Tisfr07

1561

GIOVANNI ANDREA DELL’ANGUILLARA, Le Metamorfosi di Ovidio ridotte da Giovanni Andrea dell’Anguillara in ottava rima, al christianissimo Re di Francia Henrico Secondo, di nuovo dal proprio autore rivedute e corrette, con le annotazioni di m.Giuseppe Horologgi, in Venetia, appresso Francesco de’ Framceschi Senese 1563, libro IV

 

Piramo l 'un dì questa coppia bella,

E l'altra il nome Tisbe havea sortito.

L'un tenero garzon, l'altra donzella,

Egli idoneo à la sposa, ella al marito.

Lor case eran congiunte, e questa, e quella

Commune un muro havean, ch'era sdrusciito:

E ver, che ‘ l fesso in parte era riposto

Ch'à tutti gli occhi anchora era nascosto.

 

Fra i più lodati giovani del mondo,

Non fu allhor nel più accorto, ne 'l più bello,

Ne di parlar più dolce, e più facondo,

Ne ch' invitasse più gli occhi à vedello.

Il volto grato, angelico, e giocondo

Non dava indicio anchor del primo vello,

Ne saprei dir chi s'havesse più parte

Nel grato viso suo Venere, ò Marte.

 

Marte tanto v'havea, quanto il facea

Virile, e vigoroso ne l'aspetto:

Le gratie havea da la Ciprigna Dea,

Che danno à gli occhi altrui maggior diletto;

Tanto, ch'ogni mortal, come il vedea,

Dicea non si trovar più grato obbietto;

E le donne il voleano tutte quante

Chi per consorte haver, chi per amante.

 

E s'ei tutti eccedea di quella etade

I giovani di gratia, e di bellezza,

Tisbe havea sì dolce aere, e tal beltade,

Tal virtù, tal valor, tal gentilezza,

Che le donne, che allhora eran più rade,

Passo d'ogni beltà, d'ogni vaghezza;

Et ogni huom'ogni etate, e d'ogni sorte

La volea per amante, ò per consorte.

 

Ma quei che da principio erano usati

Vedersi spesso insieme, e trastullarsi,

(Però che soglion quei d'un tempo nati

Per la medesma età molto confarsi)

S'erano ogni di più talmente amati,

Che non poteano ad altro amor voltarsi;

E facean poca stima ambi di mille

Ch'ardean de l'amorose lor faville.

 

Era l'amor cresciuto à poco à poco,

Secondo erano in lor cresciuti gli anni;

E dove prima era trastullo, e gioco,

Scherzi, corrucci, e fanciulleschi inganni,

Quando fur giunti à quella età di foco

Dove comincian gli amorosi affanni,

Che l'alma nostra ha sì leggiadro il manto,

E che la donna, e l'huom s'amano tanto;

 

Era tanto l'amor, tanto il desire,

Tanta la fiamma, onde ciascun ardea,

Che l'uno, e l'altro si vedea morire,

Se pietoso Himeneo non gli giungea;

E tanto era maggior d'ambi il martire,

Quanto il voler de l'un l'altro scorgea:

Ben ambo de le nozze eran contenti,

Ma no' l soffriro i loro empi parenti.

 

Era fra i padri lor pochi anni avanti

Nata una troppo cruda inimicitia;

E quanto amore, e fè s'hebber gli amanti,

Tanto regnò ne' padri odio, e malitia.

Gli huomini de la terra più prestanti

Tentar pur di ridurgli in amicitia,

E vi s'affaticar più volte assai,

Ma non vi sepper via ritrovar mai.

 

Quei padri, che fra lor fur si infedeli,

Vetaro à la fanciulla, e al giovinetto,

À due sì belli amanti, e si fedeli,

Che non dier luogo al desiato affetto

Ahi padri irragionevoli, e crudeli,

Perche togliete lor tanto diletto,

S'ogn'un di loro il suo desio corregge

Con la terrena, e la celeste legge?

 

Ó sfortunati padri, ove tendete,

Qual ve gli fa destin tener disgiunti?

Perche vetate quel, che non potete?

Che gli animi saran sempre congiunti?

Ahi che sarà di voi, se gli vedrete

Per lo vostro rigor restar defunti?

Ahi che co i vostri non sani consigli

Procurate la morte à i vostri figli.

 

Vivea dunque secreto il lor amore:

I cenni, i dolci sguardi solamente

Assicuravan l'uno, e l'altro core,

Di quanto fosse l'un de l'altro ardente.

Ahi che non trova, e non discopre amore?

À che non apre l'occhio, e non pon mente?

Havea il muro comun quel pelo aperto,

Ch'io dissi, e anchor nessun l'havea scoperto.

 

Voi prima accorti amanti discopriste

Il vitio, e 'l pel ch'à la parete noce;

Là, dove cauti poi la strada apriste

À i dolci sguardi, à la pietosa voce:

Dove le vostre lagrime fur viste,

Cui stilla il chiuso foco che vi coce:

Dove, perche troppo arde un chiuso foco,

Trovaste strada, onde essalasse un poco.

 

Là dove il parlar dolce, e pien d'affetto

Scoprì tutti i martir, tutte le voglie

De l'uno, e l'altro innamorato petto,

Ch'era di diventar marito, e moglie:

Si disse ivi de' padri 'l gran dispetto,

Che 'l vostro dolce amor colmò di doglie;

Li vi sfogaste, e vi godeste alquanto,

E vi fu mille volte hor riso, hor pianto.

 

In prima giunta l'una, e l'alta vista

Lo splendor che desia, e contempla, e gode;

Gioia infinita poi l'orecchia acquista

Del soave parlar, ch'ascolta, et ode:

Ma poi la mente quel pensiero attrista,

E tutta dentro la conturba, e rode,

Che lor rammenta il ben vetato, e tolto

E fa, ch'ad ambi 'l pianto irrighi 'l volto.

