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I sec. d.C.

PROPERZIO, Le elegie, II, 32

Traduzione da: Sesto Properzio, Le elegie, traduzione di G. Leto, Einaudi, Torino 1970

 

Fa un peccato colui che ti vede, ma chi non ti ha veduta non può desiderarti; è degli occhi la colpa. Perché mai, Cinzia, cerchi i dubbiosi responsi di Preneste o del figlio di Circe Telègono le mura? Alla città di Ercole, a Tivoli perché un carro ti porta? É perché tante volte la via Appia a Lanuvio? Se solamente in questi luoghi andassi ogni volta che ne hai tempo Cinzia! Ma mi impedisce di crederlo la folla quando ti vede accorrere devotamente con le torce accese nel bosco, e alla dea Trivia offrire il lume. Il portico di Pompeo dall’ombroso colonnato disprezzi davvero, dai famosi attalici tappeti, e i platani che sorgono in spesse file eguali e ogni rivo che cade da un Marone assopito e per la città intera il leggero singulto delle ninfe quando un Tritone l’acqua con pronta bocca ingoia. Ti inganni; questa strada è un tuo segreto amore che tradisce: non la città, i miei occhi, dissennata, tu fuggi! Non serve: vane insidie contro di me disponi conosco queste reti che inutile mi tendi. Ma per me non importa ne avrà il tuo onore un danno tanto grande, infelice, quanto mariti. Offese le mie orecchie ora è poco di te una diceria e maligna per tutta la città si diffuse. Ma a lingua ostile credere non devi. Fu discussa sempre una bella donna, è questo il suo castigo. Non sei tu di flagrante veneficio accusata.

Febo, tu puoi provarlo, aveva mani pure. Se una notte, o più d’una, hai consumato prolungando il gioco, è una piccola colpa che non ti può turbare. Mutò patria la figlia di Tindaro per un estraneo amore, ma viva tornò a casa e non fu condannata.

Anche Venere, dicono, dall’amore di Marte fu corrotta e nondimeno ebbe sempre onori nel cielo.