2-8 d.C.
OVIDIO, Metamorfosi, V, 341-437
Traduzione tratta da: Ovidio, Metamorfosi, a cura di Ramous M., Garzanti, Milano 1999, vol. I, pp. 205-209
Per prima Cerere smosse col vomere dell'aratro le zolle,
per prima diede in coltura alla terra messi e frutti,
per prima diede leggi: a Cerere dobbiamo tutto.
Lei devo cantare; volesse almeno il cielo che potessi
dedicare versi degni a una dea così degna di un carme.
Immensa sulle membra di un gigante si distende l'isola
di Trinacria: sotto il suo enorme peso tiene schiacciato
Tifeo, che aveva osato aspirare alle sedi dei celesti.
Lui, è vero, si agita dibattendosi per rialzarsi,
ma sopra la sua mano destra sta Peloro, vicino all'Ausonia,
sopra la sinistra tu, Pachino; Lilibeo gli preme le gambe,
sopra il capo gli grava l'Etna; e Tifeo riverso sul fondo
dalla bocca inferocito erutta lava e vomita fiamme.
Spesso si sforza di rimuovere la crosta che l'opprime
e di scrollarsi di dosso città e montagne:
allora trema la terra e persino il re dei morti teme
che il suolo si squarci, che una voragine ne riveli i segreti
e che la luce irrompendo semini tra le ombre terrore e caos.
Proprio temendo queste calamità il sovrano era uscito
dal regno delle tenebre e su un cocchio aggiogato a neri cavalli
percorreva la Sicilia per saggiarne le fondamenta.
Convinto ormai che nessun luogo vacillava, si tranquillizzò,
quando in questo suo vagare dal monte Èrice, dove viveva,
lo vide Venere che, stretto a sé il suo figliolo alato, disse:
"Armi e braccio mio, tu, figliolo, tu che incarni il mio potere,
prendi quell'arco con cui vinci tutti, mio Cupido,
e scaglia le tue frecce folgoranti in petto al dio,
che l'ultimo dei tre regni ha avuto in sorte.
Alla tua mercé tu sai ridurre i celesti, Giove stesso,
le divinità del mare e persino chi su loro regna:
perché l'Averno fa eccezione? Perché non estendi il tuo dominio
e quello di tua madre? In gioco è la terza parte del mondo.
E invece in cielo, ecco il frutto della mia pazienza,
sono derisa e a nulla col mio si riduce il potere di Amore.
Non vedi che Pallade e Diana cacciatrice
mi scansano? Anche la figlia di Cerere, se non si interviene,
rimarrà vergine: non è questa la sua aspirazione?
E tu in nome del nostro regno, se un poco ti sta a cuore,
fai che la dea si congiunga allo zio". Così Venere; e quello,
sciolta la faretra, per ubbidire alla madre, fra mille
scelse una freccia, che più acuminata, più stabile
e più sensibile all'arco nessun'altra avrebbe potuto essere.
Puntando un ginocchio, tese le braccia elastiche dell'arco
e con la punta dell'asta colpì Plutone dritto al cuore.
Non lontano dalle mura di Enna c'è un lago dalle acque profonde,
che ha nome Pergo: neppure il Caìstro nel fluire
della sua corrente sente cantare tanti cigni.
Un bosco fa corona alle sue acque, cingendole da ogni lato,
e con le fronde, come un velo, filtra le vampe del sole.
Frescura dona il fogliame, fiori accesi l'umidità del suolo:
una primavera eterna. In questo bosco Proserpina
si divertiva a cogliere viole o candidi gigli,
ne riempiva con fanciullesco zelo dei cestelli e i lembi
della veste, gareggiando con le compagne a chi più ne coglieva,
quando in un lampo Plutone la vide, se ne invaghì e la rapì:
tanto precipitosa fu quella passione. Atterrita la dea
invocava con voce accorata la madre e le compagne,
ma più la madre; e poiché aveva strappato il lembo inferiore
della veste, questa s'allentò e i fiori raccolti caddero a terra:
tanto era il candore di quella giovane, che nel suo cuore
di vergine anche la perdita dei fiori le causò dolore.
Il rapitore lanciò il cocchio, incitando i cavalli,
chiamandoli per nome, agitando sul loro collo
e sulle criniere le briglie dal fosco colore della ruggine;
passò veloce sul lago profondo, sugli stagni dei Palìci
che esalano zolfo e ribollono dalle fessure del fondale,
e là, dove i Bacchìadi, originari di Corinto che si specchia
in due mari, eressero le loro mura tra due insenature.
Tra le fonti Cìane e Aretusa Pisea c’è un tratto di mare,
che si restringe, racchiuso com’è tra due strette lingue di terra:
qui, notissima fra le ninfe di Sicilia,
viveva Cìane e da lei prese nome anche quella laguna.
Dai flutti emerse la ninfa sino alla vita,
riconobbe la dea: “Non andrete lontano,” disse;
“genero di Cerere non puoi essere, se lei non acconsente:
chiederla tu dovevi, non rapirla. Se mi è lecito
paragonare grande e piccolo, anch’io fui da Anapi amata,
ma fui sua sposa dopo che ne fui pregata, non terrorizzata”.
Così disse, e allargando le braccia cercò
di fermarli. Il figlio di Saturno non trattenne più la sua rabbia:
aizzando i terribili cavalli, brandisce con tutto il vigore
del braccio lo scettro regale e l’immerge nelle profondità
dei gorghi: a quel colpo un varco sino al Tartaro si aprì nella terra
e il cocchio sprofondò nella voragine scomparendo alla vista.
Addolorata per il rapimento della dea e per l’oltraggio
inferto alla fonte, Cìane ammutolì serrando nel proprio cuore
l’inconsolabile ferita: tutta in lacrime si strusse
e si dissolse in quelle acque delle quali una divinità
insigne era stata innanzi. Avresti visto snervarsi le sue membra,
le ossa flettersi, le unghie perdere durezza;
e per prime si sciolsero le parti più sottili:
i capelli color del mare, le dita, i piedi e le gambe
(basta un attimo per mutare in acque gelide
l’esilità delle membra). Poi furono le spalle, il dorso, i fianchi,
il petto ad andarsene, svanendo in rivoli evanescenti;
infine in luogo del sangue vivo penetra l’acqua nelle vene
in dissoluzione e nulla più rimane che si possa afferrare.