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VII-IV sec. a.C.

Inni Omerici, II, 1-495

Traduzione tratta da: Inni Omerici, a cura di Càssola F., Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1991


A Demetra


Demetra dalle belle chiome, dea veneranda, io comincio a cantare,

e con lei la figlia dalle belle caviglie, che Aidoneo

rapì – lo concedeva Zeus dal tuono profondo, che vede lontano,

eludendo Demetra dalla spada d’oro, dea delle splendide messi –

mentre giocava con le fanciulle dal florido seno, figlie di Oceano,

e coglieva fiori: rose, croco, e le belle viole,

sul tenero prato; e le iridi e il giacinto;

e il narciso, che aveva generato, insidia per la fanciulla dal roseo volto,

la Terra, per volere di Zeus compiacendo il dio che molti uomini accoglie;

mirabile fiore raggiante, spettacolo prodigioso, quel giorno, per tutti:

per gli dei immortali, e per gli uomini mortali.

Dalla sua radice erano sbocciati cento fiori

e all’effluvio fragrante tutto l’ampio cielo, in alto,

e tutta la terra sorrideva, e i salsi flutti del mare.

Attonita, ella protese le due mani insieme

per cogliere il bel giocattolo: ma si aprì la terra dalle ampie strade

nella pianura di Nisa, e ne sorse il dio che molti uomini accoglie,

il figlio di Crono, che ha molti nomi, con le cavalle immortali.

E afferrata la dea, sul suo carro d’oro, riluttante,

in lacrime, la trascinava via; ed ella gettava alte grida

invocando il padre Cronide, eccelso e possente.

Ma nessuno degl’immortali o degli uomini mortali

udì la sua voce, e nemmeno le ninfe dispensatrici di frutti.

Solo la figlia di Perse, che ha candida la mente,

Ecate dal diadema luminoso, nel suo antro,

e il divino Elio, splendido figlio d’Iperione,

udivano la fanciulla che invocava il padre Cronide; ma questi, in disparte,

lontano dagli dei sedeva nel tempio dalle molte preghiere,

ricevendo belle offerte dagli uomini mortali.

Intanto, secondo il volere di Zeus, portava con sé la dea riluttante

colui che è signore di molti, e molti uomini accoglie, il fratello del padre,

il figlio di Crono, che ha molti nomi, con le cavalle immortali.

Fin quando la dea scorgeva la terra e il cielo stellato,

il mare pescoso dalle vaste correnti,

e i raggi del sole, e ancora si attendeva di rivedere la cara madre

e la stirpe degli dei che vivono in eterno,

sebbene ella fosse angosciata, la speranza le confortava il nobile cuore...

risuonarono le vette dei monti, e gli abissi del mare,

alla sua voce immortale, e l’udì la madre veneranda.

Un acuto dolore la colse nell’animo: sulle chiome

divine lacerava con le sue mani il diadema,

si gettava sulle spalle un cupo velo,

e si slanciò sopra la terra e il mare, come un uccello,

alla ricerca. Ma nessuno degli dei

e degli uomini mortali voleva dirle la verità,

e nessuno degli uccelli venne a lei come verace messaggero.

Per nove giorni, allora, la veneranda Demetra sulla terra

vagava stringendo nelle mani fiaccole ardenti:

né mai d’ambrosia e di nettare, dolce bevanda,

si nutriva, assorta nel suo dolore; né s’immergeva in lavacri.

Ma quando infine giunse per la decima volta la fulgente aurora

le venne incontro  Ecate, reggendo con la mano una torcia;

e, desiderosa d’informarla, le rivolse la parola e disse:

«Demetra veneranda, apportatrice di messi, dai magnifici doni,

chi fra gli dei celesti o fra gli uomini mortali

ha rapito Persefone, e ha gettato l’angoscia nel tuo cuore?

Infatti, io ho udito le grida, ma non ho visto coi miei occhi

chi fosse il rapitore: ti ho detto tutto, in breve e sinceramente».

Così dunque parlò Ecate; e non le rispose

la figlia di Rea dalle belle chiome; invece, rapidamente, con lei

mosse, stringendo nelle mani fiaccole ardenti.

