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1404-1405 ca.

CHRISTINE DE PISAN, La Città delle Dame, libro II, fol.lvij

Testo tratto da: P. Caraffi (a cura di), Christine de Pisan, La cité des Dames, Luni editrice, Milano-Trento 1997.

“Ovidio, come sai, racconta nel suo libro Le Metamorfosi che nella città di Babilonia vivevano due nobili e ricchi signori, vicini così prossimi che i muri dei loro palazzi erano confinanti. Avevano due figli, belli e avvenenti come nessuno. Uno era un ragazzo di nome Piramo e l’altra una fanciulla che si chiamava Tisbe. Questi due giovani fin dall’età di 7 anni erano nella più completa innocenza, si amavano già così perfettamente che non potevano stare l’uno senza l’altra. Ogni giorno non vedevano l’ora di alzarsi e fare colazione, per poi andare a giocare con gli altri bambini e ritrovarsi, e si potevano vedere questi due bambini giocare sempre insieme. Il tempo passò ed erano già grandicelli, più crescevano, più aumentava nei loro cuori la fiamma dell’amore. La loro intensa frequentazione alla fine fu notata e nacque il sospetto. Tutto fu riferito alla madre di Tisbe, che la rinchiuse nelle sue stanze e molto in collera, disse che l’avrebbe protetta dalla compagnia di Piramo. I giovano soffrivano così tanto per questa separazione che le loro lacarime e i loro lamenti suscitavano pietà: era troppo forte il dolore di non potersi vedere. Quell’angoscia durò a lungo, ma il loro amore non diminuiva e anche se non si vedevano, si ravviva sempre più con il tempo, tanto che avevano oramai 15 anni. Fortuna volle che un giorno Tisbe, che non pensava a nient’altro, sola nella sua camera e tutta in lacrime, guardasse la parete che separava i due palazzi lamentandosi così: “Ah! muro di dura pietra ,che mi separi dal mio amico, se in te ci fosse un po’ di pietà, ti apriresti per lasciarmi vedere colui che tanto desidero”. Non appena pronunciate queste parole in un angolo del muro scorse per caso una fessura, che lasciava intravedere un raggio di luce. Con la fibbia della sua cintura, perché non aveva altro utensile, prese velocemente a raschiare la fessura e riuscì ad allargare il pertugio sufficientemente per lasciar passare la fibbia dall’altra parte: in quel modo Piramo poteva scorgerla e così avvenne. Grazie a quella apertura i due amanti potevano parlarsi molto spesso, scambiandosi pietosi lamenti, alla fine, costretti da un amore troppo grande, si accordarono per fuggire dai loro genitori, durante la notte, di nascosto, e trovarsi fuori città, vicino a una fontana e a un albero di more bianche, dove andavano sempre a giocare quando erano bambini. Tisbe, che amava più profondamente, arrivò per prima alla fontana e mentre aspettava il suo amico venne spaventata dall’arrivo di un leone che, ruggendo, stava andando a bere alla fontana, e andò a nascondersi in un cespuglio lì vicino. Fuggendo, lasciò cadere un velo bianco che aveva sulla testa; il leone lo trovò e vi rigettò sopra le interiora delle bestie che aveva appena divorato: Piramo sopraggiunse prima che Tisbe avesse osato uscire dal nascondiglio e trovò il velo di Tisbe, che egli scorse sotto i raggi della luna, insanguinato e con dei resti di carne, così non ebbe dubbi che Tisbe fosse stata divorata. Provò un dolore così forte che si uccise con la spada mentre stava per morire, arrivò Tisbe e lo trovò in quelle condizioni. Grazie al velo che egli teneva stretto, capì la causa dei quella disgrazia, di cui ebbe un tale dolore che non volle più vivere. E quando vide che il suo amico aveva esalato l’ultimo respiro, e dopo molti lamenti, con la stessa spada si uccise”.