Inofr08

sec. XVII

Giovanni Andrea dell’Anguillara, Le Metamorfosi di Ovidio (edizione del 1613)

IV 299.

Allhor di Bacco il glorioso nome

Per tutta la città maggior si sparse.

Altro la zia non fea, che cantar, come

Con suoni, e faci a le donzelle apparse.

Come dal vespro anchor l’angel si nome,

Da l’hora, che’llor volto human di sparse

Come l’irato Dio dispose, e volle

La cui pompa stimar bugiarda, e folle.

 

IV 300.

 

300. Ino fa si sublime ogni suo fatto,

I miracoli suoi, la sua possanza,

Ch’in ogni suo proposito, in ogni atto

Fa rifrescar di lui la rimenbranza:

Talche non può soffrire ad alcun patto

Tanta gloria Giunon, tanta arroganza.

Non può soffrir colei, ch’ogni hor favella

Del figlio de la fellice sorella.

 

IV 301.

 

A morte odia Giunon questa famiglia,

Perché Giove di lor n’amò già due.

E però di estirparla si consiglia,

Perche da lor non le sia tolto pive.

Lassa (dicea) d’Agenore la figlia

Già il fece in Tiro diventare un Bue.

La meretrice poi, d’onde hebbe Bacco,

Col regio manto il fece ire in Baldacco.

 

IV 302.

 

Restò da l’amor suo bruciata, e spenta

Semele, e dimendar credula, e insana.

Autonoe per lo figlio è mal contenta,

che fece in cervo trasformar Diana.

Agave ogni hor’s’afflige, e si tormenta,

che fu nel suo figliol troppo inhumana

Fra tutte le sorelle è sol questa una,

Che và d’ogni dolor sciolta, e digiuna.

IV 303.

 

Tutto quel fa, che in mio dispregio puote

Questa de’figli altera, e de la forte,

Ch’altro non dice mai, che del nipote,

Bastardo de l’infido mio consorte.

E con superbe e gloriose note

De’ primi ili fa de la celeste corte.

E tanto questo essalta, e gli altri annulla

che la potentia mia non v’è per nulla.

 

IV 305.

 

Non trovo io, s’un m’offende al riparo,

che lagrimar l’invendicato oltraggio.

Deh perche da nemici io non imparo,

(Che spesso l’inimico fa l’uomo saggio)

(…).

 

IV 306.

 

E se la sua sorella oprò la spada

Contra il figliol con cor ferino, et empio;

E li gittò le mani in su la strada,

E fe’ di membri un doloroso scempio:

Perche non fa Giunon, che in furor vada

Questa Ino anchor per lo cognato esempio

Si ch’ella nel dar morte a i propri figli,

A la madre di Penteo s’assomigli?

 

IV 308.

 

Per si caliginosa, e trista fossa,

La sitibonda di vendetta Dea

Si mette a caminar, da l’odio mossa,

Ch’a’ questa gloriosa donna havea.

Passa per più silenty l’aria grossa,

col divin, che l’alluma, e che la bea.

Quindi quei, che di questo hanno il governo

Conducon le trist’anime all’inferno.

 

IV 317.

 

Giunon si fa invisibile, e s’asconde

Vola sopra la morte, e dentro vede

Un’olmo ricco, e pien di rami e fronde,

Sopra un grosso, alto e fondato piede.

Qui (se la fama antica al ver risponde)

I fantastichi sogni hanno la fede.

Ne stà per ogni fronda una gran torma,

D’ogni più strana forma.

 

IV 323.

 

Non stà molto à guardar, ch’altro le preme,

E le veste invisibili via tolle,

E dei carcer le porte, ove si geme,

Percote, e’l col trifauce il capo estolle.

Abbaia, e manda tre latrati insieme,

Né il triplice abbaiar mai lasciar volle,

Ma poi ch’el divin Nume hebbe veduto,

Fe di quel gran latrare un gemer muto.

 

IV 324.

 

Le Furie entrar con viso acro, e dimesso,

E con cortese e furioso invito,

Fan l’amica Giunon che bene spesso

La fanno ire in furor per lo marito.

