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GIOVANNI ANDREA dell'ANGUILLARA, Le Metamorfosi d’Ovidio ridotte in ottava rima, In Venetia, Libro IV

 

Tutte servito havean la scura Notte

Ad una ad una già l'Hore notturne,

E l'Aurora le tenebre havea rotte,

Spargendo i fior con le sue mani eburne,

E togliea da le case, e da le grotte

Tutti i mortali à l'opere diurne;

Quando su'l pegaseo veloce ascese

Perseo, e per l'Ethiopia il volo prese.

 

Su l'Ocean scopria già il Cefeo lido,

Dove Cassiopea troppo hebbe orgoglio,

Quando più d'un lamento, e più d'un strido

S'udì tutto empir l'aere di cordoglio.

Perseo rivolge gli occhi al flebil grido,

E vede star legata ad uno scoglio

Una infelice vergine, che piange

Per lo timor, che la tormenta, et ange.

 

Ó sententia di Giove, ò sommo padre

Come la tua giustitia (oime) consente,

Che per l'error d'una orgogliosa madre,

Patir debbia una vergine innocente?

Fù di bellezze già cosi leggiadre,

E di si altiera, e gloriosa mente

La madre di colei, ch'à la catena

Piange l'altrui delitto, e la sua pena.

 

Che non solo osò dir, che in tutto il mondo

Di belta donna à lei non era pare,

Ma che non era viso più giocondo

Fra le Ninfe più nobili del mare.

Dove Nettuno stà nel più profondo

Mar, se n'andar le Ninfe à querelare,

Dove conchiuso fù da gli aquei Dei

Di punir l'arroganza di colei.

 

Manda d'accordo un marin mostro in terra,

Perche dia il guasto à tutta l'Ethiopia.

Le biade egli, e le piante, e i muri atterra,

E fa lor d'ogni cosa estrema inopia.

Sepper poi da l'Oracol, che tal guerra

Si finiria se la sua figlia propia

Desse al pesce crudel Cassiopea,

Che bella sopra ogni altra esser dicea.

 

Così per liberare il popol tutto

Da così gravi, e perigliosi some,

Cagionaro in Andromeda quel lutto,

(Che così havea la sventurata nome)

E in quello scoglio sopra il lito asciutto

Ignuda la legaro al mostro, come

Dissi, che la trovò colui, che venne

À caso lì sù le Gorgonee penne.

 

Perseo fa, che l'augel nel lito scende,

E più da presso le s'accosta, e vede,

E mentre gli occhi cupidi v'intende,

E la contempla ben dal capo al piede;

Senza saper chi sia, di lei s'accende,

Et ha del suo languir maggior mercede,

E 'n lei le luci accese havendo fisse

Pien d'amore, e pietà cosi le disse.

 

Donna del ferro indegna, che nel braccio

Fuor d'ogni humanità t'annoda, e cinge,

Ma degna ben de l'amoroso laccio,

Che i più fedeli amanti abbraccia, e stringe;

Contami, chi t'ha posto in questo impaccio,

E quale Antropofago ti costringe

À farti lagrimar sul duro scoglio,

Che 'l lito, e 'l mar fai pianger di cordoglio.

 

Contami il nome, il sangue, e 'l regio seno,

Che t' han dato per patria i sommi Dei.

Ch' io veggio ben nel bel viso sereno

La regia stirpe, onde discesa sei.

Che se quel, che in me può, non mi vien meno,

Ti sciorrò da quei nodi iniqui, e rei.

China ella il viso, e si commove tanto,

Che in vece di risposta accresce il pianto.

 

E se i legami non l'havesser tolto

Le man, vedendo ignudo il corpo tutto,

Celato avrebbe il lagrimoso volto

L'ignudo fianco, la vergogna, e 'l lutto.

Pur si la prega il Greco, che con molto

Pianto, e con poche note il rende in strutto

De l'arroganza de la madre, e poi

Palese fè la patria, e' maggior suoi.

 

Ecco, mentre che parla, un romor sorge,

E in un baleno il mar tutto turbare.

Perseo alza gli occhi, e mentre in alto scorge,

Pargli un monte veder, che solchi il mare.

Questo è quel pesce, à cui l'Oracol porge

L'infelice donzella à divorare,

E quanto mar da quel lito si scopre,

Tanto co'l ventre suo ne preme, e copre.

