Ludovico Dolce, Le Trasformationi, Venezia 1553 (II ed.), canto XIX, p. 200
Ma voglio dirvi quello, ch’adivenne
non son molt’anni a la sorella mia:
quantunque il rimembrar sempre mi tenne
col cuore acerbo; e tiemmi tuttavia.
D’un altra sua moglier, ch’a morte venne
mio padre, per non dirvi la bugia;
hebbe una figlia (ch’io d’un’altra
poi nacqui) ch’assai fu bella a giorni suoi.
Piacq’ella a Febo senza paragone,
e’ngravidolla: indi mio padre lei
diede per moglie al nobile Andremone;
che sopra ogn’altra donna amò costei.
V’era un bel lago in quella regione,
di che ’l nome contar non vi saprei,
da un lato havea un poggetto tutto pieno
di verdi mirti, in ogni parte ameno.
Vi và costei, ch’era Driope detta,
portando in braccio un piccolo figliuolo;
che tuttavia tenea la poppa stretta
ne a pena havea fornito un’anno solo.
V’ando per far di qualche ghirlandetta
dono a le Ninfe del Montano stuolo.
Non lunge al lago a la più fresca riva
v’era un loto, ch’allor tutto fioriva.
Colse Driope alquanti di que’fiori
per dargli in mano al vago fanciulletto:
io mi trovava seco; e vidi fuori
de’ propri fiori uscire il sangue schietto:
e per verace inditio di dolori
tremaro i rami: onde agghiacciommi ’l petto.
Intesi poi, che quella, ch’era pianta,
fu Ninfa gia di quella Selva santa.
E fu conversa in arbore, fuggendo
da Priapo, nemico d’honestade,
al cui fatto narrar non mi distendo;
ch’essendo intenta da altro, non accade.
La mia sorella alhor meco temendo,
e di dolor ripiena, e di petade,
perdon chiese a le ninfe di quel loco
e da quell’arbor s’allontana un poco.
Ma volendo partirsi, ritenuta
da tenaci radici, a forza resta.
Si scuote in vano, in vano ella s’aiuta,
in van si duole, in van move la testa:
ch’a poco a poco in arbore si muta:
cresce la scorza, e le fa dura vesta
volle stracciar le belle chiome bionde,
et ambedue le mani s’empie di fronde.
Il suo figliuolo, che fu nomato Anfiso,
sente le poppe dure e ’l latte asciutto.
Lo riguardava con smarrito viso
il legno, che copria già il corpo tutto:
ne potendo aiutarla, m’era aviso
seco ogni mio vigor fosse distrutto:
e desiai più volte (e fu ben degno)
d’esser ascosa anch’io sotto quel legno.
Ecco il marito, & ecco il padre arriva,
cercan Driope: & io dimostro a quelli
il loto, e l’empia scorza, che copriva
lei tutta, fuor che ’l viso e gliocchi belli.
Con l’alma sbigottita, e quasi priva
di vita, gl’infelici e meschinelli
abbraccian quella pianta; le cui fronde
stillan lagrime calde a guisa d’onde.
E, mentre, che ’l parlar non le si toglie,
diss’ella: a tutti il ver mi faccia fede,
ch’io non fei cosa, onde l’humane spoglie
perdessi, se ad un misero si crede.
S’io mento, caggin tutte le mie foglie,
e secchi il tronco de la cima al piede,
e sia poscia tagliato, & arso al foco,
di me voto lasciando il verde loco.
Ma levate il bambin, ch’io tengo ancora
fra questi rami; e fate, che sovente
sotto l’arbore mio faccia dimora,
e bei del latte, e scherzi dolcemente:
e, quando ei parlerà, che spesso alhora
ne saluti la madre humanamente:
ma che lunge da i laghi i passi stenda;
ne fiore alcun giamai d’arbore prenda.
Pensi, che in ciascun’arbore s’asconda
sotto a la dura scorza alcuna dea.
Tu padre, e tu sorella, s’egli abonda
pietade in voi (piangendo ella dicea)
non lasciate giamai, che ramo, o fronda,
di me senta ne man ne falce rea:
ne morso alcuno, che mi faccia oltraggio,
poi ch’al mondo soccorso altro non haggio.
E poscia, ch’io non posso a voi piegarmi
piacciavi d’inalzare ambe le braccia,
e di stringermi alquanto e di basciarmi,
mentre ancora di me resta la faccia.
Prendete il mio figliuolo; ch’occultarmi
sento dal legno, che ’l mio collo abbraccia.
Cresce la scorza; e senza che mi tocchi
la vostra man, da se mi chiude gliocchi.