E raggiunsero Elio, che vigila sugli dei e sugli uomini;

si fermarono dinanzi ai suoi cavalli, e  lo interrogò la divina tra le dee:

«Elio, tu almeno abbi rispetto per una dea, quale io sono, se mai

per le mie parole o per i miei atti fui gradita al tuo cuore e al tuo animo.

La figlia che ho generato, mio dolce germoglio, dal volto luminoso…

ho udito il suo alto grido attraverso il limpido etere,

come se subisse violenza: ma non l’ho vista coi miei occhi.

Ma poiché tu, certo, su tutta la terra e sul mare

dall’etere divino guardi coi tuoi raggi,

sinceramente dimmi se mai hai veduto

chi la mia figlia ha preso a forza, contro il suo volere, mentre ero lontana,

ed è fuggito: sia uno degli dei, o degli uomini mortali».

Così parlò: e a lei rispondeva il figlio d’Iperione:

«Demetra augusta, figlia di Rea dalle belle chiome,

tu lo saprai: io, infatti, profondamente ti rispetto e ti compiango,

angosciata come sei per la figlia dalle agili caviglie. Nessun altro

fra gl’immortali è responsabile, se non Zeus adunatore di nembi,

che l’ha destinata, perché sia detta sua sposa fiorente,

a suo fratello, Ade: e questi giù nella tenebra caliginosa

la trascinò con le sue cavalle, dopo averla rapita, mentre ella gridava a gran voce.

Ma tu, o dea, metti fine al tuo pianto copioso: non conviene

che tu serbi così, senza motivo, un rancore inesorabile. Non è indegno di te,

come genero, fra gl’immortali, Aidoneo signore di molti uomini,

tuo fratello, tuo germano: il suo dominio

egli ha ottenuto quando, all’origine, si fece la divisione in tre parti;

e abita fra coloro di cui gli toccò essere il sovrano».

Dopo aver parlato così, incitò i cavalli: ed essi al suo richiamo

celermente tiravano il carro veloce, come uccelli dalle ali distese;

ma nel cuore della dea penetrava un dolore più profondo e struggente.

E in seguito, adirata contro il figlio di Crono, dalle nere nubi,

abbandonando il consesso degli dei e il vasto Olimpo,

andava tra le città degli uomini e i pingui campi,

celando il suo aspetto, per molto tempo: né alcuno degli uomini

e delle donne dalla vita sottile la riconobbe incontrandola,

fin quando ella giunse alla casa del saggio Cèleo,

che era allora il signore di Eleusi fragrante d’incenso.

Sedeva lungo la strada, afflitta nel cuore,

al pozzo Partenio, cui gli abitanti della città attingevano l’acqua,

all’ombra: su di lei si allargava la chioma di un olivo.

Era simile a una vecchia carica d’anni, lontana dalla maternità

e dai doni di Afrodite che ama le ghirlande:

quali sono le nutrici dei figli dei re che rendono giustizia,

o, nelle loro case ricche di echi, le dispensiere.

E la videro le figlie di Cèleo figlio di Eleusi,

venute ad attingere l’acqua che scorreva abbondante, per portarla

in brocche di bronzo alla loro casa paterna.

Erano quattro, simili a dee, nel fiore della giovinezza:

Callidice, Cleisidice, l’amabile Demò,

e Callitoe, che era la maggiore fra tutte;

e non la riconobbero: è difficile, per i mortali, ravvisare gli dei.

Fermandosi davanti a lei, le rivolsero le parole alate:

«O vecchia, da dove vieni, e chi sei fra i mortali carichi d’anni?

Perché ti sei diretta fuori della città, e non ti avvicini alle case?

Là, nelle sale piene d’ombra, vi sono donne

la cui età è proprio uguale alla tua, e altre più giovani,

che ti accoglierebbero con atti e parole cordiali».

Così dissero; e la veneranda fra le dee rispose con queste parole:

«Care figlie, chiunque voi siate tra le donne,

io vi saluto, e a voi risponderò: certo, è giusto

che alle vostre domande io risponda la verità.