Come è dentro la Dea (…).

 

IV 327.

 

“(…) ver Sisifo s’affisse,

E mostrollo à l’Erinni, e cosi disse”.

 

IV 328.

 

Questi è ben condannato à pena eterna,

Per esser suto al mondo involari,

Ma il suo fratello altier Thebe governa

E regge a modo suo l’imperadore.

Che offende ogni hor la maestà suprema,

Spezzando il nostro culto, e’l nostro honore.

E la cagion de l’odio manifesta,

E del viaggio suo, la qual fu questa,

 

IV 329.

 

Che la stirpe di Cadmo alta, e superba

Mancasse, e non dovesse andar più avante,

Per cagion nova, oltre il rancor che serba,

Che Giove à due di lor sia stato amante.

E tal cerca di lor vendetta acerba,

Ch’Ino cada in furore, et Atamante.

A l’ira il suo parlar ben corrisponde,

Che imperio, e preghi, e p… in un confonde.

 

IV 330.

 

Per far veder l’infuriata faccia

Al lume de l’inferno altro, e notturno,

Tesifone dal volto i serpi scaccia,

E parla à la figliuola di Saturno.

Hoggi non passerà che non si faccia,

Ritorna pure a lume almo, e diurno.

Lieta ella và, d’ambrosia Iri l’sparge,

E d’ogni mal’odor la purga, e terge.

 

IV 331.

 

La furiosa Furia in furia prende

D’insania sparsa una facella, e sangue.

E quella in furia in Flegetonte accende,

Ma prima con furor si cinge un’angue.

Si parte da l’inferno, e al sole ascende,

Va seco, quel., ch’ogni hor si duole, e langue.

Io dico il miser Pianto, e’n compagnia

Viva il Terror, la Rabbia, e la Pazzia.

 

IV 332.

 

Come la compagnia rabbiosa giunge

A l’infelice d’Athamante porta,

Trema l’acero, e’l ferro, e’l sol va lunge,

La casa, e l’aria vien pallida, e smorta.

La face intanto dà nel legno, e’l punge

Con quello estremo, ove la fiamma è morta.

Cade à un tratto la porta, e un romor suona,

Che tutta quanta la contrada intuona.

 

IV 333.

 

Prima Ino sbigottisce, indi il consorte.

L’infelice sorella di Megera,

Tosto che fa cader le regie porte

De la superbia lor regia, et altera.

Ma ben si sbigottiscono più forte,

Come lampar la mostruosa schiera.

Volean fuggir, ma d’huopo eran le penne,

Che la porta infernal tenne.

 

 

 

IV 334.

 

Tre fiate la Dea crolla la testa

E fa sdegnar le serpentine chiome,

Tanto che alzando ogni animal la cresta,

Vibra tre lingue sibilando, come

Se l’oltraggia una serpe ardita, e presta

S’alza, vibra tre lingue, e’l venen come

Così s’alza ogni serpe in un baleno,

E contra quegli aventa il suo veneno.

 

IV 335.

 

Qual s’una Ninfa al vento il tergo volta,

C’ha sparso il biondo crin, sottile e bello,

Fa l’aura rabuffar la chioma sciolta,

E guarda, ove guarda ella ogni capello:

Tal ogni serpe il suo sguardo rivolta,

Dov’ella drizza l’occhio oscuro, e fello.

E fan tutti diadema al volto avante,

Guardando verso d’Ino, e d’ Athamante.

 

IV 336.

 

Indi da crudi crin due serpi suelle,

E lor con man pestifera gli aventa,

Le quai tosto ambo annodano, e di quelle

l’una la donna, l’huom l’altra tormenta.

Et ambedue senza intaccar la pelle,

Fan che’l core, e la mente il venen sente.

Questa et quei scaccia il serpe, e’l risospinge;

Ma il drago ogn’hor più rio li punge, e stringe.

 

IV 337.

 

Di più veneni tosto havea formato.

ch’era una irreparabile mistura.

