1375-1377
GIOVANNI DEI BONSIGNORI, Ovidio Methamorphoseos Vulgare, IV, cap. III, IV, V, VI, VII
Testo tratto da: E. Ardissimo (a cura di), Giovanni Bonsignori, Ovidio Methamorphoseos Vulgare, Bologna 2001, pp. 216-219
Sì come Alcitoe ebbe ditta la sua favola, cioè de Pirramo e Tisbe, cominciò a dire la sua
Favola de Pirramo e de Tisbe. Capitulo III
Retorna l’autore all’ordine lassato e dice che, sì come le tre sorelle deliberaro che se narrasse la favole de Pirramo e de Tisbe. Alcitoe, così filando, incominciò in questa forma a parlare: “ Pirramo fu uno giovane di Babillonia, bello più che nisun altro uomo, ed una donna fu in Babillonia bella più che nisun’altra. Costoro se amavano insieme ardentemente, e questo era perciò che erano vecini e ogni dì se potevano vedere, perciò che le case dell’uno e dell’altro erano congiunte insieme; e costoro se cominciarono in puerizia ad amare e volentieri se serriano congiunti insieme per matrimonio, se non fosse che li padri loro non volevano, e la cagione era perché li padri loro non erano de par condizione. E fra lle case loro era un muro, el quale era communo dell’una e dell’altra casa, in lo quale era una rottura, la quale non era anco per altro stata veduta che per costoro, e costoro la sapeano bene, perciò che l’amore fa ogni cosa sapere. Ogni dì andavano in quel luoco a parlare insieme, ed in scambio de li basci se soffiavano l’uno a l’altro, perciò che per la grossezza del muro non se potevano appressare. E quando se partivano, ognuno dal suo lato basciava el muro, e molte volte parlavano al muro dicendo: “O dispiatato muro, perché non hai tu in te alcuna finestra tanto larga che noi ne potiamo basciare? nientedimeno noi te rendemo grazia di questa piccola crepatura”. E ragionavanse spesse volte insieme, pensando come se potessero insieme retrovare; e ragionando molte volte, ordinanaro de andare insieme fora della cittade de Babillonia a una bella fonte appresso al sepolcro del re Nino, fuora della città uno miglio”.
Come Pirramo e Tisbe se partirono de Babillonia. Capitulo IV
“Ordenato che ebbeno Pirramo e Tisbe de partirse, se partirono una notte ed ingannaro le guardie. Tisbe fu la prima che andò e pusese li panni in capo, ed usciò fuor della città ed andò e fissese al ditto sepulcro, appresso della ditta fontana sotto a uno arbore, el quale aveva li frutti bianchi. Ma così stando, ecco venire una lionessa con grande impeto e, quando Tisbe la vide, lassò cadere li panni, li quali avea sopra le spalle, e, fugendo, se nascose in uno luoco fra colli ed arbori. La lionessa, trovando quelli panni, sì li prese e tutti li squarciò con la bocca, la quale aveva insanguinata d’uno cervio ch’avea magnato. Intanto ecco venire Pirramo, ed andò al sepulcro e guardò e vidde li panni insanguinati, allora incominciò a temere che Tisbe non fosse morta dicendo: “Tisbe è morta dal leone”, sì come veresimile era, e stando così incominciò a lamentarse e con amaro pianto a dire”.
Come Pirramo se lamenta della sua morte. Capitulo V
“Pirramo alla fonte de contra al sepulcro de lo re Nino se lamentava, vedendo li panni de Tisbe insanguinati, dicendo: “Ohimé, misero, come so’ io stato tanto pigro che Tisbe è venuta prima di me?” Poi se voltava alle selve gridando: “O lioni, venite e delacerate ancora me, sì come avete fatto de lei, perciò ch’io sono cagione della sua morte”. Ed allora si trasse fuora la spada, la quale avea a llato, ed appogiò el pomo in terra e la ponta puse al petto lassandosi in bocconi cadere sopra della spada, e così, spianato in terra, la spada li passò el costato versando da ogni parte el sangue”.
Come Tisbe trovò Pirramo confitto dalla spada. Capitulo VI
“Tisbe, poi che fu restata alquanto, guardò se la leonessa era ancora partita per andare allo sepulcro, acciò che Pirramo non credesse ch’ella lu’ngannasse, e, vedendo che lla lionessa era partita, venne al sepulcro e guardando vidde Pirramo che stava per morire, ed allora temette perché da prima non lo conobbe. Ma quando conobbe che era Pirramo, li andò sopre percotendose ‘l petto e così piatosamente incominciò nel suo pianto a dire”.
Come le more bianche deventaro vermiglie. Capitulo VII
“Vedendo Tisbe Pirramo così confitto, sì se squarciò tutte le guance e delle sue lacrime le bagnava el volto dicendo: “O Pirramo, odi ed essaudi me,” ma ello non rispondea. Disse la donna: “Io so’ la tua carissima Tisbe che te chiamo”. Odendo Pirramo nominare Tisbe ed essendo sullo morire, aperse gli occhi ed aguardolli, ed allora morìo. Ma poi che Tisbe vidde la spada insanguinata e vidde la guaina, sì disse: “O sventurata me, costui s’è morto per lo mio amore, perciò ch’ello pensava ch’io fosse morta, vedendo la mia vesta insanguinata; ma, poi che io non li posso essere compagna nella vita, io li sarrò compagna nella morte”. E presa quella medesima spada, la ss’apparecchia al petto per ucciderse, e prima fece a li dii una orazione, così dicendo: “O dii, o padri, o parenti nostri, io vi prego, da poi che voi non voleste che noi ci congiongessimo in vita, congiongeteci in morte, cioè che ci facciate mettere in una fossa. E voi arbori, io vi prego che a memoria della nostra morte, voi debbiate oramai produrre li frutti vermigli”; e così dicendo, puse el pomo della spada in terra e la ponta se puse al petto, e lassòse cadere in terra e così morìo Tisbe. Dio, avendoli misericordia per memoria de loro amore, conduse el sangue loro alle raiche del moro, le quali mori prima erano bianchi, poi bagnate del sangue de costoro, deventaro vermiglie. Li parenti loro, guardandoli dell’altro dì e non trovandoli né per casa né per la città, se meravigliarono assai, onde cercarono tanto de fuora che lli trovarono de contra al sepulcro del re Nino. Allora immaginaro sì come per amore erano morti, ed avendo questa imaginazione, quasi come che per uno zelo de carità, li sotterrarono insieme in uno sepulcro”. E qui finisce la favola ditta per Alcitoe.
Allegoria e quarta trasmutazione delle more bianche deventate vermiglie
La quarta trasmutazione è delle more come deventarono vermiglie. La presente favola è istoriografa, perciò che vero fu per amore Pirramo e Tisbe di Babillonia se uccisero, e questo fu al tempo de Semiramis, regina de Babillonia. Che le more diventassero vermiglie questo pone l’autore per figura demostrativa, con ciò sia cosa che lle more, quando sono per defiorire, sono bianche e, poi che se cominciano a maturare, sono vermiglie. Cosi quando l’ uomo e la donna sono in puerizia ed in castità sono bianchi, senza macula; poi che sono oppressi da libidine deventano vermigli per lu fuoco della lussuria, poi neri e tenebrosi per lu peccato, come è la mora, la quale, come che tu la tocchi, te fa nere le mano. Così chi conversa con tali peccatori non pò essere che alcuna origine de peccato non acuiste, ed ancora spesse volte per carnale amore s’acquista la morte, sì come avenne a Pirramo ed a Tisbe.