Dono è il mio nome: così infatti mi chiamò la madre veneranda;

e ora da Creta, sull’ampia superficie del mare,

sono venuta senza volerlo: con la violenza e la costrizione, contro il mio desiderio,

i pirati mi portarono via. Essi poi

con la veloce nave approdarono a Torico, dove le donne

scesero a terra tutte insieme, ed essi

preparavano il pasto presso gli ormeggi della nave.

Ma il mio cuore non desiderava il cibo dolce come il miele:

e nascostamente avviandomi attraverso il cupo entroterra

fuggivo i miei tracotanti padroni, perché essi

non traessero guadagno da me, vendendomi senza avermi comprata.

In tal modo, vagando, sono giunta fin qui, e non so affatto

quale paese sia questo, e chi vi abiti.

Suvvia, tutti gli dei che abitano le dimore dell’Olimpo

vi concedano legittimi sposi, e di generare figli

come li sperano i genitori: così voi abbiate pietà di me, fanciulle,

e siatemi amiche. Care figlie, in quale casa potrei andare,

di quale uomo o quale donna, sì che io compia per loro,

volenterosa, i lavori che si addicono a una donna attempata?

Tenendo fra le braccia un bambino appena nato

io potrei allevarlo premurosamente, e avrei cura della casa,

e preparerei, nell’intimo delle camere ben costruite,

il letto dei signori, e addestrerei al lavoro le donne».

Così parlava la dea; e prontamente le rispose la vergine fanciulla,

Callidice, la più bella tra le figlie di Cèleo:

«Nonna, sebbene a malincuore, ineluttabilmente noi esseri umani

dobbiamo sopportare quel che ci danno gli dei: poiché essi, davvero, sono molto più forti.

Ma questo io con chiarezza ti spiegherò, e ti dirò i nomi:

gli uomini che qui hanno grande autorità e potere,

e guidano il popolo, e le mura delle città

difendono, coi consigli e le giuste sentenze.

Di Trittolemo dall’accorta mente, e di Dioclo,

di Polisseno e dell’incensurabile Eumolpo,

di Dolico e del nostro valoroso padre,

di tutti costoro, le mogli curano le case;

e appena ti vedranno nessuna di loro

dispregiando il tuo aspetto ti allontanerà dalla sua casa:

anzi ti accoglieranno: poiché tu sei simile a una dea.

Ma, se vuoi, attendi che alla casa del padre

noi ci rechiamo, e alla madre, Metanira dalla vita sottile,

raccontiamo tutta la tua storia dal principio alla fine; speriamo ch’ella t’inviti

a venire da noi, e a non cercare la casa di altri.

Ella ha un figlio prediletto, che nella sua dimora ben costruita

viene allevato: è nato tardi, lungamente desiderato e accolto con gioia.

Se tu volessi allevarlo, ed egli giungesse alla piena giovinezza,

tale compenso ti darebbe per la tua opera,

che, incontrandoti, qualunque donna facilmente t’invidierebbe».

Così diceva, e la dea accennò col capo; e le fanciulle,

riempite d’acqua le fulgide brocche, le riportavano, esultanti.

Rapidamente giunsero all’ampia casa del padre, e senza indugio alla madre

narrarono quel che avevano visto e udito; ed ella subito

le incitò ad andare, e ad invitare la donna, promettendo una immensa mercede.

Come cerbiatte o giovenche, nel tempo della primavera,

sazie di cibo balzano attraverso il prato,

così esse, sollevando i lembi delle belle vesti,

correvano lungo la strada avvallata, e le chiome

giù per le spalle ondeggiavano, simili al fiore del croco.

Ritrovarono l’augusta dea al margine della strada, là dove poco prima

l’avevano lasciata; quindi alla loro casa paterna

la guidavano: ed ella, piena di tristezza nel cuore,

le seguiva chiusa nel velo che le scendeva dal capo; e il peplo

scuro si avvolgeva intorno alle agili caviglie della dea.

