1522
NICCOLÒ DEGLI AGOSTINI, Tutti li libri de Ovidio Metamorphoseos tradutti dal litteral in verso vulgar con le sue allegorie in prosa et istoriato, stampato in Venetia per Iacomo da Lecco ad in stantia de Nicolò Zoppino e Vincentio di Pollo, 1522, IV, fol. 34, 35, 36
Piramo un damigel di babilona,
fu molto bel, costumato, e cortese
sì come la sua historia ne ragiona
e come la tua fama è già palese
costui il qual havea gientil persona
d‘una vicina sua molto si accese
nomata Tisbe de benignio affetto
la qual anch’essa amava il giovinetto.
Costor s’havean da fanciulli allevati
insieme, E si potean sempre vedere
per esser sempre in vicinanza stati
e per esser de ciel cossì volere
e se haverieno insieme maritati
ma li lor padri fur d’altro parere
che quando la fortuna un huom destina
a tristo fin, a quel dritto camina
La casa de Piramo propinqua era
a quella di sua Tisbe per ventura
e si parlavan da matino, E sera
secretamente per una fessura
c’haveva fatta, per che ciascun sera
di fidiamenti, la crudel sciagura
nel mur che in le lor ciambre rispondea
dil che sommo diletto ognun n’havea
E quando ogniun di lor se ritrovava
A la fessura con doglia aspra, e rea
De la fortuna si rammaricava
Perchè abracciar l’un l’altro non potea
Pur finalmente la ringratiava
Di quel poco piacer che i concedea
E quando hora venia del partir duro
Ciascun basava dal suo canto il muro
A la fin come vuolse lor destino
De ritrovarsi insieme ordine diero
Fuor de la terra ad un fonte vicino
Un miglio lungi da ciascun sentiero
Presso a la sepoltura dil re Nino
Che già di babilona hebbe l’impero.
Senza alcun fallo la notte sequente
Acompagniati sol d’amor ardente
Datto c’hebbero l’ordine fra loro
Tisbe sol per non esser conosciuta
E per dar fin al pensato lavoro
Come colei che non si pente, o muta
Uscendo de la terra a un gelso moro
Andò senz’esser da nessun veduta
Era quel gielso tral fonte, el sepulcro
Fatto d’un marmo bel, lucido e pulcro
Sotto quel arbor se n’andò costei
Per aspettar il suo caro amatore
E così stando vide verso lei
Venir una leoncia con furore
Sol per farli sentir l’ultimi omei
Ma Tisbe si levò con gran timore
lassando i panni e con celeri passi
Da quella si occultò fra sterpi, E sassi
La Lionella dispietata e fiera
La dove Tisbe i panni havea lassati
Giunse correndo con sembianza altera
E quelli con li artigli hebbe stratiati
E perchè tutta di sangue tinta era
Fu da lei tutti quanti insanguinati
Del sangue d’una cerva che di poco
Uccisa havea non guari de quel loco
Il bel Piramo giunse al fonte intanto
E di sua Tisbe i sanguinosi panni
Vide, e so pressi cominciò gran pianto
Come pressago di futuri danni
Perchè non la vedendo il alcun canto
Pensò c’havuessi li suoi floridi anni
In quel loco finiti, essendo stata
Da qualche horribil fiera divorata
Poi dicea sequitando il suo lamento
Qual è peggior de la mia dura forte
C’hoggi che mi credeva esser contento
Mi veggio a caso sì misero, e forte
E per esser qui giunto pigro, e lento
Io son stato cagion di la sua morte
Che se un poco più inanzi gli arivava
La fiera me, non lei qui divorava
Poi si voltava a le selvaggie grotte
A valli, a monti, a piagge, a colli, a boschi
E lacrimando con voci interrotte
Diceva o selve incolte, o lochi foschi
E voi rive dal mar fiaccate,e rotte
Che non mandate con rabiosi tocchi
A divorarmi qualche fiera ria
Per far vendetta de la donna mia
Alfin come fu ben rammaricato
E c’hebbe pianto assai quel giovinetto
Trasse la spada che portava a lato
E in terra il pōmo, e poi la punta al petto
Mise, come suol far chi abbandonato
Si vede d’ogni ben, d’ogni diletto
E appoggiandossi a quella con furore
Si passò il bianco petto, e il mesto core