 

La donna,più veloce nel pensiero,

Più tenera di cor primiera piange;

L'huom, se bene è più forte, e più severo,

Vedendo pianger lei, l'alma trista ange:

Ella, che 'l vorria lieto, apre il sentiero

Al gaudio, e con bel modo il dolor frange;

Ride, e l'allegra; e in questo, e 'n quello aviso

La donna è prima al pianto, e prima al riso.

 

Con un bel modo à lui ritorna à mente

Qualche bell'atto, ch'ei già fece, e ride

Che 'l fe in presentia d' infinita gente,

E così ben, che alcun non se n'avide:

Ei che quel vago riso vede, e sente,

Che di dolcezza l'alma gli divide,

S'allegra, ride, e gode, e le rammenta

Qualche cosa di lei, che la contenta.

 

I cupidi occhi stan fermi, et intensi

Ne la beltà de l'uno, e l'altro amante:

Ascolta, e gode quel fra gli altri sensi,

Che scorge al cor l'alte parole sante.

À più bramato ben da lor non viensi,

Che 'l muro vieta lor, c' hanno davante;

E benche sodo il ritrovaro, e duro,

Più volte, et ella, et ei dissero al muro.

 

Poi che tu doni al dolce sguardo il passo,

Che goder possa il suo divin obbietto,

Et al parlar, che facciam cheto, e basso,

Dai via, che scoprir possa il nostro affetto;

Perche ci vieti invidioso sasso,

Che congiungiamo l'uno, e l'altro petto?

Se questo è troppo, che non ci compiaci,

Che ci godiamo almen de i dolci baci?

 

Non ti siam però ingrati, anzi tenuti,

Che scopri à gli occhi il volto, ove si specchia,

Concedi à i detti affettuosi, e muti

Che possan contentar l'amica orecchia:

Deh, perche anchora in questo non ci aiuti?

Rinova questa tua fessura vecchia:

E perche la tua gratia sia più larga,

Questa antica fenestra alquanto allarga.

 

Deh, perche non ti movi à nostri preghi?

Che non t'allarghi homai, che non ci aiti ?

E quando innanzi à noi di farlo nieghi

Deh fallo almen quando sarem partiti.

Deh perche no 'l prometti? e non ti pieghi

À nostri insino à qui vani appetiti ?

Il muro no 'l promette, e manco il niega;

Ne fuor de l'uso suo s'allarga, ò piega.

 

Tornan più volte al grato loco il giorno,

Quando senza sospetto il posson fare,

E che non hanno alcun di casa intorno,

Che ciò possa veder ne rapportare:

Poi, quando fatto v 'han tanto soggiorno,

Che temon non alcun gli habbia à trovare,

Baciando il muro ogn'un da la sua parte,

Dice. Dio ci contenti; e poi si parte.

 

Il bacio sol co 'l desiderio arriva,

E sol gode di lor l'invida pietra;

Che quei miseri giovani ne priva,

E per se se gli succia, e se l'impetra.

La donna ne l'amor più calda, e viva,

Da poi, che s'è partita anchor s'arretra;

Richiama lui che torni, e vuol, ch'ascolte

Quel, che gli ha detto mille, e mille volte.

 

L'innamorata figlia tanto l'ama,

Ha sì il pensiero in lui fermo, et intento,

Che non solo una volta il prega, e 'l chiama,

Ma talhor quattro, e cinque in un momento,

E poi quel, che da lui ricerca, e brama,

E quel, c' ha detto cento volte, e cento,

E mentre furo al loco à lor sì grato,

Non havean quasi mai d'altro parlato.

 

Partonsi e questi, e quella, e 'l luogo aperto

Ricopron pria con le medesme cose,

Che pria, ch' à gli occhi lor fosse scoperto,

Tenner quelle fessure à tutti ascose.

Ritornan poi, che 'l tempo è lor offerto,

E se le vesti e oscure, e tenebrose.

Non si ripon la notte, e l'agio n' hanno,

Ne la donna, ne l'huom non se ne vanno.

 

Quando la notte poi l'oscura veste

S'ammanta intorno, e le campagne adombra,

E la maggior la sù luce celeste,

Le tenebre à gli antipodi disgombra,

E 'l bel manto di stelle il ciel si veste,

Ogni pena d'amor gli amanti ingombra,

Questa, e quel si rammarica, e si dole,

Che tanto à rallegrarli indugi il Sole.

 

Chi potria dire ogni amorosa cura,

Che travaglia la mente à questa, e à quello,

A la donna non par d'esser sicura,

Ch'egli (come detto ha) le dia l'anello.

Conosce, ch' al parlar poco si cura

Di volerla levar dal patrio hostello,

Che se l'amante tal pensier havesse,

Ella seco n'andria dov'ei volesse.

 

N 'ha ben talhor gittato qualche motto,

Ma l 'ha veduto star tutto sospeso,

Anzi hà più volte il suo dir interrotto,

Et ha mostrato non havere inteso.

Teme, ch'egli in amor sagace, e dotto

Non habbia contra lei quel laccio teso,

Per isfogar le sue cupide voglie,

Ma che non pensi già farla sua moglie.

 

Piange, e sospira, e se ne duol pian piano,

Ne molto stà, che quel pensiero annulla,

Ne può pensar, ch'ei sia tanto inhumano,

Che cerchi d'ingannare una fanciulla.

Pensa, se non la mena più lontano,

E marito con lei non si trastulla,

Che 'l fa, perch 'egli è saggio, e indugia alquanto,

Perche crede placare il padre intanto.

