1553
LODOVICO DOLCE, Le Trasformazioni di m. Lodovico Dolce, in Venetia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari e fratelli, 1553, canto ottavo
et ella incominciò: ne la cittade,
che fe' Semiramis forte e possente,
fu un giovine gentil, la cui beltade
non hebbe paragon ne l'Oriente.
d'egual bellezza a lui, d'eguale etade
v'era una giovanetta parimente.
Piramo il giovinetto si dicea,
e la giovane Tisbe nome havea.
la vicinanza de le case loro;
ch'altro non dividea , che un picciol muro,
fe , che notitia e amore in fra costoro
nati ambedue quasi in un tempo furo.
crebbe l’amor; che con gli strali d’oro
ambi ferì, ne trovò assalto duro
quale fanciul, ch'è si pronto a nostri danni:
dico crebbe l'amor, crescendo gli anni.
e divenuti ancor marito e moglie
sariano insieme, se non fosse stato,
che s'opposero i padri a le lor voglie,
e 'l connubio vietar caro e bramato.
ma non si pul impedir, ne ben si toglie
effetto, che nel cielo è destinato:
e , quanto piu si copre in chiuso loco,
tanto con maggior forza avampa il foco.
non volsero, ch'alcun prendesse cura
d'esser tra loro interpre e messaggero
di quell'amor, che con egual misura
ardea ne 'petti lor casto e sincero:
ma trovaro nel muro una fessura,
per cui potean parlarsi di leggero;
e mai prima d'alcun non si comprese,
ma che vede Amor chiaro e palese.
e, dove pira ne i Tempi, e al fenstra
eran gli occhi de l’alma ambasciatori;
Del muro havendo occasion si destra,
con parole scoprian gli accesi cori.
questa da dritta, e quel da la finestra
parte, secreti e di sospetto fuori
a la fessura, donde l'un potea
l'altro veder, Amor spesso trahea.
e' ver, che quello aperto era si stretto,
ch'a pena altro potea, che le parole,
e' l fiato d'ambedue favi traggetto;
cosa, che troppo a l'uno e a l'altro duole.
onde sopesso l’ardente giovenetto,
ch'a i raggi si struggea del suo bel Sole,
del muro si dolea, pur, come havesse
quello intelletto; e del suo mal godesse.
nemico del mio bene invido muro,
in che t'havem, diceva, offeso noi?
ch'essendo qui lo star lungo e sicuro,
no ci lasci congiungere ambedoi.
ma , fe a tanto giori fè crudo e duro,
sol di questo cortese esser bene puoi,
che almen per mitigar nostri tormenti
siamo de' dolci basci ambi contenti.
ma per altra cagion non fia giamai,
ch'i ti sia ingrato, e di lodarti parco;
ch'a le parole nostre tu pur dai
per l'orecchie di noi spedito varco.
cosi sfogavan gli amorosi lai
l'uno e l'altro d'affanno e doglia carco,
gli affettuosi Amanti; e la piu parte
del di spender soleano in quella parte.
e, quando il Sol bagnava ne l'Oceano
i bei crin d'or, lasciando il ciel oscuro,
dopo molti sospiri e si toglieano
l'un da l'altro combiato acerbo e duro:
e poscia, ch basciar non si poteano
insieme; e questo e quel basciava il muro:
e ben creder vogl'io che' l loco istesso
tocco da i basci loro ardesse spesso.
poi, ch'apparendo la vermiglia Aurora
facea sparire i bei notturni fochi;
saettandogli Amor, senza dimora
si conduceano a quei secreti lochi.
in fin, perche' l desio troppo gli accora;
ch'erano i lor contenti e freddi e pochi;
deliberaro (e queste fur l'estreme
conclusion) di ritrovarsi insieme.
conchiusero d'uscir celatamente
de le lor case, e fuor de la cittate,
quando la notte ad acquestar la gente
apporta l'hore sue piu dolci e grate:
che potriano ingannare agevolmente
le domestiche guardie addormentate.
e, quanto a la città, sapeano certo
d'un portellin, che si teneva aperto.
il loco, ove doveano ambi trovarsi
(che quella giudicar parte sicura)
fu un largo piano, ove soela posarso
del Re Nino a que' dì la sepoltura:
appresso de la qual co' rami sparsi;
che da lugne scoprian grata verdura,
v'era un Moro bellissimo, e di frutti
carico, bianchi e ben maturi tutti.
