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GIOVANNI ANDREA dell'ANGUILLARA, Delle Metamorfosi d’Ovidio, Per Gio. Griffio, Venezia
Una tenera figlia Acrisio havea
Nomata Danae, si leggiadra, e bella,
che non donna mortal, ma vera Dea
sembrava al viso, a’ modi, e a’ favella.
Il padre per lo ben, che le volea,
saper cercò il destin de la sua stella.
Ma’l decreto fatal tanto gli spiacque,
che la fe col figliuol gettar ne l’acque.
Di Danae figlia tua (l’oracol disse)
Nascerà un figlio oltre ogni creder forte,
che (come son le sorti a ciascun fisse)
Contra sua voglia ti darà la morte.
Queste parole ne la mente scrisse.
Acrisio, e per fuggir si cruda sorte,
Fù per ferire à la sua figlia il seno,
Ma l’effetto paterno il tenne il freno.
Onde le fabricò, per far men fallo,
Un superbo giardin per suo soggiorno,
E d’altissime mura di metallo
(Fattavi la sua stanza) il cinse intorno.
In questo breve, e misero intervallo
La condannò fin’à l’estremo giorno.
Pur per gradire in parte à l’infelice,
Le diede in compagnia la sua nutrice
Quivi ordinò, che con la sua balia stesse,
Ne quindi volle mai lasciarla uscire,
Perche l’amor de l’huom non conoscesse,
Onde n’havesse à partorire.
Ma però ildisegno gli successe,
Che male il suo destin può l’uomo fuggire.
Quel, che regge nel ciel gli etrni Dei,
La vide un giorno, e s’infiammò dilei
Ma quando l’artificio ammira, e l’opra,
Che’l superbo giardin rende sicuro,
Ch’à pena entrar vi può l’aer si sopra,
Tanto và in sù l’inespugnabil muro,
Fa ch’un torbido nembo il giardin copra,
E fagli intorno il ciel turbato, e scuro.
Nel mezzo poi del nuvolo si serra,
E si fa pioggia d’oro, e cade in terra.
Come la nube minacciar la pioggia
Conosce aperto la donzella Argiva,
Corre, e ponsi à veder sotto una loggia
E de la vista sua l’amante priva.
Ma quando vide in cosi strana foggia,
Ch’ogni sua goccia d’oro puro appariva
Lasciò il coperto, e non teme più il nembo,
Et à la ricca pioggia aperse il grembo.
Poi che’l ricco thesoro à la donzella,
(Che non sa quel che sia)fatt’ha il sen grave,
Ne và contenta in solitaria cella,
Che pensa confidarlo ad una chiave,
Hor quando sola la vergine bella
Giove rimira, e sospition non have
D’arbitro, ò testimonio, che’l palese ,
La vera forma sua divin prese.
Stà per morir la timida fanciulla,
Quando vede quell’or, cha dal ciel piove,
Che la forma dorata in tutto annulla,
E ch’al volto divin si mostra Giove.
Hor mentre egli s’accosta , e si trastulla,
Ella cercafuggirlo, e non sa dove,
Pur tanto ei disse, e tnto oro mostrolle,
Che n’hebbe finalmente ciò, che volle.
Di Giove partorì la donna un figlio,
Formato c’hebbe Delia il nono tondo,
Che d’ardir, di valore, e di consiglio,
A tempi fuoi non habbe pari al mondo,
Ma conoscendo d’ambo il gran periglio,
Se’l ripeteva il suo padre iracondo,
tenne nascosto al folle empio, e tiranno
Quel, che Perseo nomò, fino al quart’anno.
Entrava nel giardino il padre spesso,
Perche di cor la bella figlia amava.
Hor essendovi un giorno, udì da presso
La voce del garzon, che si giocava.
V'accorse, e restò si fuor di se stesso,
Che non sapea, se desto era, ò sognava,
Vedendo entro al giardin la bella prole,
Dov'entra à pena l'aere, il gielo, e 'l Sole.
Pien d'ira, e di furor prende la figlia,
E la strascina un pezzo per le chiome,
La stratia, la percote, e la scapiglia,
E chiede, e vuol, che gli confessi, come
Egli li dentro sia, di qual famiglia,
Che pensi far di lui, com'habbia nome?
La misera si scusa, e scopre il tutto,
E de l'inganno altrui miete mal frutto,
Non crede, che di Giove egli sia nato,
Anchor che chiaro il mostri nel sembiante,
Ma che l'habbia la figlia generato
Di qualche ardito, e temerario amante.
E per fuggir di novo il tristo fato,
Rinchiude lei co'l figlio in uno istante
Dentro un'arca ben chiusa, e in mar la getta,
E crede al Re del mar la sua vendetta.
Di vendicarlo molto non si cura,
Ne Protheo, ne Triton, Teti, ò Portuno,
Anzi particular di Perseo cura
Prende, e di Danae il zio d'ambo Nettuno.
E fa l'arca del mar sorger sicura
In Puglia, ove regnava il Re Piluno.
Tanto, ch'un pescator (ch' ivi trovolla)
Poi che l'hebbe scoperta, al Re portolla.