 

Mentre pian pian la misera donzella

Per non si fare udir ragiona, e piange,

E questo, e quel pensier, che la flagella,

La dubbia mente sua tormenta, et ange;

De la luce del Sol lucida, e bella

Si duol, che troppo tardi esca del Gange,

Si leva, e guarda, e duolsi che Boote

Volga più che mai pigre le sue rote.

 

E se la donna hor piange, et ha sospetto,

Che non l'inganni l 'huomo, et hor s'attrista,

Che esca sì tardi il Sol de l'aureo letto

A rallegrare il ciel de la sua vista;

Non sente l'huom men travagliato il petto,

E non ha men di lei la mente trista,

Che men di lei si duol del maggior lume,

Che tanto stia ne l'ociose piume.

 

Non ha però timor, ch'ella non l'ami,

Ne che per suo piacer cerchi ingannarlo

E con finte lusinghe ordisca, e trami,

Godersi seco un tempo, e poi lasciarlo.

Ben vede quanto il matrimonio brami,

Poi ch'ovunque ei s'invia, vuol seguitarlo,

Vuol dare ogni contento à le sue voglie,

Pur che prima, che 'l dia, la faccia moglie.

 

Tutto travaglia addolorato, e mesto

Il suo letto innocente, ove si posa,

Pensa con qual ragion, con qual protesto

Poi che 'l padre non vuol, la farà sposa.

Discorre, e solve hor quel periglio, hor questo,

Ma preveder nessun puote ogni cosa.

Una notte à un partito al fin s'attenne,

Che per mal d'ambedue nel cor li venne.

 

Pensa, gita, che sia la notte oscura,

A tor con l'ombra sua la luce à quelli,

Che mentre à lor fu notte acerba, e dura,

Videro i rai del Sol lucidi, e belli.

Tornar di novo à le cortesi mura,

Che permetton, che vegga, e che favelli,

Et ordinar con lei, ch'à l'aer cieco

Si debbia preparare à fuggir seco.

 

Che vuol condurla in una altra cittade,

Dica il padre, che sà, vuol poi sposarla,

Danari, gemme, et altre cose rade,

Per qualche tempo ha ben da sostentarla.

Intanto amici havrà di qualitade,

Che potranno co i padri accommodarla,

Ma ben conviene in questo usar tal froda,

Ch'alcun di casa non la vegga, ò l'oda.

 

Passata che sarà la mezza notte,

Che vien d'un 'hora, ò due pensa d'uscire,

Allhor, che per le case, e per le grotte

Ogni huomo, ogni animal dassi à dormire.

S'uscisser prima, ò poi, forse interrotte

Sariano à lor le strade del fuggire,

Potran per via più d'un ritrovar desto,

Che van tardi à dormire, ò surgon presto.

 

E se prima esce Tisbe ne la strada,

Non li par, che sia ben, ch' ivi l'aspetti,

Perche qualcun de la stessa contrada

Non la vegga, e conosca, e non sospetti.

Ma sarà ben, che da lei se ne vada

Per questi, et altri infiniti rispetti

Fuor de la terra, ad un fonte vicino,

Dov'è il ricco sepolcro del Re Nino.

 

Quivi corrà del suo bramato amore

Quel sì soave, e pretioso frutto,

Per cui sì spesso afflitto havuto ha il core,

E per cui così raro il volto asciutto.

N'andran poi come venga il primo albore

Poco lontan, ch'ei sà il camin per tutto,

Dove havran da un suo amico in un villaggio

Cavalli, et altre cose da viaggio.

 

Questo sol dubio al fin restato gli era,

Come à quell'hora aprir potran le porte,

Che i padri lor le chiudon, come è sera,

Sì per l' inimicitia temon forte,

E per torre à lor servi ogni maniera

Di poter lor tramar vergogna, ò morte,

Se in letto son, pria che sia spento il lume,

Voglion le chiavi haver sotto le piume.

 

Conchiude al fin, che sia buono argomento

Di far le chiavi contrafar, che danno

À l'uno, e l'altro amante impedimento,

Che quando piace à lor non se ne vanno.

L'Aurora à pena havea d'oro, e d'argento

Scoperto al mondo il suo lucido panno,

Ch'ambi del letto si levaro, e furo

Quasi ad un tempo al desiato muro.

 

È ver, che sempre l'huom fu più per tempo

Non che prima di lei lasciasse il letto,

Ma v'andò sempre un gran spatio di tempo,

Pria, ch'ella à modo suo fosse in assetto.

S'affretta, e teme di non gire à tempo,

E grida con la fante, e co 'l valletto,

E chiama pigro lui, lei poco accorta

Per questa, e quella cosa, che non porta.

 

Come à lei parve essere in parte ornata,

Ma non à modo suo per la gran fretta,

Ritorna allegra, e scopre il muro, e guata,

E trova l'amor suo, ch'ivi l'aspetta.

Ode l'orecchia allhor la voce grata,

E l'occhio scopre il bel, che gli diletta,

Ma non vi fanno già quel gran soggiorno,

Che fer più d'una volta, e più d' un giorno.

 

Perche l'huom, come pria, non si distende

À dar de l'amor suo questo, e quel segno;

Ma le discopre, e fa, ch'à pieno intende

Il poco fortunato suo disegno,

Che s'altro non gliel viete, e no 'l contende,

Vuol viver qualche di fuor di quel regno,

Pur ch'ella d'accettar degni il partito

Di fuggir seco, e farlo suo marito.

 

Ella, ch'altro nel cor mai non havea,

E che s'era fra se doluta spesso,

Ch'egli quel buon partito non prendea,

Di via fuggire, e lei menar con esso,

Lieta stava ad udir, ma no 'l credea,

Fin che Piramo suo non l'hebbe espresso,

Che modo, e che maniera à tener s'have,

Per contrafare ogni nemica chiave.

