1361-1375
GIOVANNI BOCCACCIO, De claris mulieribus, cap. XIII
Testo tratto da: M. Donato degli Albanzani di Casentino (a cura di), Giovanni Boccaccio, Delle donne famose, editore Gaetano Romagnoli, Bologna 1881
Tisbe vergine di Babilonia, divenne famosa fra gli uomini più per la fine dello sciagurato amore che per altra opera. E benchè noi non possiamo avere aiuto dai nostri passati di che parentado questa sia nata, fu non dimeno creduto che ella fosse vicina congiunta in Babilonia di Piramo, giovinetto di sua etade. I quali, per la vicinanza, vivendo insieme continuamente, adoperò in quelli, essendo fanciulli, la puerile affezione che, per iniqua fortuna, crescendo negli anni, essi divenuti bellissimi, l’amore della puerizia crebbe in grandissimo ardore, e quello fra loro mostravano, almeno per cenni, alcuna volta sopravvenendo la maggior etade. E certo, essendo già grandicella Tisbe, cercando i parenti di maritarla, cominciarono a tener quella in casa. E comportando questo amendue molto gravemente, e cercando sollecitamente perché via almeno potessero parlare alcuna volta insieme, trovarono in una parte nascosta della casa una fenditura di parete, non veduta per insino allora da alcuno. Alla quale fenditura andando nascosamente amendue più volte e, per usanza, favellando alquanto insieme, per la parete, ch’era in mezzo, meno vergognandosi, allargarono la licenza di manifestare la loro intenzione si che spesse volte palesavano i sospiri, le lacrime, i desiderii e tutte le loro passioni. Alcune volte pregavano insieme per la pace dei loro animi, di potersi abbracciare e baciare con pietà, sè e perpetuo amore. Finalmente, crescendo l’ardore, cominciarono a far consiglio di fuggire e determinarono che la vegnente notte, quello che prima potesse ingannare i suoi, uscisse di casa, andasse a un boschetto presso alla città e, ad una fonte che era presso la sepoltura del re Nino, aspettasse quello che andasse più tardi. Tisbe, forse più calda d’amore, prima ingannò i suoi, e, con un mantello addosso sola, a mezza notte, uscì fuori, e, facendole lume la luna, andò senza paura a quel bosco; e, aspettando presso alla fontana (levando sollecita la testa per ogni movimento di cose) fuggì per un leone che veniva alla fonte lasciando per dimenticanza il mantello. Il leone pasciuto, poiché ebbe bevuto, trovato il mantello, lo stracciò con l’unghie, e lasciollo al quanto insanguinato e partissi. In quel mezzo similmente Piramo, uscito di casa, giunse al bosco, e, trovato il mantello (stando attento per la tacita notte) e, vedendo quello stracciato, pensò che Tisbe fosse stata divorata da qualche fiera, e con molto pianto risonava in quel luogo, chiamando sè misero, ed essere stato cagione di crudel morte all’amata fanciulla. E dispregiando il più vivere, tratta fuori la spada, che seco aveva recata, disposto morire presso alla fontana, se la ficcò nel petto. Poco stante Tisbe, pensando che il lione avesse beuto, e fosse partito, acciò che non paresse l’amante schernito, o per non tenere quello lungamente sospeso in aspettare, pianamente cominciò a tornare alla fontana. Alla quale essendo già presso, sentendo Piramo ancora sbattersi, impaurita, poco meno che non tornò addietro. Finalmente, per il lume della luna, s’accorse che egli era il suo Piramo; e andata, correndo, ad abbracciarlo trovò quello giacere nel sangue ch’era uscito dalla ferita e già essere all’estremo di morte. La quale, come ella lo vide, da prima paurosa fu fatta, finalmente trista con grandissimo pianto, sforzossi indarno di dargli aiuto, baciandolo e abbracciandolo per lungo spazio. Ma non potendo trarre da lui alcuna parola e sentendo che non apprezzava i baci, poco innanzi desiati con tanto ardore, e vedendo l’amante finire, pensò che lo si fosse morto per non averla trovata. E disposta all’acerba morte con l’amato giovine (confortandola insieme l’amore e il dolore) tratta la spada dalla ferita, con grandissimo lamento chiamò il nome di Piramo, e pregollo che almeno egli guardasse la sua Tisbe alla morte e contemplasse l’anima sua al partire, acciò che fossero insieme in qualunque sede elle andassero: E (che è meraviglia a dire) l’intelletto di quello mancando, sentito il nome dell’amata fanciulla, non sostenendo negare l’ultima dimanda aperse gli occhi gravati da morte, e guardò quella che’l chiamava, La quale subito si lasciò cadere sopra la spada del giovine, e, sparto il sangue, seguì l’anima di quello il quale già era finito. E così l’odiosa fortuna non potè vietare che l’infelice sangue d’amendue si mischiasse insieme, i quali essa fortuna non aveva comportato che si giungessero con piacevoli abbracciamenti. E chi non avrà compassione a que’ giovani, e chi non darà almeno una lacrima a così infelice morte, sarà di pietra. Quelli si amarono in puerizia, e per questo non meritarono sciagurata morte; perché ei peccarono di giovanile etade: e non è orribile peccato per quelli che sono sciolti da matrimonio, il quale poteva seguire. Errò la pessima fortuna, e forse peccarono i miseri parenti. A poco a poco per certo si devono frenare le volontà de’giovani, acciò che, volendo contrastare al subito suo impeto, non gli sospingiamo per disperazione al pericolo. La passione de’ desiderosi è senza temperanza, ed è quasi come una pestilenza e un tormento de’ giovani, ne’ quali certamente ella si deve portare con paziente animo; perché, volendo così la natura delle cose, avviene questo insino che noi siamo forti per la etade, quando noi ci pieghiamo ad avere figliuoli, acciò che l’umana generazione non manchi, indugiando l’ingenerare alla vecchiezza. Tisbe, vergine babilonese, divenne celebre tra gli uomini più per la fine del suo amore infelice che per qualche altra impresa. Non sappiamo dagli autori antichi il nome dei suoi genitori; ma è fama ch’ella abitasse in una casa vicina a quella del suo coetaneo Piramo in Babilonia. La convivenza, quasi continua, per la vicinanza delle abitazioni, li portò, ancora fanciulli, ad un affetto puerile; ma col passare degli anni, essendo entrambi bellissimi, per loro triste destino quell’affetto si trasformò in potente ardore. Talora, almeno a cenni, essi se lo manifestavano, mentre stavano avvicinandosi alla pubertà. Quando Tisbe fu grandicella, i genitori cominciarono a tenerla in casa, coll’intenzione di maritarla. Entrambi i giovinetti mal sopportarono questa reclusione e cercavano il modo almeno di parlarsi. Così trovarono una fessura da nessuno ancora vista nella parete comune tra le due case, in una parte nascosta. Spesso furtivamente le si avvicinavano e si parlavano alquanto attraverso la parete divisoria e, senza vergogna, accentuavano le espressioni affettuose, spesso dando anche libero sfogo a sospiri e lagrime, desideri ardenti e passioni; e talora si chiedevano a vicenda, per dar pace all’animo, abbracci e baci, pietà, fedeltà ed eterno amore.