Ben presto giunsero alla casa di Cèleo, caro a Zeus,

e vennero, attraverso il portico, là dove, attendendole, la madre veneranda

sedeva presso un pilastro del tetto saldamente costruito,

stringendo al petto l’infante, fresco germoglio; le fanciulle a lei

corsero, e la dea varcò la soglia: col capo

toccò la volta, e riempì il vestibolo di luce sovrumana.

Rispetto e venerazione presero la donna, e insieme pallido timore:

si alzò dal trono in onore della dea, e la esortò a sedersi.

Ma Demetra apportatrice di messi, dai magnifici doni,

non volle sedersi sul trono risplendente,

e ristette in silenzio, abbassando i begli occhi,

finché l’operosa Iambe ebbe disposto per lei

un solido sgabello, gettandovi sopra una candida pelle.

Là ella sedeva, e con le mani si tendeva il velo sul volto;

e per lungo tempo, tacita e piena di tristezza, stava immobile sul seggio,

né ad alcuno rivolgeva parola o gesto,

ma senza sorridere, e senza gustare cibi o bevande,

sedeva, struggendosi per il rimpianto della figlia dalla vita sottile:

finché coi suoi motteggi l’operosa Iambe,

scherzando continuamente, indusse la dea veneranda

a sorridere, a ridere, e a rasserenare il suo cuore:

Iambe, che anche in seguito fu cara all’animo della dea.

Allora Metanira, riempita una coppa di vino dolce come il miele,

a lei la porgeva; ma la dea la respinse: disse che, in verità, le era vietato

bere il rosso vino, e comandò che le offrisse come bevanda

acqua, con farina d’orzo, mescolandovi la menta delicata.

La donna preparò il ciceone, e lo porse alla dea come ella aveva ordinato:

Demetra, la molto venerata, accettandolo, inaugurò il rito.

E fra loro cominciò a parlare Metanira dalla bella cintura:

«Salute a te, o donna, poiché io credo che tu sia nata da genitori

non volgari, anzi illustri: illuminano il tuo sguardo dignità

e maestà, come quello dei re che rendono giustizia.

Ma, sebbene a malincuore, ineluttabilmente noi esseri umani

dobbiamo sopportare quel che ci danno gli dei: infatti, il giogo ci grava sul collo.

Ora tuttavia, poiché sei giunta qui, disporrai di tutto ciò ch’io possiedo:

e tu alleva questo mio figlio, che, nato tardi, contro ogni speranza

mi hanno concesso gl’immortali: per lui ho molto pregato.

Se tu volessi allevarlo, ed egli giungesse alla piena giovinezza,

tale compenso ti darebbe per la tua opera

che, incontrandoti, qualunque donna certamente t’invidierebbe».

A lei rispose a sua volta Demetra dalla bella corona:

«Anche a te salute, di tutto cuore, o donna; e gli dei ti concedano felicità.

Di tuo figlio volentieri mi prenderò cura, come tu mi chiedi;

lo alleverò, e in verità non credo che, per negligenza della nutrice,

mai lo abbatteranno il maleficio, o le erbe velenose:

conosco un rimedio molto più forte delle erbe nocive;

conosco, per il maleficio funesto, un valido scongiuro».

Così disse, e strinse il fanciullo al seno odoroso d’incenso,

tra le braccia immortali; si rallegrava nel cuore la madre.

Così ella lo splendido figlio del saggio Cèleo,

Demofonte, che Metanira dalla bella cintura aveva generato,

allevava nel palazzo; ed egli cresceva simile a un essere divino,

senza prendere cibo, senza succhiare il bianco latte: *** Demetra

lo ungeva d’ambrosia come il figlio di un dio,

dolcemente soffiando su di lui e stringendolo al seno.

Di notte, lo celava nella vampa del fuoco, come un tizzone,

nascondendosi ai suoi genitori: per essi era grande meraviglia

come egli cresceva precoce, e somigliava nell’aspetto agli dei.

E lo avrebbe reso immune da vecchiezza, e immortale,

se nella sua stoltezza Metanira dalla bella cintura,

spiando durante la notte dalla sua stanza odorosa,

temendo per suo figlio, e si turbò profondamente nel cuore:

e lamentandosi pronunciò queste parole alate:

«Figlio mio, Demofonte, la straniera in una grande fiamma

ti fa scomparire, e a me lascia pianto e affanno doloroso».

