III sec. d.C.
REPOSIANO, Concubitus Martis et Veneris
Traduzione da: Reposiani Concubitus Martis et Veneris, a cura di L. Cristante, “Bollettino dei classici”, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1999
Imparate a non mai ritenere sicure le avventure d’amore. Venere stessa –per lei milita la fiamma potente della passione, lei che potrebbe fare l’amore al sicuro sotto la guardia di Cupido, lei che insegna sia gli inganni d’amore, sia protegge gli amori clandestini- non riuscì a trovare per sé un nascondiglio sicuro. Impudente, spietato fanciullo, crudele in occasione della colpa di tua madre, tu, Amore, guidi il corteo e non ti sazi di alcun trionfo poiché sempre gioisci quando rivolgi all’indietro i fulmini di Giove. Per poter menare maggior vanto delle tue frecce fiammeggianti lega insieme, fanciullo, Marte e Venere con catene ben intrecciate. Porti Marte, ardente d’amore, titoli e ceppi Prigioniero, lui che è temuto in guerra; e perché tu possa incedere sul cocchio, egli ormai innamorato sottomette il fiero collo a gioghi di rose. Dopo la ferita d’amore, dopo le guerre il potente Gradivo ansima ora nei tuoi accampamenti come una recluta, e lui che sempre incute timore teme te e si lascia trascinare per dove lo conducono i ceppi dell’amore. Andate, vi prego, Muse: mentre Marte, mentre la bella Citerea traggono fuori dalle fibre più profonde del loro petto sospiri incessanti e mentre si rubano a vicenda il respiro con le bocche unite, con canto dotto ed eloquente preparate i ceppi di Vulcano che leghino Marte e non feriscano le braccia di Venere nelle delizie d’amore, già quasi livide in un serto di rose. Raccontano infatti che la Pafia, amore di Vulcano e di Marte, per l’adulterio e per il diritto del marito legittimo, dopo la delazione di Febo abbia portato, prigioniera, le catene. Lei sopportò i duri lacci nelle mani, lei i ceppi di ferro di suo marito. Ma perché così grande violenza nel tuo dolore? O era l’amore a renderti forte? Perché, crudele, ti affanni? Perché la fiamma dei Ciclopi ha preparato i lacci per Venere? Con catene di rose, Vulcano, stringile le mani e non legare tu i ceppi, ma il delicato Cupido, perché il nodo non rovini le mani con dolorosa ferita. C’era un bosco caro a Marte, variopinto dopo la morte di Adone dall’amore della dea; se solo i raggi di Febo non vi penetrino sarebbe luogo sicuro per un amore segreto, degno dell’amore di Cipride, del culto di Biblo, degno della cura delle Grazie. In quel bosco crescevano con comuni erbe: candidi gigli si mescolano a fiori purpurei. La terra offre l’ornamento al bosco: ora la vite ombreggia le radure, ora il lauro, ora il mirto. I rami hanno i loro doni, perché qui tra le foglie pendono profumati gigli. Qui la rosa con viole, qui ogni delizia di fiori, qui fra le viole la ridente chioma del delicato giacinto; luogo degno per l’amore, con così tanti doni! Eppure nel bosco non rifulge l’oro, non la porpora: fiori il letto, fiori il giaciglio, fra l’erba fiori. La natura lussureggiante attende ai piaceri di Venere. Qui limpide sorgenti erano ricoperte da canne non comuni, ma con esse Cupido prepara le sue frecce implacabili. Questo bosco, io credo, la Pafia lo preparò soltanto per l’amore; qui suole aspettare Marte. Perché la Grazia si è allontanata? Perché le Cariti? Perché, crudele fanciullo, non intrecci gigli? Tu il letto cospargi di rose, tu prepara corone di fiori e annoda con lacci di rose la bella chioma. Essa quando coglierà con le dita il fiore purpureo, assaporato il profumo ne tragga sospiri. Ma tu nascondi con la tua mano delicata il fiore in seno; tu, perché non ti punga la spina della rosa purpurea, togli le foglie e vi avvolgi