito del luogo,

si protende nell’ampio mare co’ suoi tre scogli:

è sede cara a Cerere, in molte città venerata,

tra cui Enna ferace pel suo cólto terreno.

Or la fredda Aretusa aveva invitate le madri

dei numi: al sacro desco pur venne la Dea bionda.

La figlia, come sempre, dalle compagne seguita

errava a piedi nudi per il solito prato.

Nel fondo d’una valle ombrosa v’è un luogo bagnato

dai copiosi spruzzi d’una cascata d’acqua.

Eran, lì sotto, tanti colori quanti n’ha la natura

e la terra splendea variopinta di fiori.

La figlia a quella vista disse: «Venite, compagne

e con me riempite di fiori il vostro grembo!»

Il labile bottino alletta quei giovani cuori;

e, intente a quella còlta, non senton la fatica.

Empie l’una canestri intrecciati di vimini lenti,

il grembo un’altra e quella le pieghe ampie dell’abito;

chi raccoglie fiorranci: chi le viole gradisce:

v’è chi taglia con l’unghie dei papaveri i gambi;

e tu questa, o giacinto, trattieni; tu quella, amaranto;

parte ama il melioto, parte la cassia o il timo.

Si colser più assai rose; pur fiori vi son senza nome:

ella coglieva gigli bianchi e tenue croco.

A poco a poco vanno più lungi per cogliere fiori:

nessuna per disgrazia seguì la sua padrona.

Suo zio la vede e, come la vede, veloce la ruba

e coi foschi cavalli la porta nel suo regno.

Ella gridava: «Ahi sono rapita, carissima madre!»

e avea da sé stracciata la tunica dal seno.

S’apre intanto la via a Dite, poiché i suoi cavalli,

non avvezzi alla luce, la tollerano a stento.

Lo stuol delle compagne ben colmo di fiori gridava:

«O Persefone, vieni ai fior che ti cogliemmo!»

Poiché chiamata tace, d’urli riempiono i monti,

e con le man dolenti battono i nudi petti.