Adirata contro di lei, Demetra dalla bella corona

il figlio che Metanira, oltre ogni speranza, nella sua casa aveva generato,

con le mani immortali trasse via dal fuoco, e lontano da sé

lo depose a terra, piena di furore terribile nell’animo;

e intanto diceva a Metanira dalla bella cintura:

«O stolti esseri umani, incapaci di prevedere

il destino della gioia o del dolore che incombe!

In verità, per la tua incoscienza anche tu hai gravemente errato.

Infatti – e mi sia testimone l’inesorabile acqua dello Stige, su cui giurano gli dei –

immortale, certo, e immune da vecchiezza per sempre

io avrei reso tuo figlio, e gli avrei concesso un privilegio imperituro:

ma ora non potrà più sfuggire al destino di morte.

Egli avrà tuttavia un privilegio imperituro, per sempre, poiché è salito

sulle mie ginocchia, e ha dormito fra le mie braccia:

in suo onore, ogni volta che l’anno avrà compiuto il suo ciclo attraverso le stagioni,

i figli degli Eleusini per sempre eseguiranno

un combattimento fra loro, una mischia violenta.

Io sono l’augusta Demetra, colei che più di ogni altro

agl’immortali e ai mortali offre gioia e conforto.

Orbene: per me un grande tempio, e in esso un’ara,

tutto il popolo innalzi ai piedi della rocca e del suo muro sublime,

più in alto di Callicoro, sopra un contrafforte del colle;

io stessa v’insegnerò il rito, affinché in futuro

celebrandolo piamente possiate placare il mio animo».

Così dicendo la dea mutò la statura e l’aspetto

respingendo da sé la vecchiaia; la bellezza intorno a lei raggiava,

un dolce aroma dal suo peplo odoroso

si effondeva, e per largo tratto una luce dalle membra immortali

della dea rifulgeva; le bionde chiome le coprivano gli omeri,

e la solida casa si riempì di splendore, come per un lampo.

Ella uscì, attraversando la sala; e alla donna subito si sciolsero le ginocchia:

per lungo tempo restò senza voce, e nemmeno si ricordava

del figlio prediletto, di raccoglierlo dal pavimento.

Ma le sorelle udirono il pianto implorante del bambino

e balzarono giù dai soffici letti; quindi una di loro

prendendolo tra le braccia se lo strinse al petto,

un’altra ravvivò il fuoco, un’altra corse con piede leggero

per accompagnare la madre via dalla sala odorosa.

Lavarono il bambino che si dimenava, standogli intorno

e circondandolo di ogni cura; ma il suo animo non si addolciva,

poiché meno brave, davvero, erano le nutrici che ora si occupavano di lui!

Vegliando tutta la notte, cercavano di placare la dea gloriosa,

tremanti di terrore; e all’apparire dell’aurora

al possente Cèleo esattamente narrarono

ciò che aveva prescritto Demetra, la dea dalla bella corona.

Egli allora convocò in assemblea il popolo innumerevole,

e ordinò di costruire, per Demetra dalle belle chiome,

un pingue tempio e un’ara, sopra un contrafforte del colle.

Essi subito obbedivano, e davano ascolto alle sue parole:

costruivano il tempio come aveva ordinato, e questo sorgeva alto, per volontà delle dea.

Quando poi ebbero terminato, e posto fine alla fatica,

si avviavano per andare ognuno alla sua casa; e la bionda Demetra

sedendo nel tempio, rimaneva in disparte da tutti gli dei,

struggendosi nel rimpianto della figlia dalla vita sottile.

E sulla terra feconda ella rese quell’anno infausto

per gli uomini, tremendo; né più il suolo

lasciava germogliare i semi, poiché li teneva nascosti Demetra dalla bella corona.

Molti ricurvi aratri i buoi trascinavano invano sui campi,

molto candido orzo cadde a vuoto nei solchi.

