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LODOVICO DOLCE, Le Trasformazioni, in Venetia appresso Gabriel Gioito De Ferrari e fratelli, Canto decimo, pp. 101-103
Innumerabil gente a dietro lassa,
A dietro innumerabil paesi,
Andando dritto a fil; né mai s’abbassa,
Che non muta Cavai, né cangia arnesi:
E dopo molto a l’Ethiopia passa,
Che forse vel mandar stelle cortesi,
Per liberar da fin malvagio e reo
La figliuola del re, detto Cefeo:
A morte da l’Oracol condannata
Sol per cagion, che la sua madre s’era
Sopra le figlie di Nereo vantata,
Di sue bellezze oltra misura altera.
Onde attendeva d’esser divorata
Tosto da un’Orca, grande e horribil Fera:
E stavasi legata a un sasso ignuda
Per esser pasto a quella bestia cruda.
Da lui la bella donna fu veduta
Legata, com’io dico, a mare a canto.
Una statoa l’havria Perseo creduta,
Se non vedea stillar da gli occhi il pianto;
Et una picciol’aura indi venuta
Non facea tremolar le chiome alquanto;
Come ondeggiar ne le campagne apriche
Veggiam di Maggio le mature spiche.
Stupido gliocchi ne i begliocchi tiene,
Onde saetta in lui si dolce lume,
E tal fiamma gli corre entro le vene,
Che quasi si scordò mover le piume.
O, disse, indegna di cotai catene,
A cui ti danna io non so qual costume:
Ma sol degna di quelle, onde sovente
Annoda Amore amica coppia ardente:
Non ti gravi di dir la patria e’l nome,
E perché’l ferro il bianco avorio offende
Di quel bel corpo, onde’l più chiaro nome,
Ch’ottenesse giamai, Natura prende.
Alza la bella donna gliocchi: e, come
Vede il guerriero, e le parole intende:
La faccia con le man s’havria celata:
Ma restò, ch’a lo scoglio era legata.
L’humile guancie ella piangendo inchina,
Ma sendo a favellar pregata ancora,
Comincia, ma risuona la marina,
Ecco il Mostro apparir de l’onda fuora:
E tanto a quello scoglio s’avicina,
Che non bisogna far troppa dimora.
Un pesce no, ma una gran massa pare,
Che tutto tien sotto’l suo petto il mare.
Tosto, che l’Orca spaventosa vede,
Divien la donna per paura smorta;
E di nuovo ai lamenti, al pianto riede,
Come colei, che si teneva morta.
Aiuto al padre et alla madre chiede:
L’uno e l’altra l’è presso, e la conforta:
Ambii infelici, ma con più ragione
La madre, che di ciò l’era cagione,
Essi, invce d’aiuto, che non hanno
Onde aiutar la giovan dolente,
L’abbracciano, e partir da lei non sanno;
Piangono, e morir vogliono egualmente.
Ben l’hore (dicea Perseo) resteranno
Da poter lgrimar poi lungamente.
Ma questo poco e breve tempo in tanto
Si dee porre in aiuto e non in pianto.
E presto seguitò: Quand’io dicessi,
Giove è mio padre, et ho Medusa estinta;
E che noti i miei fatti io vi facessi,
Et ogni prova mia chiara e distinta;
E per moglie la figlia vi chiedessi,
Ch’or giace nuda a questo scoglio avinta;
Io credo ben, che se discorso pavese,
Me per genero anch’or non sdegnereste.
Ma vo sol, che mi vaglia (e questo sia
Un dotarla di caro unico dono)
Il liberarla da la morte ria,
Quando a perielio di morir m’espono;
Ad impetrar da voi, ch’ella sia mia:
Questo vo, che vi sia devuto sprono
A darmi in guiderdon del mio sudore
La figlia; onde n’havrete eterno onore.
Asciugar gliocchi la promess apote
Al Re, che di morir facea disegno;
Onde gli consentì con chiare note,
come di premio a la fatica degno.
E di più gli promise anco per dote
De la grande Ethiopia il ricco Regno:
E le condition fra molte genti
Ratificate fur con molti giuramenti.
Ecco venir la bestia smisurata
Con tal celerità solcando l’onde;
Con che solca gran mar Nave spalmata,
Havendo l’aure al suo cammin seconde.