A l'arboro vicin correva un Fonte,
ch'al la vista parea vivo cristallo.
quivi ridursi poi, che' l Sol tramonte,
ditermina, per non vi gire in fallo.
ne mai parve , che' padre di Fetonte
havesse guasto e zoppo ogni Cavallo;
come parve quel giorno a i cari amanti
ne lardente desio fermi e costanti.
ma poscia, che dal ciel Febo spario;
e l'usata quiete al mondo porse
la notte, che tronando con l'oblio
dal sen d'Atlante, ov'egli cadde, forse;
Tisbe di casa, e de la terra uscio
secreta si, ch'alcun non se n'accorse;
e giunse (perche Amor la fece audace)
ove di Nino il gran sepolcro giace.
e stanca da la insolita fatica
del camin, per pigliar alcun ristoro
si pose la gentil cortese amica
di Piramo a seder sotto quel Moro;
ma Fortuna a gli amanti empia nimica,
che volea disturbar la gioia loro,
fe, ch'una Leonessa, che veniva
fresca dal pasto, a la Fontana arriva.
questa al bosco vicin d'alcune Fiere
s'era pasciuta; e come have in costume,
a quella fonte elle veniva a bere,
e di bocca le uscian sanguigne spume.
Tisbe assai di lontan l'hebbe a vedere;
che la Luna splendea con chiaro lume;
e spinta da la subita paura,
rivolse il piede a una Spelunca oscura.
Ma ne fuggire un bel candido velo,
Ch'ella teneva al bianco collo avvolto,
le cadde assai vicino al verde stelo
del Moro, afflitta e pallida nel volto.
la leonessa nel vivace gelo
la sete estinse; e poi, che satia molto
fu di quel ber, levato alta la testa
si mosse per tornar ne la foresta.
e vedendo il bel velo, immantinente
sopra gli pon la sanguinosa bocca;
e squarciollo in piu parti il fero dente,
lascinandolo vermiglio, ove lo tocca.
Piramo, benche Amor de la sua mente
havesse tutta in suo poter la Rocca,
(qual fosse la cagion di questo errore)
piu tardo usci de la cittade fuore.
E, come al Fonte s'avicina, vede
ne l’herba del Leon l'orme novelle;
che di temer grave cagion li diede,
miser di Tisbe sua triste novelle.
ma vedendosi poi dinazi' l piede
il sanguinoso vel, crudeli stelle,
crudelissimo ciel, replico spesso,
tenendo il fin de la sua Donna espresso.
e piangendo dicea, perche mi doglio
de le stelle , del ciel, del l'empia fonte?
io stesso fui cagion del mio cordoglio,
io stesso Tisbe mia ti diei la morte.
Ch'io non dovea (se dritto estimar voglio)
giovanetta di notte e senza scorte
mandarti in luogo di perigli;s'io
pria non veniva, o teco il piede mio.
ben eri tu di lunga vita degna;
ma io senza di te viver no deggio.
dunque qualche Leone, od Orso venga
a divorarmi, per pietà lo cheggio.
ma l' huom, che piu fra noi di viver sdegna,
quando d'ongi suo ben tolto è di seggio;
ben è timido e vil, se morte brama,
e lei, chè nel suo braccio, aspetta e chiama.
cio detto, il velo lacerato prende,
e ne va sotto l'arbore funesta:
quivi in terra piangendo lo distende,
e lo bascia con faccia oscura e mesta.
poi disse, il sangue mio, che ti si rende
hor, ch'altro verso lei far non mi resta,
per testimon d'amor fedele e buono,
prendi velo gentil, qual lo ti dono.
col fin de le parole il giovinetto
la spada, ond'era cinto, trasse fuore;
e se l'ascose infino a glielsi in petto,
e cadde, come suol languido fiore.
ma pria pallido e bianco ne l'aspetto,
ancor vivendo il natural vigore,
de la mortal ferito il ferro trasse,
quasi , che di tal fin si vergognasse.
percosse con le rene il verde smalto,
e restò verso' l ciel la faccia esangue.
de la ferita uscendo andò tant'alto,
che bagnò i frutti de la pianta il sangue.
cosi veggiam far impoviso assalto
spicciando fuor, quando il forame langue,
di cava Tromba, ove si volge e stende
l'acqua, che verso' l ciel diritta ascende.