E certo ella avrebbe distrutto interamente la stirpe degli uomini mortali

con la fame inesorabile, e lo splendido privilegio delle offerte

e dei sacrifici avrebbe sottratto a coloro che abitano le dimore dell’Olimpo,

se Zeus non se ne fosse preso cura, e non avesse meditato nel suo animo.

Dapprima, egli incitò Iride dalle ali d’oro a chiamare

Demetra dalle belle chiome, che ha molto amabile aspetto.

Così disse, ed ella a Zeus dalle nere nubi, figlio di Crono,

obbediva; e corse con passi veloci attraverso lo spazio.

Venne alla rocca della odorosa Eleusi,

e trovò nel tempio Demetra dallo scuro peplo;

e a lei rivolgendosi, pronunciò le parole alate:

«Demetra, il padre di Zeus, che nutre immutabili disegni, t’invita

a tornare con la stirpe degli dei che vivono in eterno:

suvvia, non resti inascoltato il mio messaggio, che viene da Zeus».

Così parlava, supplicando; ma il cuore della dea non si lasciò persuadere.

Allora il padre mandava gli dei beati che vivono in eterno,

tutti, uno dopo l’altro: a turno giungendo

la invocavano, e le offrivano molti magnifici doni,

e i privilegi che desiderasse ottenere fra gl’immortali:

ma nessuno riusciva a persuadere la mente e l’animo

della dea adirata nel cuore: ella respingeva con durezza le loro parole.

Diceva infatti che non sarebbe più tornata all’Olimpo odoroso

e non avrebbe consentito che crescessero i frutti della terra,

prima di aver veduto coi suoi occhi la figlia dal bel volto.

E quando ebbe udito queste cose, Zeus dal tuono profondo, che vede lontano,

inviò all’Erebo l’uccisore di Argo, dal caduceo d’oro,

affinché convincendo Ade con abili parole

la veneranda Persefone fuori dalla tenebra densa

conducesse alla luce del giorno, fra gli dei, e così la madre

rivedendola coi suoi occhi, ponesse fine all’ira.

Obbedì Ermes, e subito verso le profondità della terra

si slanciò rapidamente, lasciando le dimore dell’Olimpo.

Trovò il dio che stava nella sua casa

e sedeva sul trono con la nobile compagna

piena d’inquietudine per la nostalgia della madre – e la madre, per l’agire

intollerabile degli dei immortali, meditava il suo tremendo disegno.

E, fermandosi presso di loro, così parlò il possente uccisore di Argo:

«O Ade dalle cupe chiome, che regni sui morti,

Zeus, il padre, mi ordina di condurre fuori dall’Erebo,

fra gli dei, l’augusta Persefone, affinché la madre

rivedendola coi suoi occhi ponga fine al rancore e all’ira inesorabile

contro gl’immortali; poiché medita un grave progetto:

sterminare la debole stirpe degli uomini nati sulla terra

tenendo il seme celato sotto la zolla, e distruggendo le offerte

che spettano agl’immortali. Tremendo è il suo rancore; e non si unisce

agli dei, ma, in disparte, entro il tempio odoroso d’incenso

siede, e abita l’aspra rocca di Eleusi».

Così egli diceva; e il signore dei morti, Aidoneo, accennò un sorriso

con le sopracciglia: né si ribellò all’ordine di Zeus, il sovrano.

E premurosamente esortò la saggia Persefone:

«Torna, Persefone, presso tua madre dallo scuro peplo;

ma serba nel petto l’animo e il cuore sereni,

e non rattristarti troppo, oltre ogni misura.

Non sarò per te uno sposo indegno al cospetto degl’immortali

io che sono il fratello del padre Zeus; e quando sarai quaggiù,

regnerai su tutti gli esseri che vivono e si muovono

e avrai fra gl’immortali gli onori più grandi;

per sempre vi sarà un castigo per coloro che ti offendono,

quelli che non placheranno con offerte il tuo animo

celebrando i sacri riti e offrendoti i doni dovuti».

