sec. XVI
Ludovico Dolce, Le Trasformazioni, (1553) Canto IX (pagg. 95-99)
Hor di Bacco si predica e ragiona,
Hora i suoi fatti son palesi e chiari
Hora in Thebe ogni tempio ne risona,
E si sacraano a lui tutti gli altari:
Onde n’avea di lode ampia corona,
Et honori ogni dì sublimi e rari
Ino, che’l suo nipote, hora divino,
Nudrì già infante e piccolo bambino.
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“Ella fra le sorelle allegra sola
Viveasi, ne sentiva alcuno affanno;
(…)”.
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Giunon, che vide lei gonfia e superba
Dè figli del nipote, e del consorte,
più, ch’ella fosse mai, divenne acerba,
E di tanto suo ben si dolse forte:
Né però con lamenti disacerba
La doglia: che non vuol, che si comporta,
ch’ella più segna in quello stato allegra;
E tiensi troppo a la vendetta pegra. (…).
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Ora sostenne di venir Giunone,
E scender giù nel formidabil Regno.
Da la bella stellata alta magione,
Tanto puo nel suo cor l’ira e lo sdegno.
A pena il piede ne l’entrata pone,
Che’l tartareo terren e diede segno,
Tremò la soglia; e con tre gole il fiero
Cerbero ebbe a latrar gonfio e altiero.
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Ma, come vide lei, balzò le ciglie
Tornando humili e rabuffati peli.
Giunon chiamò le tre sorelle, figlie
De la notte, le furie empie e crudeli;
Che alhor di sangue orribili e vermiglie,
(onde son molli i lor macchiati veli)
Pettinavan le chiome dè serpenti
Con occhi bieci, e più che fiamma ardenti.
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Sedeano inanzi a le terribil porte,
Onde si chiude la prigione eterna;
Che si Diamante son tenace e forte,
Che produce la giù l’empia caverna.
Queste dapoi, che con le luci torte
Per l’ombra che non lascia, che si scerna,
Molto lontan, vider la Dea, levaro
Donde sedeano, e a quella s’inchinaro.(…).
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Ora sostenne di venir Giunone,
E scender giù nel formidabil Regno.
Da la bella stellata magione,
Tanto può nel suo cor l’ira e lo sdegno.
A pena il piede ne l’entrata pone,
Che’l tartareo terren e diede segno,
Tremò la soglia; e con tre gole il fiero
Cerbero ebbe a latrar gonfio e altiero.
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(…)
Poi da quello volgendosi a Sisifo,
disse: perché a costui qua giù dolente?
E’l fratello Athamante ha’l mondo a schifo;
Tanto il Regno di Thebe il fa possente?
Onde stando superbo in gioia e’n festa,
Sopra di me e di Giove alza la testa
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A queste espon la causa del camino,
E de l’odio, c’avea, contra Athamante,
E’ la sua voglia, che’l Real domìnio
Di Cadmo non dovesse andar più avante.
Per questo in lui, che si tenea divino,
Via più, che Giove, iniquo, et arrogante,
Mettesser tal furor, ch’ei distruggesse,
tutto, onde seme alcun non rimanesse.
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E, perché ciò non le si vieti e nieghi,
La sdegnosa Giunone insieme aduna,
Comandamenti, alte promesse, e preghi,
Quant’ella seppe usar, verso ciascuna,
Ma non le bisognar, perché si pieghi
L’ultrice coppia d’ogni ben digiuna;
E sitibonda si de l’altrui sangue,
Che se tinta non è si strugge e langue.
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Una di lor che Tisifone ha nome,
Rivolgendo a Giunon l’occhio tremendo,
Scosse superba le canute chiome,
I serpi da la bocca rimovendo.
Poi disse; sarà Dea l’effetto come brami,
che’l tuo voler tutto i comprendo,
Ritorna al ciel, che di tua vista è degno;
E lascia il cieco e sconsolato regno.
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Giuno il torbido guardo fe sereno;
E, mentre su nel cielo ascender volle,
Iri le sparse d’acqua un vaso pieno,
Onde la tinta de l’inferno tolle.
Tisifone col cuor pieno di veleno,
E di sangue horrida e molle,
d’una gonna, che pur sangue depinge,
Si veste; e lei d’un torto serpe cinge.
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In man la face sanguinosa prende,
Et esce ratto de l’inferno fuore
Dove si muove, e dove’l passo stende,
Le fanno compagnia pianto e terrore;
E, quel che più d’altro tormento offende
L’huomo; la torta infamia, et il furore.
Ne prima ella toccò la Real soglia,
ch’ella tremò, si come al vento foglia.
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Si tinser di pallor le porte, e’l sole
L’aria lasciò da quella parte oscura.
Ino con Athamante fuggir vuole
A l’apparir di quella ria figura.
Tisifone crudel, com’ella suole,
L’entrata tiene; e con sembianza dura
Le braccia stese, e’l capo irata scosse,
Fischiando risonar le serpi mosse.