 

À quel, ch'ella ha da far, tempo non mette,

Ne vuol punto mancar da la sua parte,

Ma detto à l'amor suo, ch'ivi l'aspette,

Dice à Dio, bacia il muro, e poi si parte.

Cauta, e secreta andò, ne molto stette,

Che con cera involò con studio, et arte

À gl' incauti serragli immantinente

La stampa d'ogni croce, e d'ogni dente.

 

Ritorna dove intrattenuto s'era

Piramo intanto, e ‘l chiama, e l’ode, e scorge

Pon poi sopra un baston l' impressa cera,

E l'invia per quel fesso, e glie la porge.

Ei la medesma tien forma, e maniera,

Quel ferro inganna, e alcun non se n'accorge,

Che la lima, il martel, l'incude, e 'l foco

Fer tal, che sol la sua chiave v' ha loco.

 

Si parte ei con gran studio, e affretta il piede,

E ritrova un' artefice ben dotto

E 'l prega, e li promette gran mercede,

Che voglia lavorar, ne faccia motto,

Più chiavi come in quelle cere vede,

E le vuol pria, che 'l dì splenda di sotto,

Però che pria, che 'l Sol nel mar si lavi,

Dice d'havere à far di quelle chiavi.

 

Ben conosce l'artista al bel sembiante,

À gli atti honesti, à la gentil favella,

Ch'ei malfattor non è, ma bene amante,

Che vuol goder d'alcuna donna bella.

E ben allhor si ricordò di quante

Per se ne fe ne la sua età novella,

E 'l trovò in questo affar sì ben disposto,

Che 'l contentò con diligenza, e tosto.

 

Intanto Tisbe aduna, e mette insieme

Quel poco mobil, che portar disegna,

E perche alcun non se n'accorga, teme,

Più secreta, che può, far ciò s'ingegna.

E che troppo poi stian l'affligge, e preme

Le stelle à far la solita rassegna,

Le par, che stian più de la loro usanza

À far veder la lor bella ordinanza.

 

Le par, che troppo il Sol faccia dimora

À ritornarsi al suo splendido tetto,

E non le par già mai veder quell'hora

Di giunger col suo amor petto con petto,

E gustar quell'ambrosia, che dimora

Ne le vermiglie labra, e quel diletto,

Che dà del vero amor l'ultimo segno,

Ne si può haver di lui più certo pegno.

 

Ha più d'un luogo in casa, dove sole

Percotere à cert'hora il solar raggio,

Ne sol, che già v'habbia percosso, vole,

Ma che l'habbia passato d' avantaggio.

Corre, e vi guarda, e poi del Sol si dole,

Non che s'oda però, ma nel coraggio,

Che sia quel dì si negligente, e tardo

Ad illustrar quel muro co 'l suo sguardo.

 

Lascia quel luogo, e torna al sasso aperto

E tanto, ch'andò via, che speranz'have,

Che sia tornato Piramo, e tien certo,

C'habbia con lui l'adulterina chiave.

Vi guarda, e il chiama poi, che l 'ha scoperto,

E l' è, ch'ei non vi sia, noiosa, e grave,

Teme, ch'alcun non trovi à lui sì fido,

Che voglia far quello istrumento

infido.

 

Con travaglio, e timor l'aspetta un poco,

Ma pare à lei d'haver tardato molto,

Va poi (come ha coperto il rotto loco)

Al muro, ond 'havea il piè pur dianzi tolto.

Ben crede, che 'l maggior celeste foco

Habbia à quel sasso homai percosso il volto,

E trova, e se ne duol, che non vi giunge,

Anzi le par, che sia poco men lunge.

 

Piramo intanto à suoi negotij intende,

E cerca di spedir molti partiti,

Ch'è ben, s'à gir lontan l'amor l'accende,

Che lasci i fatti suoi chiari, e spediti.

E così ben sà far, che non comprende

Alcun, ch'ei lasciar cerchi i patrij liti,

E 'l suo più gran travaglio, e grande intento

È d'ammassare insieme oro, et argento.

 

Poi, c'hebbe quelle cose à fin condotte,

Ch'erano à l'andar suo molto importanti,

À casa si tornò vicino à notte

Con gli istrumenti fidi à i fidi amanti.

E come torna à le muraglie rotte,

Trova la sposa sua, che in doglia, e in pianti

Passato havea gran parte di quel giorno,

Vedendo tanto indugio al suo ritorno.

 

Rallegrata che l'hebbe, e instrutta meglio

Di quanto havesse à far parte per parte,

Stassi poco à goder l'amato speglio,

Ma dà le chiavi à lei, bacia, e si parte,

Che pria, che l'aurea sposa il bianco veglio

Lasci, spera goderla in altra parte.

E fra le notti lunghe, c'havut ' hanno,

Questa fu la più lunga, e di più danno.

 

Il padre in guardia havea la figlia bella

Data ad una prudente, e casta zia,

Che con l'essempio buon, con la favella

La più lodata à lei mostrasse via.

Seco l'innamorata damigella

In una stanza ogni notte dormia,

E ben le convenia d'essere accorta,

Per ingannar sì diligente scorta.

 

E però havea d'un vin dato la sera

À quella vecchia accorta, e vigilante,

Il qual, con certa polvere, che v'era,

Di far dormir tant' hore era bastante.

Ben la misura havea fidata, e vera,

Che tutto havuto havea dal fido amante.

E fu quel beveraggio sì perfetto,

Che non nocque à la donna, e fe l'effetto.

 

La prende un sonno sì profondo, e grave,

Che sia pur romor grande, ella non l'ode.

Onde d'aprir la figlia più non pave

Le porte de i balcon per la custode.