Così egli diceva: si rallegrò la saggia Persefone,

e subito balzò in piedi, piena di gioia; egli tuttavia

le diede da mangiare il seme del melograno, dolce come il miele,

– furtivamente guardandosi intorno – affinché ella non rimanesse per sempre

lassù, con la veneranda Demetra dallo scuro peplo.

E davanti al carro d’oro i cavalli immortali

fece preparare il signore di molti uomini, Aidoneo.

Ella salì sul carro, e al suo fianco il possente uccisore di Argo

prendendo nelle mani la briglia e la sferza

lo guidava fuori della reggia; volentieri i cavalli si alzavano a volo.

Velocemente percorsero la lunga via: né il mare,

né le acque dei fiumi, né le vallate erbose,

frenavano l’impeto dei cavalli immortali, né le montagne:

più in alto di esse muovendo, solcavano le dense nubi.

E dopo averli condotti là dove dimorava Demetra dalla bella corona

li fece fermare davanti al tempio odoroso d’incenso. La dea, scorgendo sua figlia,

si slanciò, simile a una menade sul monte ombroso di selve.

A sua volta Persefone, quando vide il bel volto

di sua madre, lasciando il carro e i cavalli,

scese di corsa, e le gettò le braccia al collo, stringendosi a lei.

Ma ben presto, mentre ancora la dea teneva la figlia tra le braccia,

il suo cuore intuiva un inganno; fu presa da un cupo terrore,

e interrompendo gli abbracci, subito le domandava:

«Figlia, mentre eri laggiù, non hai mangiato, certo,

alcun cibo? Parla, non celarmi nulla, affinché io lo sappia con te.

Così infatti, ritornando dall’aborrito Ade,

con me e col padre Cronide dalle nere nubi

potrai abitare, onorata da tutti gl’immortali.

Se invece hai mangiato, scendendo di nuovo nelle profondità della terra

lì abiterai ogni anno per una delle tre stagioni:

le altre due, con me e con gli altri immortali.

Ogni volta che la terra si coprirà dei fiori odorosi,

multicolori, della primavera, allora dalla tenebra densa

tu sorgerai di nuovo, meraviglioso prodigio per gli dei e gli uomini mortali.

E con quale insidia t’ingannò il possente dio che molti uomini accoglie?».

A lei rispondeva, a sua volta, la bella Persefone:

«Certo, madre, io tutto ti narrerò sinceramente.

Quando a me venne Ermes il corridore, messaggero veloce,

da parte del padre Cronide e degli altri dei, progenie del cielo,

a dirmi di risalire all’Erebo, affinché rivedendomi coi tuoi occhi

tu ponessi fine al rancore e all’ira inesorabile contro gl’immortali,

al vederlo io balzai in piedi, piena di gioia; ma Ade, insidiosamente,

mi porse il seme del melograno, cibo dolce come il miele,

e, contro la mia volontà, con la forza mi costrinse a mangiarlo.

Come poi egli mi abbia rapito, secondo la ferma decisione del Cronide,

mio padre, e sia fuggito portandomi nelle profondità della terra,

io ti dirò; e ti narrerò tutto, come mi chiedi.

Noi tutte sull’incantevole prato

– Leucippe e Fainò ed Elettra ed Iante,

Melite, Iache, Rodeia e Calliroe,

Melòbosi, Tyche, e Okyroe dal roseo volto,

Criseide, Ianeira, Acaste e Admete,

Rodope, Plutò, e la graziosa Calipso,

e Stige, e Urania, e l’amabile Galaxaura,

e Pallade che suscita le battaglie, e Artemide saettatrice –

giocavamo, e raccoglievamo con le nostre mani fiori stupendi,

il delicato croco e insieme le iridi e il giacinto,

corolle di rose, e gigli, prodigio a vedersi,

e il narciso, che l’ampia terra generava come il croco.

Io dunque lo coglievo, piena di gioia: ma la terra dal profondo

si  aprì, e ne balzò fuori il possente dio che molti uomini accoglie,

e mi portò via, sotto terra, nel carro d’oro

mentre gli resistevo, e levavo alte grida.

Tutto, nel mio dolore, io ti ho sinceramente narrato».

