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LORENZO DE’ MEDICI, Furtum Veneris et Martis

Traduzione da: Lorenzo de’ Medici, Tutte le opere, a cura di P. Orvieto, Salerno, Roma 1992, tomo II

 

Venere parla:

Su, nimphe, hornate il glorioso monte

Di canti e balli et resonante lire;

fate di fior’ grillande alme alla fronte,

ché mi par Marte, amico mio, sentire

e dalla plaga lactea su nel cielo

e visto ho la stella sua lieta apparire.

Spargete all’aura i crini avolti in velo

e liete tutte nel fonte Acidalio

gratiose vi lavate il volto e’l pelo.

Le sacre Muse dal licor castalio

di dolci carmi piene invitarete;

stendete drappi, hornate il ciel col palio.

Bacco, Sileno mio liete acogliete,

e se Cerer non è sdegnata ancora

per Proserpina sua, la chiamerete.

Va’, Climen, nympha mia, dall’Aurora:

digli che indugi alquanto il bel mactino:

lieta col suo Titon facci dimora.

Tu, Clitia, andrai nel bel monte Pachinno,

tu nel Peloro, e tu nel Lilibeo:

guardate di Sicilia ogni confino,

sì che Vulcano mio fabro flegreo

cum Marte non mi truovi in adultero,

donde fabula sia poi d’ogni iddeo.

Ascondi, Luna, il lucido emispero;

voi per le selve non latrate, o cani,

sì che d’infamia non si scuopri il vero.

Vien, lieta notte, e voi, profundi Mani,

scurate l’ora; e tu, figliuol Cupido:

mi do nelle tua braccia, in le tue mani.

Con le tue fiamme dolcie ardente rido:

fa’ lume a Marte, mio sponso e signore,

tu mi feristi, Amore, di te me fido.

Marte, se obscure ancor ti paion l’ore,

vienne al mio dolce ospitio, ch’io t’aspecto:

Vulcano non v’è che co dsturbi amore.

Vien’, ch’io t’invito nuda in mezzo il lecto;

non indugiar, ch’l tempo passa e cola:

coperto m’ho di fior’ vermigli il pecto.

Vienne, Marte, vien’ via, vien’ ch’io son sola.

Togliete e lumi: el mio mai non lo spengo:

non sia chi più mi parli una parola.

 

Venuto Marte, parla così

Non qual nimico allo tuo stanze vengo,

Vener mia bella, ma sanza arme o dardo,

ché contro ai colpi tua nulla arme tengo.

Altra cosa è vedere un lieto sguardo

D’un amoroso lume, ovunque e’ vada,

che spada o lancia o vexillo o stendardo.

“Amor regge suo impero sanza spada”;

coperto no, ma vuole il corpo nudo,

dolce, contento a seguir quel che aggrada.

O dir, parlar, non dispietato o crudo,

ma dolce in sé, qual di pietà s’accolga:

e questa l’arme sia, la lancia e’l scudo.

Intorno al col suo bianco treccia avolga,

degli ardenti amator’ dura catena

e forte laccio che già mai si sciolga.

Baciar la bocca e la fronte serena,

e’ dua celesti lumi e’l bianco pecto,

la lunga mano d’ogni bellezza piena!

Altra cosa è giacer nello aureo lecto

con la sua dolcie amica e cantar carmi

che affaticare il corpo a scudo e elmetto.

Gustar quel fructo che può lieto farmi,

ultimo fin d’un tramante dilecto!

Tempo è d’amar, tempo è da spada et armi.

 

Il Sole agli scuopre et parla:

Ingiuria è grande al lecto romper fede:

non sia chi pecchi in dir “chi’l saprà mai?”,

ché il sol, le stelle, il ciel, la luna il vede.

E tu che lieta col tuo Marte stai,

né pensi il ciel di tua colpa dispone:

così spesso un garn gaudio torna in guai.

Ogni lungo secreto ha suo stagione:

chi troppo va tentando la fortuna,

s’allide in qualche scoglio: è ben ragione.

Correte, o nymphe, a veder sol ques’una

adulterata Venere impudica

e’l traditor di Marte: o stelle! O luna!

Giove, se non ti par troppa fatica,

con Giunon tuo gelosa al furto viene:

non pecchi alcun, se non vuol che si dica.

Vieni a veder, Marcurio, le catene

Acciò riporti in cielo di questo e quella,

ché nul peccato mai fu sanza pene.

Pluto, se intenso hai ancor questa novella,

con Proserpina tua lassa l’inferno,

ascendi all’aura relucente e bella.

Alme che hornate el bel paese etterno

De’ campi elisi, al gran furto venite:

convien si scuopra ogni secreto interno.

Glauco, Neptunno, Dori, Alpheo, corrite

al tristo incenso, e Ino e Melicerta

con le driade e’l fram padre d’Amphitrite;

acciò che in terra, in mare e in ciel sia certa

infamia tale d’una malvagia dea

e grave stupro e inhonestate aperta.

Vulcan, vieni a vedere tua Citerea,

come con Marte suo lieta si posa

e rocta t’ha la fede e facta rea.

Debbe al consortio tuo esser piatosa,

ad altri no. Ma gli è fatica e grave

posser guardare una donna amorosa,

ché, se la vuol, non fia chi mai la cave.

Tu dormi forse, e se’l mio sono hai inteso,

vieni a veder di lei l’opere prave.

Lascia Cicilia e’l tuo stato sospeso,

ché patir tanta ingiuria honor t’è poco:

vendecta brama Iddio d’un core offeso.

 

Vulcano loquitur:

Non baste avermi il ciel da l’alto loco

Gittato in terra e da suo mensa privo

E facto fabro e dio del caldo foco,

ché per più pena mia ciaschedun divo

cerchi stratiarmi e dimostrar lor pruoe;

ma tanta ingiuria mai non la prescrivo.

Io pure attendo affar sagitte a Giove

sudando intorno all’antica fucina,

e Marte gode mie fatiche altrove.

Venere, vener mia, spuma marina

Tu Marte adulter, pena pagherete,

ché grave colpa vol gram disciplina.