E se ben l'altre notti aperti gli have,

Trovò più d'una scusa, e d'una frode,

E disse cosa haver fuor de la loggia,

Che volea torre à la notturna pioggia.

 

Et hor con core intrepido, e sicuro

Senza far' altra scusa i balconi apre,

Hor quel, che guarda verso il pigro Arturo,

Hor quel, che scopre le celesti capre.

Si duol del tardo moto, e dopo il muro

Chiude, ne molto stà, ch' ancho il riapre,

Vuol saper se ben sà, ch'è troppo presto

Quando s'alza quel segno, e abbassa questo.

 

Leva come è vicin d'un'hora à l'hora,

Che partir si dovea l'ardita faccia:

E le par meglio uscir per tempo fuora,

Che gir sì tardi, ch'aspettar si faccia.

Che vuoi fare infelice, aspetta anchora,

Fuggi il crudel destin, che ti minaccia:

Ch'io temo, che la tua soverchia voglia

Quel ben, che speri haver, non cangi in doglia.

 

Si veste, e prende un fascetto, c 'ha fatto,

Dove le cose sue più rare porta,

Ne le bisogna ferro contrafatto,

Co 'l quale si debbia aprir la prima porta,

Che non le può contender questo tratto

Le chiavi sue l'addormentata scorta,

Che mentre dorme, e sonnacchiosa essala,

Le toglie, et apre, et esce in una sala.

 

Dove non fece già d'andar disegno

Per dritto filo, ov 'ha fermo il pensiero

Di porre in opra il contrafatto ingegno,

E provar se quel fabro ha detto il vero,

Che s'al buio non gisse à punto al segno,

Le si potria confondere il sentiero,

E potrebbe tentar molti usci, prima,

Che quel trovasse, che d'aprir fa stima.

 

Come il sospeso piè la sala ottiene,

Si volge a man sinistra, e 'l muro trova,

E con ambe le mani à lui s'attiene,

Ma la destra và innanzi, e palpa, e prova.

Passa quest'uscio, e quel tanto che viene

À quel, dove ha da far la prima prova;

E dopo assai cercar la toppa incontra,

E prova, se la chiave si riscontra.

 

Se ben la fedel toppa non consente

Con varij suoi riscontri, e varij ingegni

D'essere ad altra chiave obediente,

Ch' à quella, che 'l Signor vuol ch' ivi regni:

Pur, quando scontra ogni croce, ogni dente,

E che ritrova tutti i contrasegni

,Che le diede il signor, crede al mentire

De la bugiarda chiave, e lascia aprire.

 

Allegra esce di sala, e 'l muro prende,

E tien ben à memoria ovunque passa,

Giunge à le scale, e quelle, che discende,

Conta, che vuol saper quante ne lassa.

E tanto à gire in giù contando intende,

Che si ritrova à la scala più bassa,

Giunge poi dove un ferro assai più forte

Apre, et inganna anchor le maggior porte.

 

Come il cupido piè la strada ottenne,

Al fermo loco amor così la punge,

Che quando havesse al suo correr le penne,

Non giungeria più presto che vi giunge.

Sotto l'ombra d'un' arbore si tenne,

Ch' intorno i rami suoi stende assai lunge,

D'un gelso, ch'era lì carco di frutti,

Come neve del ciel, candidi tutti.

 

Con intrepido cor ne l'herba giace,

Che forte, e ardita la faceva amore.

Hor mentre spera haver contento, e pace,

E satisfar d'ogni diletto al core;

Compare un fier Leone empio, e rapace

Non lunge, e nel venir fa tal romore,

Ch'ella, che sente come altero rugge,

Si leva, e con piè timido la fugge.

 

Dal viso il bel color subito sparse,

E s'arricciò à la donna ogni capello,

Come al raggio lunar lontan comparse

Quel feroce animal crudele, e fello.

Ne venne il picciol fascio à ricordarse,

Ch'appresso al fonte cristallino, e bello

Havea lasciato, ov'era la sua vesta,

Anzi le cadde il vel, c'aveva in testa.

 

In una oscura grotta si nasconde,

Là dove piena di paura stassi,

E s'ode mormorar pure una fronde,

Trema qual foglia al vento, e di giel fassi.

Dritto il Leone à le sue solite onde

Per cavarsi la sete affretta i passi,

C'havea pur dianzi un bue posto à giacere,

E ben satio di lui venia per bere.

 

E tinto di quel sangue, e sparso tutto,

E la bocca, e la fronte, e 'l collo, e 'l pelo,

AI fonte già così macchiato, e brutto,

E come piacque al non benigno cielo,

Fu in quella parte il rio Leon condutto,

Dove lasciato havea la donna il velo,

E spinto dal furor, che 'l punge, e caccia,

Il fiuta, in bocca il prende, il macchia, e straccia.

 

À l'arbor poi, c' ha il picciol fascio al piede,

Con maggior rabbia, e maggior furia giunge,

E quello imbocca subito che 'l vede,

E d'empia morte novi indicij aggiunge.

Da poi beve à bastanza il fonte, e riede

Dove il furor, ch'egli ha, lo sprona, e punge,

Et à pena il crudel se n'era andato,

Che giunse l' infelice innamorato.

 

Piramo anchor nel petto ha tanto foco,

Che di quel ch'ordinò, più tosto sorge,

Perche se giunge pria la donna al loco,

Troppo grand'agio à gl' infortunij porge.

À ratto andar lo stimola non poco

La porta del suo amor, ch'aperta scorge,

Che li fa vero inditio, e manifesto

Che si partì di lui Tisbe più presto.

 

Ritrova prima il vel macchiato in terra,

E d'un gran mal comincia à temer forte.

No 'l riconosce già, che in quella terra

Molte il soglion portar di quella sorte.