Così allora, per l’intero giorno, concordi nei sentimenti,

in mille modi confortavano l’una all’altra lo spirito e il cuore,

manifestando il proprio affetto; i loro cuori si liberavano dall’angoscia,

e l’una all’altra dava gioia, e la riceveva.

Venne poi presso di loro Ecate dal fulgente diadema

e salutò con grande affetto la figlia di Demetra veneranda:

da allora, la dea è compagna e battistrada di Persefone.

E Zeus dal tuono profondo, che vede lontano, inviò loro, messaggera,

Rea dalle belle chiome, perché riconducesse Demetra dallo scuro peplo

alla stirpe degli dei; e promise di darle,

fra gli dei immortali, qualunque privilegio lei scegliesse;

e confermò che sua figlia, per la terza parte dell’anno che compie il suo ciclo,

sarebbe rimasta laggiù, nella tenebra densa;

per due terzi con la madre e con gli altri immortali.

Così parlava; e obbedì la dea al messaggio di Zeus.

Subito si slanciò giù dalle vette dell’Olimpo

e giunse a Rario, terra ubertosa e feconda

un tempo; allora invece per nulla feconda: anzi rimaneva

sterile e inerte, e dentro di sé celava il bianco orzo,

per volere di Demetra dalle belle caviglie. Eppure, in futuro,

rapidamente si sarebbe coperta di lunghe spighe, come di una chioma,

con l’avanzare della primavera; nel terreno i pingui solchi

sarebbero stati onusti di spighe, e queste poi sarebbero state legate in covoni.

Colà Rea giunse dapprima, dal limpido etere:

con gioia si videro tra loro, e si rallegrarono in cuore.

E così parlò a Demetra Rea dal fulgente diadema:

«Suvvia, figlia, ti chiama Zeus dal tuono profondo, che vede lontano,

perché tu torni alla stirpe degli dei; e promette di darti

fra gli dei immortali qualunque privilegio tu scelga;

e ha confermato che tua figlia, per la terza parte dell’anno che compie il suo ciclo,

rimarrà laggiù, nella tenebra densa;

per due terzi con te, e con gli altri immortali.

Egli afferma che questo avverrà; e lo ha sancito con un cenno del capo.

Vieni dunque, figlia mia, obbedisci, e non serbare con troppa tenacia

la tua ira contro il Cronide dalle nere nubi;

e lascia che subito crescano per gli uomini le messi apportatrici di vita».

Così parlava, e obbedì Demetra dalla bella corona,

e subito fece sorgere le messi dai campi ricchi di zolle.

Tutta l’ampia terra di foglie e di fiori

era onusta: ella poi si mise in cammino, e insegnò ai re che rendono giustizia

– a Trittolemo, a Diocle agitatore di cavalli,

al forte Eumolpo, a Cèleo signore di eserciti –

la norma del sacro rito; e rivelò i misteri solenni,

venerandi, che in nessun modo è lecito profanare, indagare,

o palesare, poiché la profonda reverenza per le dee frena la voce.

Felice tra gli uomini che vivono sulla terra colui ch’è stato ammesso al rito!

Ma chi non è iniziato ai misteri, chi ne è escluso, giammai avrà

simile destino, nemmeno dopo la morte, laggiù, nella squallida tenebra.

Poi, quando la divina fra le dee ebbe tutto rivelato,

si avviarono per salire all’Olimpo, al consesso degli altri dei.

Colà esse dimorano, presso Zeus che gioisce dal fulmine,

auguste e venerate; beato fra gli uomini che vivono sulla terra

quegli cui esse concedano benevolenza:

subito alla sua vasta casa mandano, nume tutelare,

Pluto, che dispensa ricchezza agli uomini mortali.

Orsù, voi che regnate sulla terra di Eleusi, odorosa d’incenso,

su Paro circondata dal mare, e su Antrone rocciosa,

o Demetra, dea veneranda, apportatrice di messi, dai magnifici doni,

tu con tua figlia, la stupenda Persefone,

benigne premiate il mio canto con la prosperità che rallegra il cuore.

Ed io mi ricorderò di te, e di un altro canto ancora.