 

La misera fanciulla alza le strida;

Con fioco, e senil grido il padre piange;

La madre si percote, e graffia, e grida;

S'appressa il pesce ingordo, e l' onda frange.

Perseo del suo valor tanto si fida,

Ch'ad ambo dice, dal dolor, che v'ange,

Io vi trarrò, ma ben vorrei, ch'offerto

Fosse il connubio suo premio al mio merto.

 

Perseo son io, figliuol del sommo Giove,

Nipote son d'Acrisio, Argo è 'l mio regno.

E se ben stesse à me dir le mie prove,

lo non sarei di voi genero indegno.

Cefeo, e la moglie à quel parlar si move,

E questa, e quei gli dà la fe per pegno,

Che se dal mare Andromeda riscote,

Gli daran lei con tutto il regno in dote.

 

Si come legno in mar, c' hà in poppa il vento,

Et ogni vela inalberata, e piena,

Se'n vien non men veloce, che contento

Per posseder la desiata arena:

Così quel mostro vien presto, et intento

Per trangugghiar si delicata cena,

E brama posseder l'amato lito

Per contentar l'ingordo empio appetito.

 

L'innamorato giovane, che mira,

Che 'l pesce con ingorde, et empie voglie

À quello sventurato scoglio aspira,

Per torre à lui la convenuta moglie:

Gli vola incontra, e intorno poi l'aggira,

Per ottener da lui l'opime spoglie,

E per ritrar dal suo ferir più frutto,

Prima, ch' investa, il riconosce tutto.

 

L' ombra nel mar de l'huomo, e del destriero

Vede la belva mostruosa, e strana,

E lascia il cibo sensitivo, e vero,

Per seguir l'ombra fuggitiva, e vana.

Perseo su l'animal presto, e leggiero

Verso il celeste regno s'allontana,

Cala poi, qual l'astor sopra la starna,

Ma l'hasta nel suo tergo non s' incarna.

 

Qual se l'augel di Giove in terra vede

Godersi al Sol l'intrepido serpente,

E pensa por su lui l'avido piede,

Gli va da tergo, e d'afferrar pon mente

Con l'unghia la cervice, onde non crede

Che voltar possa il venenoso dente:

Tal Perseo il fiero Ceto offende, e preme

In quella parte, onde men danno teme.

 

S'accorge al fin, che se mill'anni stesse

À percotergli il dosso con quel pino,

Ó con lo stocco offender si credesse

Quello squamoso scoglio adamantino,

Sarebbe come, s'un fender volesse

Con una spada l'Alpe, ò l'Apeninno.

Tanto, che di ferirlo in parte loda,

Ch'al mostro dia più danno, à se più loda.

 

Quando egli tutto riconobbe intorno

L'horrendo pesce, ne la fronte scorse

Le due fenestre, ond'egli prende il giorno,

Ch'eran di tal grandezza, che s'accorse,

Ch'ivi maggiore à lui far si potea scorno,

E innanzi à gli occhi suoi subito corse.

Lo smisurato Ceto il morso stende

Per inghiottirlo, e Perseo al cielo ascende.

 

La lancia gli havea pria rotta su'l dosso,

Ma teneva à l'arcion sospeso un dardo,

E con quel contra l'aversario mosso

L'aventa in mezzo à l'inimico sguardo.

Il pesce appunto in quel, che fu percosso

Volle abbassare il capo, ma fu tardo.

Che con tal forza Perseo il braccio sciolse,

Ch'in quel, che'l mostro il vide, il dardo il colse.

 

Il ferro non trovò la squama dura,

E penetrò ne l'occhio alto, et intento,

Tal, che non sol fe la pupilla oscura,

Ma gli die tal dolore, e tal tormento,

Che del tutto lasciò la prima cura,

E diessi à vendicare il lume spento.

Di vendetta desio per l'aria il tira

Dove volare il suo nemico mira.

 

Vorrebbe il grave peso andare in alto

Per vendicar la scolorata luce,

E ne l'aria gli dà più d'uno assalto,

Ma 'l troppo peso abbasso il riconduce.

E nel cader fa l'acqua andar tant'alto,

Che pone in dubbio il valoroso duce,

S'egli co'l suo destrier per l'aria vola,

Ó se nuota nel mar fin' a la gola.