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Alcune avolte in molti groppi stanno
Su gli homeri: altre per l’aperto seno
Hor quinci, hor quindi discorrendo vanno,
E loro esce di bocca altro veleno,
Del qual mai sempre in abbondanza n’anno
L’ingordo ventre lor colmo e ripieno.
Vibran le lingue, e sibilando segno
Mostrano d’ira e d’implacabil sdegno.
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Quindi con quel furor, ch’unque movesse
Il mostro, de la notte orribil seme,
La pestifera man nel crin si messe;
Squarciò due serpi indi vibralli insieme:
Subito (ch’ogni indugio vi mettesse,
Ci par, che molto del suo ufficio sceme)
Vibrò nel petto misero e tremante
L’una pur d’Ino, e l’altra d’Athamante.
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L’una e l’altra discorre, e si distende
Per l’uno e l’altro petto horribilmente;
Ne però d’essi in verun lato offende
La carne col sottile acuto dente:
ma d’insano furor empie et accende
Con velenoso stimolo la mente.
Ella è quella, che pote; ella riceve
Penetrevol puntura, horrida e greve.
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Havea la Furia ancor seco portato
De la spuma di Cerbero; e con ella
Del liquido velen, c’avea cavato
Giù nel centro infernal da l’Hidra fella
E con sangue e cicuta mescolato pianto,
Rabbia, e Furor n’havea quella
E trito e colto in vaso cavo e forte
Impeto fier, cieco desio di morte.
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Hor, mentre questa e quel teme e paventa,
sparse ad ambi i liquor per tutto il core;
La face lor nel volto indi appresenta,
Onde in tutte le vene entrò l’ardore
E di questo Tisifone contenta,
Tornonsi al Regno del perpetuo horrore;
E scinto il serpe, ove’l suo luogo vede,
fermò tra l’altre sue sorelle il piede.
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Ecco Athamante, ove sua stella il guida:
(già pazzo e furioso divenuto)
Tendi le reti o mia famiglia grida,
che due piccol Leon quivi ho veduto,
E presso lor la madre anco s’annida.
Questo dicea, ch’al misero paruto
Era il palazzo selva, e Leonessa
La moglie, e leonzini figli d’essa.
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Ino del seme suo due figli havia
Picciol bambini, e quei strettisi al petto
Lui, che come una fera, la seguia,
Fugge tutta smarrita ne l’aspetto.
Ma che non po la furia iniqua e ria?
Quel miser che perduto ha l’intelletto,
La giunse tosto; e cieco e d’ira pieno
L’un de bambini le strappò di seno.
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Prese Learco; il qual semplice e puro
Ridendo, a lui stendea le picciol braccia:
Lo arruota, come fionda, e a un sasso duro
Percuote, e’l capo e le cervelle schiaccia.
A lo spettacol fiero, horrendo, e scuro
De la misera madre il sangue agghiaccia
Indi subitamente di furore
Tutta s’accende, e tutto avampa il core.
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O che’l duolo, o’l velen cagion ne fosse,
con sparsi crin correndo, e Melicerta
Stretto tenendo, in molta fretta mosse,
Per la rena del mar nuda e deserta;
E sovente di gridi il ciel percosse
Priva di senno, e di suo stato incerta,
Bacco chiamando: a la cui voce ride
Giuno; e così, dicea, Bacco ti guida.
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Surge dal lito, e va gran spatio in mare
Un’erto scoglio, che di fuor nel basso
Era cavato in giro; che’l picchiare
Spesso de l’onda havea forato il sasso.
Aspra la cima e tutta incolta appare;
Quiv’Ino col figliuol salì a gran passo,
Che l’istesso furor, che preme e sforza
Quella infelice, le havea dato forza.
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E de la cima (che lei non ritenne,
né la tardò timor) col picciol peso
Si getta in mare, il qual bianco divenne,
De la percossa infino al fondo offeso.
L’Acerbo caso indi a notitia venne
Di Venere; che come l’ebbe inteso,
A Nettun se n’andò la bella Dea,
Per la pietà, ch’a la sua stirpe havea.
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Sacro gli dice, Dio cortese e buono,
Ch’allenti e stringi a tutte l’onde il freno;
Ti prego, s’appo te m’impetra dono
L’esser gia nata nel tuo largo seno:
S’io ti fui d’ogni tempo amica, e sono,
Se tu ver me di carità ripieno,
Mi conceda una gratia, la qual certo
Fia grande, e grande ancor ne sarà il merito.
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La gratia ch’io dimando, e ch’io vorrei
Da te (che lo poi far) tosto ottenere;
E’, che madre e figliuoi, nipoti miei,
che nel turbato Egeo potrai vedere,
Vogli in numero par de’nostri Dei:
E prometto perpetuo obbligo havere,
Di tanto beneficio s’avvien, ch’io
Trovi adempito il desiderio mio.
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Gradì Nettuno i preghi de la Dea;
E fe, levando lor tutto il mortale,
l’un Palemòne, e l’altra Leucothea,
Onde restò ciascun santo e immortale.
(…).