Ma come con più studio gli occhi atterra,

Trova segnal di necessaria morte.

Vede sangue per tutto, e nel sabbione

Conosce le pedate del Leone.

 

Deh Luna ascondi il luminoso corno,

E più che puoi, fa questa notte bruna,

Adombra il ciel tu Noto d'ogn' intorno,

E le più scure nubi insieme aduna.

Che 'l mal, ch'ad ambedue vuol torre il giorno,

E intanto passerà questa fortuna

Non trovi, e vegga, io dico, quella vesta,

Che coppia sì gentil vuol far funesta.

 

Stà con gran diligenza à riguardare,

E non può gli occhi più tor da l'arena,

E 'l piè, ch' impresso del Leon v'appare,

Quel giovane infelice à morte mena.

Discorre, guarda, e và, ne può trovare

Cosa, che non sia trista, e di duol piena,

L'orma il conduce, e fa, che trova, e guarda

Quella veste colpevole, e bugiarda.

 

Deh non dar fede misero à quel panno,

Che di così gran male indicio apporta,

E che t'astringe à creder per tuo danno,

Che senza dubbio alcun Tisbe sia morta.

Ne ti lasciar sì vincer da l'affanno,

Che vogli à giorni tuoi chiuder la porta.

Attendi un poco anchor, ch'ella ne viene,

E non ti priverai di tanto bene.

 

Come dà l'infelice i miseri occhi

Nel sangue, e prende quella vesta, e vede,

E riconosce le cinture, e i fiocchi,

E molti altri ornamenti ch'ei le diede:

Convien, che in pianto, e 'n lagrimar trabocchi

Il gran dolor, che 'l cor gli punge, e fiede,

Ben ch'in principio il duol l'occupa tanto,

Che pena à darlo fuora in voce, e in pianto.

 

Come ricuperar la voce puote,

E ch'aperte al suo duol trova le porte,

Di lagrime bagnando ambe le gote,

E facendosi udir, più che può forte,

Dice quest'acre, e dolorose note,

Dunque m 'hai tolto invidiosa morte

La mia dolce compagna in un momento,

Hor, ch' io sperava haverne ogni contento.

 

Ahi quanto, ahi quanto à noi voi fate torto

Siate stelle, destin fortuna, ò fato,

À far in questo amor rimaner morto,

Chi non ha punto in questo amore errato.

Cercammo al nostro mal trovar conforto

Con modo ragionevole, e lodato,

E 'l nostro consumar giusto desio

Con la legge de gli huomini, e di Dio.

 

Non meritava già sì giusta voglia

Da te sorte crudel tal premio havere,

Ne d'alma sì gentil sì bella spoglia,

Farsi esca di rapaci, et empie fiere.

Deh cieli per aggiugner doglia, à doglia,

Che non mi fate al men l'ossa vedere?

Chi mi mostra il camin dov 'ho d'andare,

Per trovar quel, che non vorrei trovare?

 

Oime, che molte fiere uccisa l' hanno,

E straciata co i denti, e con gli artigli,

Come fa testimonio il sangue, e 'l panno,

E gli ornamenti suoi fatti vermigli.

E divisa in più parti iti saranno

A farne parte à i lor voraci figli

Leoni, et altre fiere horrende, e strane,

Troppo dolce esca à le lor crude tane.

 

Quanto restiam panno infelice mesti

Ahi quanto, ahi quanto ben ci è stato tolto.

Tu le sue belle carni già godesti,

Io la divinità del suo bel volto.

Tù di goderle più privato resti,

Et io del frutto anchor, c'hoggi havrei colto.

Quel ben, c'havesti già, tu l 'hai perduto,

Et io quel, c'hebbi, e c'havrei tosto havuto.

 

Renditi veste, à me dolce, et humana,

Si ch' io ti abbracci, e contentar ti dei,

Ch'io baci questo sangue, e questa lana,

Poi ch'abbracciar non posso, e bacciar lei.

Deh lascia homai crudel Leon la tana,

E non venga un sol, ma cinque, e sei,

E s'à la moglie mia sepolcro sete,

Me di tal gratia anchor degno rendete.

 

Ma ben si mostra un' huom di poco core,

Quando cerca d'haver d'altrui la morte,

Dovrebbe un, ch'arde di perfetto amore,

Mostrarsi ardito in qual si voglia sorte.

Io n'hebbi colpa, io sol commisi errore,

Io le feci lasciar le patrie porte,

E se pur che venisse, io facea stima,

Doveva esser più accorto, e venir prima.

 

E se venia il Leone à l'onda fresca,

Forse c'havrei lui morto, e lei difesa,

E se pur' io di lui fossi stato esca,

Havrei salvata lei da tale offesa.

Ma vo, che vegga anchor qlunto m' incresca,

Quanto n'habbia dolor, quanto mi pesa,

Ch'al comparir di lui non mi trovassi

Per mostrar che valessi, e quanto amassi.

 

Conosca al mio morir l'alma sua degna

Di quanto, e quale affetto è 'l mio cor punto,

Che se in un core immenso amor non regna,

Non suol l'huom mai condursi à questo punto.

E perche la mia man voglio, che spegna

La luce mia, conosca, che se giunto

Io fossi à tempo, à stimar poco havea

La vita in caso, ov'io vincer potea.

 

Appoggia in terra il pomo de la spada

Per far, che con la punta il petto offenda.

Deh lumi de l'eterna alta contrada

Oprate, che qualcun quel pianto intenda,

Che per vetar, che sù l'acciar non cada,

A questo ponga indugio, e gliel contenda,

Che Tisbe già lasciato have lo speco,

E lieta vien, che vuol godersi seco.