 

Conosce ben che l'inimico offeso

Di vendetta desio preme, et invoglia,

E se non gliel vetasse il troppo peso,

Vendicheria la sua soverchia doglia,

Ma s'alza alquanto, e poi cade disteso,

E men col salto và, che con la voglia.

Perseo mostra fuggir volando basso,

E 'l tira in alto mar lunge dal sasso.

 

Come condutto l'ha lunge dal lito,

Prende la pelle, ove Gorgon si serra;

Che gli par questo assai miglior partito,

Da terminar la perigliosa guerra.

Ma pria, che sia del zaino il capo uscito,

Volta le spalle al popol de la terra.

E poi dinanzi al mostro alza la mano,

E mostra il crudel volto à l'occhio sano.

 

Tosto, che vede il pesce il crudo aspetto,

La carne indura, e 'l sangue, e pietra fassi.

E le spalle, e la coda, e l'occhio, e 'l petto,

Con tutte l'altre membra si fan sassi.

La pancia và à trovar del mare il letto,

Son le spalle alte fuor ben dieci passi.

E 'l diametro lor tanto si spande,

Che fanno un scoglio in mar sassoso, e grande.

 

Da poi che 'l mostro più non gli contende,

E c'ha di sasso il corpo, e spenta l'alma;

Vola in una isoletta, e quivi scende,

E lega il suo destriero ad una palma.

Che prima, che si mostri al lito, intende

Quivi lavar l'insanguinata palma.

Che'l pesce, c'hor nel mare è sasso essangue,

Tutto sparso l'havea d'acqua, e di sangue.

 

E, perche in terra offeso non restasse

Il volto, che fe sasso la balena,

Certe ramose verghe del mar trasse,

E gli fe un letto in su la trita arena.

Io non credo, ch'à pena le toccasse,

Che la scorza di fuor, dentro la vena,

Alterar si sentì la sua natura,

E farsi pietra pretiosa, e dura.

 

Ma le Nereide, ch' immortali, e dive

Non han punto à temer di quella testa,

Con altre verghe assai bagnate, e vive

Voller toccar la serpentina cresta.

Vistole poi restar del legno prive,

Ne fer con l'altre Ninfe una gran festa.

Co'l seme anchor la vennero à toccare,

E quel poi seminar per tutto il mare.

 

Cosi nacque il corallo, e anchor ritiene

Simil natura, che nel mar più basso,

È tenero virgulto, e come viene

A l'aria s'indurisce, e si fa sasso.

Perseo già mondo al desiato bene

Aspira, e serpi asconde, e in aria il passo

Move, e giunge in un vol dove su'l lito

Altri il genero aspetta, altri il marito.

 

 

I lieti gridi, il plauso, e le parole

Sparser di gaudio il ciel tosto, che venne.

Ogn'un s'inchina, ogn'un l'ammira, e cole

Tosto, ch'ei lascia le veloci penne.

Cefeo, e la moglie inginocchiar si vole,

Ma Perseo à forza in alto li ritenne.

Genero già il salutano, e gli danno

Tutti i più degni titoli, che sanno.

 

Perseo legata Andromeda anchor vede,

V'accorre in fretta, e subito la scioglie:

E poi con l'honestà, che si richiede,

Saluta allegro la salvata moglie.

Indi ver la città drizzano il piede,

Dove il palazzo regio li raccoglie.

Ma far lo sponsalitio ei non intende,

Se prima à gli alti Dei gratie non rende.

 

Drizzò tre altari in uno istesso luogo

Per Giove, per Mercurio, e per Minerva.

E vi fe sù per l'hostia un picciol rogo

Con quella cerimonia, che si serva.

Un Toro, che giàmai non sentì il giogo

A lo Dio, che nel ciel maggior s'osserva,

Sacrò fra quelle fiamme accese, e chiare,

Ch' in mezzo stan nel più sublime altare.

 

À Mercurio un Vitel ne l'ara manca

Sacrò sopra altre fiamme accese, e vive;

Et una Vacca come neve bianca

À l' inventrice de le prime Olive.

Fatti quei sacrificij, altro non manca

Che goder le bellezze uniche, e dive,

E con allegro, e propitio Himeneo

Colei, che liberò, sua sposa feo.