E tanto; ove la Donna era legata,
Era discosta da le ignude sponde,
Quando fionda, o la man di chi saetta
Puo mandar di lontan pietra, o saetta.
Tosto l’ardito Perseo il lido sgombra:
Quindi si leva in aria, e adopra l’ale.
L’Orca terribil, che gran tratto ingombra
Con l’ampio ventre de l’ondoso sale:
Come vide nel mar di Perseo l’ombra,
A lei si volge, a lei disdegnosa assale.
Assalta l’ombra, e Perseo, ch’era in alto,
Contra lei s’apparecchia a fiero assalto.
Come, quando dal ciel Aquila scende,
La qual abbia veduto in largo prato
Serpe: ch’al caldo Sol ristoro prende
Del tempo, che’l tenea freddo e gelato:
Ch’affin, che non l’annoi, streto lo prende
Co l’unghie torte, ond’ella ha il piede armato,
Presso la testa nel squamoso collo;
Che muover non si puo, ne dare un crollo.
Cosi dal ciel con ispedito volo
Venendo Perseo, ne le spalle colge
L’Orca; e ferilla sì, ch’ella per duolo
L’horribil testa hor qua, hor là rivolge:
Et hora dal main liquido suolo
Si leva in alto, hor dentro vi si involge.
Hora si torce, come pien di rabbia
Cinghial, ch’intorno i Can si vegga et habbia,
Perseo fugge, e da lei si tien lontano:
Ella per inghiottirlo apre la bocca;
Poi con suo dispiacer la chiude in vano,
Che’l presto volator punto non tocca:
Ilqual fra tanto adopera la mano;
E spessi colpi impetuoso accocca
Hor su la schiena di marine croste
Piena, et hora ne fianchi, hora a le coste.
Hor fere, ove la coda terminare
Vede, onde l’Orca si dibatte e langue,
E versa fuor di bocca un largo mare,
Ch’è mescolato del suo proprio sangue.
E già tutta vermiglia l’onda appare,
Tal ch’era presso a rimaner esangue:
Ma l’acqua , ch’ella versa, a bagnar venne
De’ borsechini al volator le penne.
Per questo non osando egli fidarsi
Ne le bagnate piume: che vedea
Non poter piu su l’ali sostentarsi,
Ch’el continuo spruzzar non concedea;
Sopra un picciol scoglio hebbe a fermarsi,
Ch’ogni moto di mar coprir solea.
E quinci due e tre volte il ferro mise
Ne fianchi a l’Orca, tanto che l’uccise.
Sentissi alhor per allegrezza il mito
De la vittoria rimbombare intorno;
E ne salì fino a le stelle il grido,
Ne Cefeo hebbe gia mai piu lieto giorno.
Egli e la moglie il difensor si fido
Abbraccia e ‘nchina; e senza far soggiorno
Disciolser le catene a la dolente,
Che rivestita fu subitamente.
In tanto Perseo a le vicine rive
Corse a lavar le vincitrici mani;
E fra tenere foglie, e fresche e vive
Verghe, nate in quei mar da noi lontani,
Pose la testa di colei, che prive
Facea le genti de gli aspetti umani;
Perche’l duro terren non l’offendesse,
Onde’l fiero Gorgon si corrompesse.
Ma, come i rami e le foglie sentiro
Il peso, e la virtù nociva e ria;
tutti a guisa di sasso s’induriro,
Dove teneri e molli erano pria;
Et in nuovo Coralli convertiro
La viva e usata lor forma natia.
Il cui strano miracol ne l’acque
A le Ninfe del mar fu caro e piacque.
E spargendo il lor seme giu pe rl’onde,
Vider da poi produr l’istesso effetto:
Che le verghe, ch’l mar copre et asconde,
Come senton de l’aer l’humido aspetto,
Prendon vigor, che la durezza infonde,
E diventa Coral l’arore schietto.
Così ne l’accuq è ramoscello, e fuore
Poi divien sasso; e prende altro colore.
E perche verso i Dei mostrarssi grato
Perseo religion debita muove;
Tre Altari fece fare; e ‘l più honorato
Porsi nel mezo, e dedicare a Giove.
L’uno a Mercurio; e tenne il manco lato:
L’altro a Minerva vuol, che si ritrove.
A cui una Vacca, a Mercurio un Vitello
Fu ucciso, a Giove un Bue cornuto e bello.
Celebra al fin le care nozze amate
(…)