61-65 d.C.
LUCANO, Guerra civile (Farsaglia), IX
Agli ultimi confini della Libia - là dove la terra ardente accoglie l'Oceano, reso caldo dal sole che vi si tuffa - si estendevano per largo tratto i campi desolati di Medusa, figlia di Forco, non protetti dalle fronde dei boschi, non ammorbiditi da linfe, bensì scabri di rocce: su di essi si era infatti posato lo sguardo della sovrana. Nel suo corpo la natura maligna per la prima volta generò flagelli spaventosi: da quella gola i serpenti, con lingue guizzanti, produssero sibili stridenti: essi poi, cadendo sulle spalle a mo' di chioma femminile, colpivano il collo di Medusa, che ne provava piacere: proprio sulla fronte si drizzavano, ergendosi, i colubri, mentre dal pettine colava giù veleno di vipere. Questa chioma di serpenti era l'unica parte di Medusa dall'atroce destino, che chiunque potesse impunemente guardare: infatti, chi ebbe il tempo di provar paura dinanzi al suo ghigno mostruoso? Medusa consentì forse che qualcuno potesse morire, dopo averla guardata in viso? Ella affrettava repentinamente la morte, mentre questa esitava a sopraggiungere, e preveniva la paura: le membra morivano, ma trattenevano l'anima, e lo spirito, che si sarebbe dovuto separare dal corpo, si irrigidiva sotto le ossa. Le chiome delle Eumènidi produssero solo pazzia, Cèrbero placò i suoi latrati al canto di Òrfeo, l'Anfitrionìade sopportò la visione dell'idra, mentre la vinceva: di un tale mostro, invece, ebbero paura anche il padre Forco, divinità favorevole alle acque, la madre Ceto e le sue stesse sorelle, le Gòrgoni: costei era in grado di minacciare al cielo e al mare un torpore mai provato e di rendere il mondo di pietra. Gli uccelli, appesantitisi di colpo, piombarono giù dal cielo, le fiere rimasero attaccate alle rocce, popolazioni intere - ubicate vicino agli Etiopi - si irrigidirono, divenendo di marmo. Nessun essere vivente riusciva a sopportarne lo sguardo e gli stessi serpenti, che le ricadevano sulle spalle, evitavano il volto della Gòrgone. Ella trasformò in roccia Atlante, che sosteneva le colonne occidentali, cambiò in montagne i Giganti, che si ersero un giorno a Flegra sui loro piedi serpentiformi contro gli dèi che li temevano, e dal centro della corazza di Pàllade pose fine a quell'immane guerra fra divinità.
Dopoché Pèrseo - generato da Dànae e dalla nuvola d'oro - venne trasportato in quella regione sulle ali parrasie [del dio d'Arcadia, inventore della cetra e della palestra, in cui ci si ungeva il corpo,] e di colpo si fu innalzato in volo brandendo la roncola cillenia, quella roncola già macchiata del sangue di un altro mostro [di Argo, cioè, che custodiva la giovenca amata da Giove] -, la vergine Pàllade portò aiuto al fratello volante, pretendendo in cambio la testa del mostro: ai confini della terra libica impose a Pèrseo di volgersi in direzione del sorgere del sole e di volare a ritroso sui dominî della Gòrgone; gli fece imbracciare, a sinistra, uno scudo rifulgente di bronzo dorato, nel quale lo esortò ad osservare Medusa, che trasformava tutto in pietra. Il sonno riuscirebbe a trascinarla, con la morte, al riposo eterno, ma esso non la pervade mai del tutto: gran parte della chioma vigila e serpenti, protendendosi dai capelli, sono a guardia della testa, mentre gli altri le pendono sul viso e sullo sguardo ottenebrato. La stessa Pàllade guidò Pèrseo terrorizzato e indirizzò la roncola cillenia, che tremava nella destra dell'eroe, che si era girato, e mozzò alla radice l'enorme collo pieno di serpenti. Che espressione nel volto della Gòrgone, che aveva avuto il capo troncato dal colpo inferto dal ferro ricurvo! Quanto veleno sarei propenso a ritenere che uscisse dalla sua bocca e quanta morte dovevano provocare i suoi occhi! Neanche Pàllade era in grado di sostenerne la vista ed essi avrebbero reso di pietra il volto di Pèrseo, per quanto girato all'indietro, se la Tritònia non avesse sparso quella fitta chioma e non avesse ricoperto il viso del mostro con i serpenti. In tal modo l'alato Pèrseo, afferrato il capo della Gòrgone, fuggì nel cielo.
Egli avrebbe certamente abbreviato il suo volo e avrebbe solcato l'aria per la via più breve, se avesse tagliato obliquamente sulle città dell'Europa: Pàllade però gli impose di non arrecar danno alle terre ricche di messi e di risparmiare le genti: chi, infatti, non avrebbe alzato lo sguardo verso il cielo su un siffatto mostro volante? Così Pèrseo, seguendo zefiro, mutò direzione e volò sulla Libia, che non è coltivata affatto ed è invece assoggettata agli astri e a Febo: l'orbita del sole, a perpendicolo su di essa, incombe e brucia il terreno; da nessun'altra terra si proietta più in alto nel cielo, durante la notte, l'ombra della terra, che oscura la luna nel suo cammino, allorché essa, dimentica del suo errante procedere, avanza in linea retta attraverso le costellazioni dello zodiaco e non evita, verso nord o verso sud, l'ombra della terra. Nonostante quella zona fosse infeconda e quei campi del tutto improduttivi, essi accolsero la velenosa putredine, che grondava da Medusa, e la spaventosa rugiada, che cadeva da quell'orrendo sangue: esse furono rivitalizzate dal calore e si mescolarono alla sabbia, rovente e purulenta.
L'essere immondo, che lì per primo - ad opera del sangue di Medusa - alzò il capo dalla sabbia, fu l'àspide - che inocula il sonno - dal collo gonfio. Nel luogo della sua nascita cadde dal cielo una maggior quantità di sangue e stillò denso veleno: in nessun rettile, infatti, se ne è concentrato di più. Questo serpente ha bisogno di calore e non si muove mai, di propria iniziativa, verso zone fredde e non oltrepassa mai le sabbie del Nilo; ma (ci vergogneremo mai del nostro desiderio di guadagno?) da quei luoghi si importano a Roma i mezzi libici con cui dare la morte ed abbiamo fatto dell'àspide un oggetto di scambio commerciale.