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1343-1344 ca.

GIOVANNI BOCCACCIO, Elegia di Madonna Fiammetta, cap. VIII

Testo tratto da: V. Branca (a cura di), Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, Mondadori Milano, 1998, p. 68

Egli non mi venne una volta sola nell’animo l’avere già letto nei, versi d’Ovidio che le fatiche traevano à giovani amore delle menti. Considerate adunque costoro, mi viene la pietà dello sfortunato Piramo e della sua Tisbe, alli quali io porto non poca compassione, immaginandoli giovinetti, e con affanno lungamente avere amato, e essendo per congiungere i loro disii , perdere se medesimi. Oh quanto è da credere che con amara doglia fosse il giovinetto trafitto, nella tacita notte, sopra la chiara fortuna, a piè del gelso trovando li vestimenti della sua Tisbe dilaniati da salvatica fiera e sanguinosi, per li quali segnali egli meritamente lei divorata comprese! Certo l’uccidere se medesimo il dimostra. Poi in me rivolgendo i pensieri della misera Tisbe, guardante davanti da sé il suo amante pieno di sangue e ancora con poca vita palpitante, quelli e le sue lagrime sento, e sì le conosco cocenti, che appena altre più che quelle, fuori le mie, mi si lascia credere che cuocano , però che questi due, sì come li già detti, nel cominciare delli loro dolori, quelli terminarono. Oh felici anime, le loro, se così ne l’altro mondo s’ama come in questo! Niuna pena di quello si potrà adeguare al diletto della loro etterna compagnia.