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2-8 d.C.

OVIDIO, Metamorfosi, IV, 663-752

Testo tratto da: Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, traduzione a cura di Bernardini Marzolla P., Einaudi, Torino 1994

 

Eolo figlio di Ippota aveva finalmente richiuso i venti nella loro prigione sempiterna, e Lucifero brillava luminosissimo in alto nel cielo, richiamando al lavoro. Perseo riprese le sue ali, se le legò ai piedi, da un lato e dall’altro, si appese al fianco la lama adunca, e messi in moto i sandali solcò la limpida aria. Innumerevoli popoli gli sfilarono sotto e d’intorno; lasciatiseli dietro, giunse in vista degli Etiopi, in vista delle terre di Cefeo. Lì, Ammone aveva ordinato, spietato, che l’innocente Andromeda pagasse con la vita l’insolenza della madre. Appena la vide, legata per le braccia a una dura roccia (se non fosse stato che una brezza leggera le agitava i capelli e tiepido pianto le stillava dagli occhi, l’avrebbe scambiata per una statua marmorea), il pronipote di Abante inconsciamente se ne infiammò, rimase sbigottito, e incantato alla vista di tanta bellezza, per poco non dimenticò di battere nell’aria le ali. Atterrò, e disse: “O tu che non meriti queste catene, ma solo quelle che uniscono tra loro gli innamorati smaniosi, dimmi, te lo chiedo, il nome di questa regione e il tuo, e perché sei legata così”. Dapprima essa tacque, non osando – lei una vergine – rivolgersi a un uomo, e per la timidezza si sarebbe nascosta il volto con le mani, se non fosse stata legata. Gli occhi le riempirono di lacrime: solo questo poté. Ma lui insisteva, e allora, perché non pensasse che volesse celargli un delitto veramente commesso, gli rivelò il nome della regione e il suo, e quanto sua madre fosse stata superba della propria bellezza. Non aveva ancora raccontato tutto, che le onde scrosciarono e apparve un mostro che ergendosi sull’immenso mare veniva avanti e col petto copriva gran tratto di acque. La vergine si mette a gridare. Il padre a lutto è presente, e anche la madre, affranti tutti e due ma maggior ragione la madre, e non le portano aiuto ma solo pianti aiuto ma solo pianti adeguati alla circostanza e disperazione, e si aggrappano al suo corpo legato. Quand’ecco che lo straniero dice così: “Per piangere potrete avere tutto il tempo che vorrete; per portare soccorso, ci sono pochi attimi. Se io chiedessi la sua mano, io, Perseo, figlio di Giove e di colei che quand’era imprigionata fu ingravidata da Giove con oro fecondo, Perseo vincitore della Gorgonie dalla chioma di serpi, che oso andarmene per l’aria del cielo battendo le ali, non sarei forse preferito come genero a chiunque altro? A così grandi doti, sol che mi assistano gli dèi, cercherò comunque di aggiungere un merito. Facciamo un patto: che sia mia se la salvo col mio valore!”. I genitori accettano (e chi avrebbe esitato?), e lo scongiurano, e in più gli promettono un regno come dote. Ed ecco che come una nave lanciata solca con lo sperone proteso le acque, sospinta da giovani braccia sudanti, così il mostro scostando le onde con l’urto del petto non dista ormai dallo scoglio più dello spazio che una fionda delle Baleari, roteata, può far percorrere a una palla nel cielo. All’improvviso, dandosi uno slancio coi piedi, il giovane eroe se ne va in alto tra le nuvole. Appena la sua ombra si disegna sulla superficie del mare, il mostro si avventa contro l’ombra che vede; e come l’uccello sacro a Giove, quando scorge in un campo aperto una biscia che espone al sole il livido dorso, la assale da dietro e perché non si rivolti con la bocca crudele le conficca gli avidi artigli nel collo squamoso, così con volo veloce, lasciandosi cadere nel vuoto, il discendente di Ìnaco piomba sul dorso della belva, che si dimena, e fino all’elsa le caccia nella spalla destra la lama ricurva. Quella, tormentata dalla grave ferita, ora si solleva in alto nell’aria, ora si tuffa sott’acqua, ora si dibatte come feroce cinghiale spaventato da muta di cani che intorno gli latra. Lui si sottrae agli avidi morsi con pronti frullii, e, dove trova scoperto, vibra fendenti con la spada a forma di falce, ora sul dorso incrostato di cave conchiglie, ora sulle costole, ai fianchi, ora sulla parte che assottigliandosi finisce in coda di pesce. Il mostro vomita dalla bocca flutti misti a sangue rosso. Gli spruzzi inzuppano e appesantiscono le ali di Perseo. Non osando più affidarsi ai sandali imbevuti d’acqua, egli scorge uno0 scoglio la cui cima affiora quando il mare è tranquillo, è sommerso quando il mare è agitato. Si posa su quello, e reggendosi con la sinistra alle prime sporgenze, ripetutamente, tre e quattro volte, affonda la spada nei visceri. Grida di gioia e applausi riempiono la spiaggia e le case degli dei in cielo. Cassiope e Cefeo, il padre, esultanti, lo salutano come genero, lo chiamano soccorritore e salvatore della famiglia. Liberata dalle catene, avanza la vergine, ragione e premio di quella fatica. Quanto a Perseo, attinge dell’acqua e si lava le mani vittoriose; ma perché la ruvida rena non rovini la testa irta di serpi della figlia di Forco, Medusa, egli rende più soffice il terreno con uno strato di foglie, vi stende sopra dei ramoscelli nati sott’acqua, e posa la testa sul mucchio, a faccia in giù. I ramoscelli ancora freschi e vivi assorbono nel midollo poroso il potere del mostro, e a contatto con questo s’induriscono, e assumono nel legno e nelle fronde una rigidità inusitata. Le ninfe del mare provano con molti altri ramoscelli, si divertono a vedere che il prodigio sempre si ripete, e li fanno moltiplicare gettandone i semi nell’onde. Ancora oggi i coralli conservano questa proprietà: d’indurirsi al contatto dell’aria, per cui quello che sott’acqua era un vimine, spuntando fuori dell’acqua si pietrifica.