 

E poi c'huomini, e Dei questo non fanno,

Che fate piante voi, voi che 'l vedete?

Che non cavate lui di tanto affanno?

Che non li dite quel, che visto havete?

Movete le radici à tanto danno,

A lui co i rami per pietà tenete.

Potete voi soffrir, che perda il giorno

Sì perfetto amator, giovan sì adorno?

 

E tanto più, che se 'l tenete alquanto,

Ogni poco di tempo, ogni momento,

Non fu già mai sotto 'l celeste manto

Più fortunato sposo, e più contento:

Che la sua bella Tisbe viene intanto

Per dirgli il suo timore, e 'l suo spavento,

Vuoi dirgli ove fuggisse, ove sia stata,

E come dal Leon si sia salvata.

 

Il miser disperato s'abbandona

Quando nol prende alcun, ne gliè conteso,

E lascia ruinar la sua persona

Sopra il pungente acciar con tutto 'l peso.

L'ignuda spada sua pungente, e buona

Ch'ogni altro havria più volentieri offeso,

Non può fuggir di far quel crudo effetto,

E passa al suo Signor la veste, e 'l petto.

 

Come se danno ad una valle un fonte

Acque, che vengan chiuse in un condotto,

Che in abondanza calan giù d'un monte,

Se un poco, ove è più basso, il piombo è rotto,

Manda in su l'acqua, e fa, che in aria monte

La canna, che forata è più di sotto,

Che l'onda, che in giù preme, e vien contraria,

Fa, ch'al ciel s'alza, e stride, e rompe l'aria:

 

Così del molto sangue, che sì mosse

Per voler aiutar le parti offese,

Quando il misero amante si percosse,

Quel, che corse al soccorso, tanto ascese,

Che fece quelle gelse tutte rosse,

Ch'à l'arbor testimonio erano appese,

E 'l piè tanto di lui venne à cibarse,

Che sempre i frutti poi di sangue sparse.

 

Senza haver ben lasciata la paura

La donna vien con non sicuro piede,

Ch'ogni pensiero ha posto, et ogni cura

Di non mancar de la promessa fede.

Giunge vicino al fonte, e raffigura

L'arbor dove ha d'andar: ma quando vede

I frutti bianchi suoi d'altro colore

In dubbio stà di non pigliar errore.

 

Ó sventurata, e dove ti conduce

Il pensier, c 'hai di servar bene il patto

Per poter con l'udire, e con la luce

Contentare ancho il sì cupido tatto.

Ahi quanto mal per te sì chiara luce

La Luna consapevole del fatto,

Che spande così chiara il suo splendore

Per mostrarti il tuo inganno, e 'l tuo dolore.

 

Tu speri al giunger tuo, che 'l bello aspetto

Debbia far l'occhio tuo contento, e lieto;

Che debbia il parlar dolce, e pien d'affetto

Dare à l'orecchio il cibo consueto;

Speri baciarlo, e prender quel diletto,

Che non potesti prender per l'adrieto;

E speri ancho trovar paesi esterni,

E goderti con lui poi molti verni.

 

Ma tu vorresti haver, quando il vedrai,

Misera al giunger tuo cieca la vista:

E le poche parole, ch'udirai,

Faran l'orecchia tua dolente, e trista.

Quel poco tempo morto il bacerai,

Che fia co 'l corpo tuo l'anima mista,

E i verni, che farai seco soggiorno,

Non soffriran, che vegga il primo giorno.

 

Va da quell'arbor misera discosto,

Cerca per l'orme ove il Leon s'annida,

Tanto, che trovi dove stà nascosto,

E non ti curar punto, che t'uccida.

Ó ne la fronte fa cieca più tosto

La luce, che t'alluma, e che ti guida;

Misera, ad ogni mal prima t' inchina,

Che veggan gli occhi tuoi tanta ruina.

 

Hor come meglio i frutti, e l'arbor vede,

E che non fosser tai pur sì rimembra,

Scorge, che la vermiglia terra fiede

Un, che sì muor con le tremanti membra.

Torna pallida, e smorta à dietro il piede,

Tanto, ch'un bosso il suo color rassembra,

E pian trema al principio, come il mare,

Cui cominci lieve aura à far gonfiare.

 

Ma poi se 'l vento cresce, e 'l mar tormenta

Tanto, che tutto il rompa, apra, e confonda,

Fa, che 'l suo duol con più romor si senta,

La rotta, et agitata, e torbida onda:

Così poi, che la donna mal contenta

Vede, che 'l suo mal cresce, e soprabonda,

E raffigura il suo marito fido,

Fa sentire il suo duol con maggior grido.

 

Sentir fa l'alta, e dolorosa voce,

E si batte la man, si batte il petto,

Al volto smorto, à i capei biondi noce,

E mostra in mille modi il grande affetto.

Al corpo amato poi corse veloce,

E l'abbracciò con suo poco diletto,

Sparse d'amaro pianto il corpo essangue,

E temperò col lagrimare il sangue.

 

Bacia più volte il suo pallido volto,

E chiama l'amor suo più, che può forte,

Dolce Piramo mio chi mi t 'ha tolto?

Rispondi à l'infelice tua consorte.

Chi da la vita tua lo stame ha sciolto,

Qual fato ò qual cagion ti die la morte?

Rispondi à chi tu sai, che tanto t'ama,

A la tua cara Tisbe, che ti chiama.

 

Al nome dolce, à la promessa fede

Leva Piramo allhora i languidi occhi,

E subito, che lei conosce, e vede,

Par, che dubia allegrezza il cor gli tocchi.

E tal forza al parlar la voglia diede,

Che disse, che la veste, il velo, e i fiocchi,

E l'ornamento suo di sangue tinto,

Con l'orme del Leon l'haveano estinto.