V’è la spuma di Cerbero, e’l mal fiato

De l’Idrà, e v’è il tremor de la paura.

V’è de la rabbia il fel, v’è l’insensato

Oblio de la pazzia, v’è l’altra e scura

Sete de l’empia morte, a anch’or de l’ira

La bava, ch’ella fa mentre s’adira.

 

IV 338.

 

Tutta questa mistura insieme unita

Con di cicuta, e di sardonia alquanto,

E’ dentro al rame poi cotta, e bollita

Ne le misere lagrime del pianto.

De la decottion, che n’era uscita,

Piena una ampolla havea portata à canto.

La virtù del liquor di fuor non bagna,

Ma fa, che dentro il cor s’infetta, e lagna.

 

IV 339.

 

Sul capo d’ambedue quell’acqua sparse,

E finì d’offuscar lor intelletto.

Girò tre volte poi la face, et arse

L’aere, e del fosco fumo il fece infetto.

Indi da lor vittoriosa sparse,

Per ritornarsi al suo più sicuro tetto.

E di tanto stupor quei lasciò presi,

che stero un pezzo immobili, e sospesi.

 

IV 340.

 

Non si ricordon più chi sieno, ò dove,

Né men d’haver veduti i crudi mostri,

Ma già l’huomo il veneno instiga, e move

E fa, che’l suo furor rabbioso mostri.

Già grida, Ecco compagni, ecco ch’altrove

Tender non ci bisogna i lacci nostri.

Tendiamo in queste selve ai crudi artigli

Di questa empia leonza, c’ha due figli.

 

IV 341.

 

Come se fosse una selvasggia fera,

L’insano cacciator la moglie caccia.

E mentre ella è stordita di maniera

Che non sa se si fugga, ò che si faccia:

Clearco un suo figliuol, ch’en braccio l’era,

E che ridendo à lui stendea le braccia

Da lei per l’un dè piedi afferra, e tira,

E d’una fronda à guisa il rota, e gira.

 

IV 342.

 

Di quel girare il centro ha preso il piede,

Ma la circonferentia il capo ha tolto.

Tre volte il rota, e poi col capo diede

Ad un candido marmo il duro volto.

Come la madre il duro scempio vede,

Che fe del dolce figlio il padre stolto,

Stracciando il crin, volge al marito il tergo,

E lascia in furia il parricida albergo.

 

IV 343.

 

Un scoglio dentro in mar si spinge, e poggia

Che stretto, lungo, et aspro in là si stende.

Da l’empio mar cavato d’una foggia

Co’l continuo picchiar, che’l sasso offende,

Che salva l’onde salse da la pioggia,

Tal che l’acqua da l’acque illese rende

Ver questo scoglio al mar drizza il camino

La furiosa e miserabile Ino.

 

IV 344.

 

Corre con Melicerte in braccio, e stride,

E chiama spesso Bacco il suo nipote.

Aiuto, dice hallor Giunone (e ride)

Lo Dio celebre tuo ti dia, se puote.

Giunge al monte maggior, salta, e s’uccide

E col peso, che’n braccio, il mar percote,

S’apre l’avido mar, l’inghiotte, e asconde

E fa lucide in su risplender l’onde.

 

IV 345.

 

Venere hebbe pietà de l’innocente,

che de la figlia Hermione, e Cadmo nocque.

Così dicendo al Re, che col tridente

Nel suo tetto real dà legge a l’acque,

Habbi alto Dio pietà de la dolente

Donna congiunta tua, che nel mar nocque

Doverei dal mare haver gratia, ch’io crebbi

Nel mare, et fui sua prole, e’l nome n’hebbi.

 

IV 346.

 

I due nipoti miei, c’hoggi raccolse

L’Euboico mare, in mare fà che sian Dei.

Volentier consentì Nettuno, e tolse

Quel mortal, che già fu nel figlio, e’n lei.

Poi quella maestà donar lor volse,

che fa, che l’huom si nume faccia, e bei.

E fatto questo il beator Nettuno,

Nominò lei Matuta, et lui Portuno.