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1339-41

GIOVANNI BOCCACCIO, Teseida, VII, 22- 26

Traduzione da: Giovanni Boccaccio, Teseida, a cura di V. Branca, Oscar A. Mondadori, Milano 1992

 

Già era il dì al quale il dì seguente

Combatter si dovea, quando l’iddii

Palemone e Arcita umilmente

Giro a pregare, e con affetti pii,

sopra gli altari stando foco ardente,

incensi diero, e con sommi disii

dier prieghi a tutti che ciascun gli atasse

il dì seguente in ciò che bisognasse.

 

Ma pure Arcita ne’ templi di Marte,

poscia ch’egli ebbe gli altri visitati

e dati fuochi e’ncensi in ogni parte,

i ritornò, e quelli alluminati

più ch’altri assai e con più solenne arte

e di liquor sommissimi rirati,

con cuor divoto tale orazione

e Marte fece con gran devozione

 

- O forte Iddio, che ne’ regni nevosi

bistonii servi le tue sacre case,

ne’ luoghi al sol nemici e tenebrosi,

de’ tuoi ingegni piene per quai rase

d’ardir le fronti furo agli orgogliosi

fi’ della Terra, allor ch’ognun rimase

di morte freddo in sul suol per le prove

fatte da te e dal tuo padre Giove,

 

se per alto voler la mia etate

e le mie forze meritan che io

de’ tuoi sia detto, per quella pietate

ch’ebbe Nettuno allor che con disio

di Citerea usavi la biltate,

rinchiuso da Vulcano, ad ogni iddio

fatto palese, umilmente ti priego

ch’alli miei prieghi tu non facci niego.

 

Io son, come tu vedi, giovinetto,

e per nuova bellezza tanto Amore

sotto sua signoria mi ten distretto,

che le mie forze e tutto mio valore

conviene ovrarmi, se io co’ diletto

sentir di ciò che più sisiail core;

e sanza te io son poco possente,

anzi più tosto non posso niente.