i teneri boccioli: così è bello che si divertano le fanciulle nel bosco di Venere. Ma perché gli incontri d’amore della Pafia restino senza danno, intrecciate con cura fitte reti di rami perché il Titano non faccia entrare i suoi raggi tra le fronde. E dunque in questi luoghi del bosco la Pafia, mentre Marte era in guerra spaventosa e fiaccava i popoli con crudele terrore, giocava assieme alle dolci fanciulle di Biblo. Ora con il canto raccontava i molteplici amori degli dei e seguendo la modulazione della voce eccola ora danzare felice con gesti naturalmente aggraziati, ora appunto a piedi uniti, ora muovendosi alterna le gambe sulla punta dei piedi, e siede infine appoggiandosi languidamente sul ginocchio piegato; spesso legava con un fiore leggiadro la chioma raccolta e acconciava i capelli d’ambrosia con il pettine divino. Mentre la leggiadra Venere così mescola giochi e piaceri e mentre cerca un conforto all’attesa dell’amore, e piange perché tarda a venire il suo desiderato amante, ecco, ancora fumante dopo la guerra, che giunge il dio vincitore in battaglia, ma pur vinto in amore. Perché porti armi di ferro? Perché Cipride non abbia paura, è bene adornarsi di rose. Oh, quante volte Pafia si atteggiò con volto furibondo e, girato altrove lo sguardo, rimproverò l’amante per il suo ritardo. Spesso, corrucciata, finse di infliggerli dolci percosse con serti di fiori oppure, per piacere anche di più a Marte già acceso dal desiderio, gli si accostò con i suoi baci, trattenendoli però sulle sue morbide labbra, e, senza manifestare tutta la sua passione, lo blandisce con misurate lusinghe. Cadde la spada o fu abbandonata da mani ormai vinte, ma mentre così cadeva, rimase sospesa a un mirto. Prendi la spada, fanciullo. E tu, Grazia, slacciagli la cinghia dell’elmo; tu allenta i lacci, tu prova a slacciare le fibbie di ferro. Aprite, Bibliadi, il duro petto di Marte, liberatelo dall’impaccio della corazza, reggete voi scudo e dardi. È tempo di avere in mano le viole. Rallegrati, Cupido, d’avere vinto con la tua sola potenza il dio che incute timore. Al posto dei dardi fiori, al posto dello scudo srti di mirto, e così la rosa colpisce lui che ben a ragione è temuto dalle spade. Era andato verso il letto Marte e, lasciandosi cadere sui fiori con tutto il suo peso, ne aveva sciupata tutta la bellezza. Vi andava la bella Venere, in punta di piedi guardinga, perché le spine dei fiori non pungessero i suoi teneri piedi, e ora si annoda la chioma perché i baci non la scompiglino, ora lascia ondeggiare la veste, appena trattenuta, e non si scopre tutta e non mette a nudo tutta la sua bellezza. Marte, nascosto tra i fiori, con occhiate furtive guarda Venere a bocca aperta, e prende tutto a tremare per il suo ardore. Si abbandonò sul letto la Pafia. Oh, sacro Cupido, quante languide parole, quali bisbigli allora vi sussurrano! Quali baci si sono scambiati allora unendo le loro labbra! Quanto stretti rimasero coi corpi avvinti nell’amplesso! La Pafia stringeva sul suo petto la destra di Marte e, perché il peso del corpo non gravi sulla sinistra che circondava il suo collo, vi pone sotto candidi gigli e serti di rose. Spesso con tocco leggero sulla gamba eccitò l’amante alla fiamma che la dea asseconda. Ormai una languida quiete aveva vinto alla fine il corpo stanco di Marte; tuttavia non tutta la passione, non tutto il desiderio lasciarono il petto del dio: trae sospiri nel sonno e, con tutta l’intensità del suo respiro, la passione brama Venere. Venere, ancora sospesa nel fuoco del suo ardore, brucia sempre più il desiderio e non riesce a trovare un sonno tranquillo. Oh quale languore! Oh come bene il sopore aveva vinto le membra