 

Volea più dir, ma la sua misera alma

Venuta era al suo fine, e fu sforzata,

D'abbandonar la sua terrestre salma,

E la moglie infelice, e disperata.

Raddoppia il grido, e batte palma, à palma,

L'abbraccia cosi morto, il bacia, e 'l guata,

E ben che 'l molto duol molto impedisse

Il suo rotto parlar pur così disse.

 

Se le mie sanguinose, e tinte vesti

Del non mio sangue ti toccar sì il core,

Perche me morta Piramo credesti,

Se ben potevi in ciò prendere errore,

Che di tua mano uccider ti volesti,

Per dimostrar la forza del tuo amore,

Che farò io, che te, mio conforto,

E veggo, e tocco, e tengo in braccio morto?

 

Io già non veggio una macchiata scorza,

Ne posso ingannar d'opinione,

Io te, te veggio morto, onde mi sforza

Amor la tua mort'empia, ogni ragione

À mostrar, che 'l mio amor non ha men forza,

E che non è di men perfettione,

E se tu fosti in te per me tant'empio,

Che debbo io far per te con questo essempio?

 

E se togliesti al bel sembiante humano

Con cor viril la viva imago, e bella,

Si come piacque al caso horrendo, e strano,

Che t'ordinò la tua maligna stella:

Amor darà tal forza à questa mano,

Se ben sono una tenera donzella,

Che chiamata sarò per l'avenire,

E compagna, e cagion del tuo morire.

 

E dove morte sol pria potea fare

Che non s'unisse il tuo bel corpo al mio,

Morte non ci potrà più separare,

Poi ch'ogni ragion vuol, che mora anch' io.

Vogliate ò padri miseri accettare

Il nostro ragionevole desio,

Che quei, ch' amor congiunse, e l'ultima hora,

Congiunga insieme un sol sepolcro anchora.

 

Tu, che co i rami tuoi bramato legno

Copri hora un morto, e dei coprirne due

Sotto cui doppio già, ma van disegno

Di goder ambo, e non di morir fue,

Serba di noi perpetuo eterno segno,

Tingi tutte di duol le gelse tue,

Fa lor del nostro sangue oscuro il manto,

Ch'altro non voglia dir, che doglia, e pianto.

 

Ma par chi tanto indugia, che non habbia

Di morir voglia, anzi la morte schive.

Da i baci estremi à le defunte labbia,

Che tanto amato havea di baciar vive.

Alza l'acciar da la sanguigna sabbia,

E pria che del veder le luci prive,

Dice queste parole, e tien ben mente

A la spada homicida, et innocente.

 

Deh poi c'hoggi la mia crudel fortuna

In vece d'ogni ben, d'ogni dolcezza,

Contra me disperata insieme aduna

Quanta fu mai nel mondo ira, et asprezza,

Terso, e lucido acciar mia vista imbruna,

E 'l mio stame vital subito spezza,

E in vece de l'usata crudeltate,

Ne l'uccidermi tosto usa pietate.

 

Sopra il pungente acciar cader si lassa,

Che forse suo mal grado il petto offende,

E tanto il peso in giù la donna abbassa,

Che giunge al caro sposo, e 'n braccio il prende.

Un peregrin non lunge in tanto passa,

E 'l pianger de la donna à caso intende,

E 'l piede à quel gridar drizza, e 'l pensiero,

Che vuol saper di quel lamento il vero.

 

Tanto di vivo à Tisbe era rimaso,

Che potè far, che 'l peregrin sapesse

Di loro amanti il doloroso caso,

E lui pregò ch' à i lor padri il dicesse.

A lei del viver suo giunta à l'occaso

Quelle gratie, che volle, il ciel concesse

Mostra il frutto al mantel quando è maturo

Quel sangue, e quel color funebre, e scuro.

 

Quel miserabil fin s'udi per tutto,

Passando andò in quest'orecchia, e in quella,

Occhio non fù che rimanesse asciutto,

Pianse ogn'un la lor sorte acerba, e fella.

Con lagrime i lor padri, e amaro lutto

Collocaro il garzone, e la donzella

In un comun sepolcro, e i ricchi marmi

Fer d'accordo segnar di questi carmi.

 

Qui stan Piramo, e Tisbe; amansi, e danno

Ordine d'ire al fonte, ella s' invia.

Viene il leon, fugge ella, e lascia il panno;

L'insanguina il Leon, beve, e va via.

Le vesti uccider poi l'amante fanno,

Ond'ella apre al morir l'istessa via.

E quando l'una, e l'altra alma si svelse,

Tinser del sangue lor le bianche gelse.

 

Così contava Alcitoe, e in tal maniera

L'amor dipinse, e le bellezze conte,

Et ogni lor miseria così intera,

E con parole sì veraci, e pronte,

Ch'ogni donna sforzò, ch'ad udir era,

À far de gli occhi lagrimosa fonte,

E tutto fe con sì pietoso affetto,

Che nel lor lagrimar trovar diletto.

 

Conchiusa c'hebbe Alcitoe la novella,

Dovea parlar Leucotoe, che cuciva,

E de la terza era maggior sorella,

E non men de la prima accorta, e viva,

E lavorava una camicia bella,

E nel collar, ch'allhor di seta ordiva,

Pingea di color verdi, bianchi, e ranci,

Di cedri un vago fregio, e melaranci.

 

Con più d'un spillo in bassa sede assisa

Sopra un picciol guancial, c' ha in sen, conficca

Un capo del collar, ch'ella divisa,

Poi la sinistra à l'altro capo appicca,

Secondo l'occhio poi la destra avisa,

L'ago con diligentia appunta, e ficca,

Lo spinge poi che l' ha giusto appuntato

Co 'l dito lungo di metallo armato.