1553
LUDOVICO DOLCE, Le Trasformazioni, VIII
Traduzione da: Ludovico Dolce, Le Trasformazioni, presso F. Sansovino, Venezia 1561
La pietrosa novella, come suole,
Punse i cor de le giovani amorose:
Ma troncado i lamenti e e parole
Leucothoe di contar la sua propose.
Io vi voglio narrar, si come il Sole
Che tempra, e suol produr tutte le cose,
Per virtù, de suoi rari (disse) nel core
Ricevesse egli ancor fiamma d’amore.
Il Sole, che conducendo in ogni parte
La luce e’l giorno, il tutto scopre e vede,
Vide Venere bella in grembo a Marte,
Che mal serbava al suo Vulcano fede:
Si duole, e glielo scopre a parte a parte,
E notitia del luogo anco gli diede;
Dove, mentr’egli a la Fucina suda,
Spesso giacea nele sue braccia ignuda.
A questa nuova si sentì Vulcano
Tutto ignombrar di freddo ghiaccio il core:
Il lavor, che facea, gli uscì di mano;
Si dileguò dal volto ogni colore.
Mlti disegni fà, ma tutti in vano.,
Per vendicarsi al fin sceglie il migliore.
Fè una rete di ferro, e si minuta,
Che da gliocchi d’altrui non è veduta.
Con tal virtù, ch’essendo tocca a pena,
Da se stessa scoccando altrui legava;
E, quanto piu si scuote e si dimena
Colui, che dentro c’è, piu s’annodava.
Questo il buon veglio pien di quella pena,
Ch’insieme sdegno e gelosia gli dava,
Adatta in guisa, che con presto effetto
Un giorno prese ambi gli amanti in letto.
La rete incatenò lor braccia e colle,
E piedi, e mani; e non, ch’uscirne fuore,
Ma non puo dar, come fanciullo un crollo
Marte, benche si torca adhora adhora,
Di questo gia Vulcan non è satollo:
Ma la camera aprendo, in poco d’hora
Fe ch’ogni Dio a lo spetacol fusse;
Che tutti ad uno ad uno ad un ve introdusse.
Era brutto a veder Marte legato
Nudoe supin con una Diva in letto;
E così l’uno al’altro aviticchiato,
Che tanto non tien muro Hellera stretto.
Ma ben veder tal cosa a i Dei fu grato;
Risero; e alcun di piu dolce intelletto
(Vuo dir non si severo) haria voluto
Essere in quella rete anch’ei caduto.
Fu questo fatto alhor palese e chiaro
Per tutto’l cielo, e se ne rise molto.
Ma fe Venere il riso a Febo amaro:
Però, che l’hebbe a luogo e tempo colto.
Tanto, che la vendetta andò di paro
Con l’offesa, onde rosso hebb’ella il volto;
E con biasmo e vergogna alta e infinita
Fu da tutti gli Dei risa e schernita.
Ma che piu giova a te, fece lucente
Di tutto’l cielo, e la bellezza e’l lume?
Tu, ch’ogni cosa fai calda et ardente,
Ardi di nuova fiamma oltre il costume;
E con quell’occhio, onde guardar la gente
Dovresti, come tuo rifugio e nume,
Leucotheo miri: e in lei fermi il giocondo
Sguardo, di cui sei debitore al mondo.
Hora piu tosto dell’usato sorgi
Delmare, hora piu tardo a lui ritorni;
E, perche lei più lungamente scorgi,
Lunghi al tempo brumal ne meni i giorni:
E talhora, che forse on t’accorgi,
Manchi del lume, onde la terra adorni.
Ne scusa val: del pallido colore
Ecclisse nò, ma n’è cagione amore.