nude! Su nivee braccia poggiato splende il suo collo, il petto è turgido e risplende come due stelle. Non giace tutta supina, ma con il corpo piegato mollemente e volgendosi a guardare dove si congiungono i confini dei fianchi di Marte, chiude gli occhi nel sonno, ma bella, graziosa. Davanti al bosco intanto Cupido maneggia le armi di Marte; dopo averle osservate a una a una –corazza, scudo, spada, minacciosi pennacchi dell’elmo- le lega con fiori. Allora prova il peso dell’asta e si stupisce che tanto abbiano potuto le sue frecce. Già Febo aveva occupato il centro del cielo con i suoi raggi, già con le tumide ore aveva bilanciato lo spazio ardente e tratteneva allora i suoi cavalli fiammeggianti. Oh luce invidiosa, a conoscenza del fatto! Di Venere quali amori vengono ora svelati con il tuo fulgore, o Febo! Sorpresi da tanto inquisitore sono immobili, Marte, Amore e la Pafia –tra i rami filtrando tremolano i raggi di luce- né possono con te testimone, negare la loro colpa. Aveva visto Febo, dopo avere allentato le briglie, il Gradivo che nel grembo della Pafia spirava fiamme d’amore. O mal certa fiducia nelle cose! O gioie anche per gli stessi dei a stento sicure! Chi, dal momento che era Cipride a fare l’amore, non avrebbe sperato di amare al sicuro con un patrono così grande? Se esempio di colpa ormai abbiamo dagli dei, che cosa può sperare l’amore dei mortali? Quali voti si devono fare? Quale nume può invocare un amante per essere sicuro? Cipride fa l’amore, ma non è sicura. Tirò a sé le briglie Febo e al bosco soltanto –io credo- volse gli occhi e dice queste poche parole: “Ora scaglia i tuoi dardi, Cupido; ora, divina Venere, ora, vinta dalle frecce di tuo figlio, dammi sollievo: sotto la tua protezione ho fatto l’amore sicuro: mito, non colpa, saranno detti i miei amori”. Così dice e istiga Vulcano con parole amare: “Dimmi dov’è la bella Citerea, marito tranquillo. Ti aspetta in lacrime, ti serba un amore casto? Cerca contemporaneamente Marte, a cui tu hai or ora forgiato le armi, anche nel caso tu non conosca le colpe senza scrupoli della tua Venere”. Così parlò, e illuminava il bosco infondendovi i suoi raggi e per provare la colpa aveva calato tutti i cuoi fuochi. L’Ignipotente rimase impietrito, stordito per un crimine così grande. Ormai, quasi paralizzato (l’ira non basta al suo dolore), ruggisce e si lamenta in modo pietoso e fa pulsare dal profondo le viscere e nello sdegno trae a fatica sospiri affannosi. Fuori di sé si dirige alle caverne etnee. Aveva appena dato ordini, che tutti si misero al lavoro: molto il dolore aggiunse all’arte. Quanto velocemente ogni cosa realizzano la perizia, la potenza divina, la fiamma, l’essere marito, l’ira, il dolore! Aveva appena accennato al motivo nel dare gli ordini e, sposo vendicatore, aveva ormai in mano le catene. Giunge al bosco non visto neppure da Amore, non dalle Cariti: aveva affidato tutta l’ira alla sua arte. Allora, con tocco leggero, mette le catene alle mani e lega le braccia di Marte ai delicati polsi di Venere. Si scuotono dal sonno Marte e la bella Citerea. Il Gradivo avrebbe potuto rompere gli stretti nodi, ma era trattenuto dall’amore, perché temeva di fare male a Venere. Tu, crudele Cupido ti nascondevi sotto l’elmo, tu, spaventato, tra le armi. Marte è immobile, con lo sguardo torvo ed è sdegnato di essere stato sorpreso in adulterio. La Pafia però non si duole che la colpa del suo agire gli si ritorca contro, ma, mentre vaglia le singole possibilità, pensa quale sia la vendetta per lei (e Febo ha esperienza della pena se si innamorasse). E già si affrettava nei suoi inganni e adornava le corna di un toro, la colpa di Pasifae, e ira mista a piacere.