e le More, che bianche erano avante,
prefer sembianza, come hor l' hanno, oscura.
il sangue fece effetto somigliante,
che penetrò nella radice dura.
in tanto per trovare il caro amante,
ripiena ancor d'affanno e di paura
lasciò lo speco la Donzella; e tenne
il calle si , ch' a la Fontana venne.
lo va cercando in questa parte e in quella
con l’animo e con gli occhi: e gia volea
trista contargli il gran periglio; ch'ella
con molto suo timor fuggito havea:
quando sotto la pianta ombrosa e bella
vede, che steso il giovane giacea:
ma guardando le negre More, un poco
dubitò pria, che quel non fosse il loco.
a questo palpitare il corpo vede,
l'herba battendo del suo sangue molle,
ond'ella per fuggir rivolse il piede,
e di colore e d'animo si tolle.
ma poi che' l ver di lui le fece fede,
non è da dimandar, se morir volle.
corsero ambe la mani al petto e a i crini,
e offese il volto , e i begli occhi divini.
sopra il misero corpo ella si stende,
e la ferita col suo pianto lava,
benche' l fervido humor, ch'entro vi scende,
fosse tinto del sangue, ch'abondava.
bascia la bocca, che col gelo offende
morte, che tutto' l corpo circondava.
bascia la fredda bocca: e qual ria forte
dice Piramo mio t' ha dato morte?
qual mi ti toglie stella invida avara
inanzi tempo? oime, che non rispondi,
poi che ti chiama la tua Tisbe cara;
l'alma di cui dentro' l tuo petto ascondi?
Piramo aperse a la dimanda amara
gli occhi, e parve che fossero giocondi.
aperse gli occhi, e riguardolla; e poi
li chiuse; e giunse al fine de' giorni suoi.
lungo sarebbe, e troppo uscir di strada,
s'io volessi contar tutti i lamenti,
onde fe risonar quella contrada
Tisbe con voci languide e dolenti.
Ma poi, che presso a lui la ignuda spada
vide, & il velo suo; gli occhi piangenti
tornado al volto; hor veggio chiaro e piano
disse, che Amor t' ha ucciso, e la tua mano.
de la mia morte la fallace stima
e' stata del tua vera cagione:
ma, se quello, che in te potuto ha prima,
hor potrà in me, vedrassi al paragone:
e che me stessa con la morte opprima,
se de la tua fui causa, è ben ragione.
se causa fui di questi empi guadagni,
e' giusto, ch'al morire io t'accompagni.
e, come non potea da me partirti
o perduto mio bene altro, che morte:
cosi ne morte ancor potrà rapirti;
che un cuore, un ferro, una man salda e forte
ne accoppierà fra gli amorosi spirti,
che al nascere, e al morir legò una forte;
et hor questo mio braccio in questo petto
farà Piramo mio si degno effetto.
ma voi crudeli genitori nostri
di tanto siate a noi dolci e pietosi,
ch'insieme il corpo de' figliuoli vostri
in un Sepolcro si rinchiudi e posi,
accio, che lungo tempo si dimostri,
che, si come due cor fidi amorosi,
strinse un voler in fra due morti espresso;
cosi chiuda due corpi un marmo istesso.
e tu, ch'un corpo sol fra questi rami
copri, e fra poco due ne coprirai;
se far del sangue testimonio brami,
onde bagnato fosti, e piu farai;
arbore, che non so, com'io ti chiami,
quel sempre ne i tuoi frutti serberai.
cosi disse: e la spada in se rivolse,
che di donde giacea, pallida tolse.
e con quella, che calda trovò ancora
del fresco sangue, il petto ella s'aperse:
e cadde presso al caro Amante alhora,
e nel lago comun tutta s'immerse.
il pietoso desir tra piccol fora
Giove adempì; che , come il sangue asperse
que' frutti; cosi alhor cangiando tempre
il vermiglio color serbaro sempre.
e dolenti di loro empia sventura
gli afflitti padri, e conoscendo tardi,
che mal s'estingue amor, ch'ordi natura,
per asprezza d'altrui, ne per riguardi,
ambi in una medesma sepoltura
(che non è alcun, che la degn'opra tardi)
dopò molte querele e molti pianti
fecero poner gl'infelici amanti.