Tisbe poi c’hebbe fatto alcun so giorno
Fra quei diruppi, come i parve l’hora
Ne ritornar, al fonte fè ritorno
E vide il suo Piramo il qual anchora
Non era morto, ma con grave scorno
L’anima uscir volea del corpo fora
Quando la flitta, e misera fantina
Trasse un gran grido, e disse ahime tapina
Ahime tapina questo el mio Piramo
Il qual ucciso s’ha per amor mio
Ahime questo e colui chotanto amo
Per me giunto a tal fin malvagio, E rio
O come in punto reo qui giunti siamo
Perché la vesta che lassai qui io
Da la leonza rotta, e insanguinata
Sola cagion di la sua morte é stata
Così dicendo con pianto disciolto
I bei capei del capo si stratiava
Con ambe man percotendossi el volto
E ad alta voce il so amador chiamava
Dicendo signior mio chi mi tha tolto
Odi la Tisbe tua che sì t’amava
Odi colei che poi che fai partita
da lei, senza di te non starà in vita
Piramo ch’era gia da se diviso
Come il nome di Tisbe udì nomare
Levando gli occhi la remirò fiso
E apri la bocca per voler parlare
Ma non potendo con il smorto viso
La salutò ch’altro non puote fare
E in loco di parole alhora allora
E spirito del corpo mandò fora
Quando che Tisbe del spirar s’acorse
Del fido amante biastemò cupido
E sopra il ferro acuto il petto porse
Poi verso Giove con pietoso grido
Disse signior la cui potenza forse
Mi agiutera se anch’io quivi mi occido
A unir insieme con quel ch tanto amo
Poiché congiuti in vita non si habiamo
E tu che testimon stato serai
Del nostro fin acerbo, e doloroso
Arbor più frutti bianchi non farai
Com’eri usato pel caso pietoso
Anzi vermigli adesso i produrai
Poi che seran del nostro doloroso
Sangue le tue radici tutte tinte
E l’alme di le fragil scorze extinte
Così poggiando il petto su la spada
Finì del viver suo le sue brevi hore
E cade ov’era già sopra la strada
Adosso del suo sfortunato amore
Alhor perchel suo prego in vannō va
Giove che di lor fin hebbe dolore
Da lor sangue al tronco del gielso mandoe
E i frutti bianchi in vermigli cangioe
Passò la notte e con suoi raggi ardenti
Il chiaro Phebo rimenando il giorno
Uscì de l’oceano,e li parenti
D’ambi li amanti con gravoso scorno
Per non trovarli fur mesti e dolenti
E tanto hor quinci hor quidi ricercorno
Che fur veduti fatti il gielso moro
E dentro a la città portati foro
Alfior con molti affanni, e disconforti
Fu da ciascun prudente giudicato
Che loro per amor si fusser morti
E li ordino un sepulcro molto ornato
Nel qual gli adolescenti, e mal accorti
Fur posti essendo così destinato
E quei ch’amor in vita non congiunse
La morte in un sepulcro insieme asumpse.
Allegoria di Piramo
A tramutatione delle more come divennero vermiglie, la presente fabula e historica, imperho che vero fu che in Babilonia Piramo e Tisbe se uccisero per amore, e questo fu al tempo di Semiramis regina di Babilonia. Di la quale Dante nel Primo de l’inferno recita e dice Questa è Semiramis di cui si leggie, c’ha l’uso de lusuria fu sì rotta, che libito fe licito in sua leggie, perho che tolse il proprio figliuolo per marito. Chelle more diventassero vermiglie ‘questo pone lo autore per figura a demostratione, con cio sia chelle more, quando sono per fiorire apaiono bianche e come si cominciano a maturare diventano vermiglie, così quando lhomo ella donna sono in purità e castità sono bianchi senza macula ma poi che sono presi dalla libidine diventano vermigli per loncendio della lusuria. E poi si tramutano in neri e tenebrosi per lo peccato, come la mora negra che come tu la tocchi imbratta. Così chi conversa con tali peccatori non po essere che alcuna origine de peccato non acquiste, e anche spesse volte per carnal amore si acquista la morte e per troppa lusuria come avenne a Tisbe e a Piramo.