Giovanni Andrea dell’Anguillara, Le Metamorfosi di Ovidio, Venezia 1563 (I ed. 1561), IX, f. 159
Driope in arbore detta loto
Hebbe il mio padre Eurito un’altra figlia
Driope, ma non però da la mia madre.
Stupir faceano ogn’un di meraviglia
le sue rare bellezze alme e leggiadre.
Pria che facesse à lei cangiar famiglia
il troppo tardo à maritarla padre,
il biondo Dio, ch’à noi distingue l’hore,
la vide, e’l virginal le tolse honore.
Ma fu di si sublime e raro ingegno,
di si gentile, e glorioso aspetto,
ch’ogni huom d’Ecalia, o daltro esterno regno
bramava haverla, e far commune il letto.
Fra molti al fin ciascun più illustre, e degno
Andremon fu da miei parenti eletto,
cui piacque tanto seco esser legato,
che sopra ogni huom dicea d’esser beato.
Limpido ne l’Ecalia un luogo siede
cinto di dolci, e ameni colli intorno,
lo cui lito fecondo esser si vede
d’arbori, e valli, e vaghi prati adorno.
Cominciando de’colli al basso piede,
sin dove più superbo alzano il corno,
son mirti, e fanno un cerchio ameno, e vago.
A guisa d’un teatro intorno al lago.
Era venuta Driope à queste sponde
per honorar co ’l cor devoto, e grato
con ghirlande di fiori tessute, e fronde
le Dee, c’habitan l’onda, il colle, e ’l prato.
Calcando i fiori gia vicino à l’onde
con un figliuol, che ’n sen s’havea portato,
ch’ancor l’anno primier non havea pieno,
soave peso al suo candido seno.
Mentre a veder del monte il piano, e l’erto
le luci vaghe sul move per tutto,
trova che ’l pie’ del gran periglio incerto
vicino à un un loto ha il suo mortal condutto,
che ’l bel purpureo fiore havea già aperto
speme à mortai del suo futuro frutto.
Stende ella il braccio e prende il fior vermiglio
per dar trastullo al suo vezzoso figlio.
Volli io, che v’era, far lo stesso, e porsi
al man per corre un ramuscel co ’l fiore,
ma dove ruppe Driope, il ramo scorsi,
che spargea il sangue a spesse goccie fuore.
Com’io di tanta novità m’accorsi
divenni un giel, tremò la mano, e ’l core:
il fusto, e i rami suoi tremar non manco,
e venne il fior purpueo infermo, e bianco.
Loto una ninfa era in quel tronco ascosa,
[…]
Come la mia sorella il ramo schianta,
e che si vede insanguinar la palma,
che non sapea, che la fiorita pianta
desse nel sangue il proprio albergo à l’alma,
chiede perdon con prece honesta, e santa,
poi svolger vuol da lei la carnal salma,
e nel girar del corpo e de la testa,
trova, ch’una radice il pie’ l’arresta.
D’alzar pur ella il pie’ si prova, e sforza,
ma comportar no’l vuol l’avida terra:
anzi le barbe sue fa con più forza
abbarbicarsi, e penetrar sotterra.
Già il novo legno, e l’importuna scorza
le gambe in un troncone asconde, e serra.
Più ogn’hor la carne, e ’l sangue si disperde;
e trave, e scorza vien succosa, e verde.
Quando ella guarda, e vede il crudo effetto,
che sotto novo manto i piedi asconde,
con l’una mano accosta il figlio al petto,
vuol con l’altra stracciar le chiome bionde
e trova d’ira accesa, e di dispetto,
che trahe dal crin la mano piena di fronde:
poiche dal ramo il crin si vede tolto,
fa più che puote oltraggio al seno, e al volto.
Annotazione di Gioseppe Horologgi alla favola di Driope
L’infelice Driope cangiata in arbore per havere scioccamente spezzato il ramo del loto, per tenere lieto il suo figliuuolo con la vaghezza di quel fiore: ci dà essempio, che né à studio, né ignorantemente l’huomo non deve giamai fare alcuna offesa a Iddio, perché facendo ne riceverà il castigo di essere trasformato in arbore, che non è altro, che rimanere solamente nella vita vegetativa intero, perdendo l’huomo per il peccato quelle doti, che lo spingono a far operationi nobili, e degne veramente del’uomo.