Ermfr05

sec. XVI d.C

GIOVANNI ANDREA DELL’ANGUILLARA, Delle Metamorfosi d'Ovidio, Al Christianissimo Re di Francia Henrico Secondo, Di Giovenni Andrea dell'Anguillara. In Venetia per Gio. Griffio, ad istantia di M. Francesco Senese, 1563

 

Volea proporre anchor molte novelle,

La proveduta giovane Minea,

Ma le disser d'accordo le sorelle,

Che l'historia del fonte a lor piacea.

Mov'ella allhor le note ornate, e belle.

Nacque già di Mercurio e Citherea

Un figlio, e'l latte da le Naiade hebbe

Là dove in Ida fu nutrito, e crebbe.

 

 

Il nobil viso suo leggiadro, e vago

Hebbe da padri un'aere si felice,

Che in lui scorgeasi l'una, e l'altra imago

Del genitore, e de la genitrice.

Ei di veder varii paesi vago

Lasciò la patria sua, l'idea pendice,

E visto havea quando dal monte Alunno

Partissi, il quintodecimo autunno.

 

 

Il desio di veder gl'ignoti fiumi,

Con l'ignote città, l'ignote genti,

Varie d'aspetto, e varie di costumi,

Varie di region, varie d'accenti,

Se ben diversi, e strani, hispidi dumi

Spesso passò con rapidi torrenti,

Fea, ch'ogni gran fatica et ardua, e grave,

Li parea dolce, facile, e soave .

 

 

Ogni loco di Licia ha già trascorso,

E poi di Licia in Caria ha posto il piede,

La dove pargli raffrenare il corso

Vicino a un fonte cristallin, che vede,

Che subito l'invita a darvi un sorso

L' humor, che in limpidezza ogni altro eccede,

Che lascia (in modo egli è purgato, e modo)

Penetrare ogni vista infino al fondo.

 

 

Spinoso giunco, over canna palustre

Non fa ne l'orlo altrui noia, o riparo,

Ma terra herbosa, e soda il fa si illustre,

Ch'avanza ogni artificio human più raro.

Hor come giunge il giovane trilustre

A' così nobil fonte, e così chiaro,

Vuol ristorare di quello humore il volto,

Che gli ha 'l Sole, e' l camin col sudor tolto.

 

 

Gusta con gran piacer quel chiuso fonte

Preso il garzon dal caldo, e da la sete,

Le man si lava, e la sudata fronte,

E poi va sotto l'ombra d'un abete,

Che fin, che' l Sol non cala alquanto il monte,

Vuol dar le lasse membra a la quiete:

Ma siede a pena in su l'herbosa sponda,

Ch' una Ninfa lo scorge di quell'onda.

 

 

A' questa bella Ninfa mai non piacque

L'andare a caccia, e seguitar Diana,

Come l'altre facean, ma si compiacque

Di non s'allontanar da la fontana.

Le disser le sorelle, homai quest'acque

Lascia Salmace alquanto, e t'allontana,

Non star ne l'otio, in si nefando vitio,

Ma datti a più lodevole esercitio.

 

 

Prendi Salmace l'arco, e la faretra,

E con noi vienne in più lontana selva,

Come fan l'altre, e da Diana impetra

Di ferir seco ogni silvestre belva.

Ma dal lor sempre Salmace s'arretra,

O s'attuffa nel fonte, o si rinselva

Fra gli alberi suoi proprii, e si compiace

Godersi il suo paese, e starsi in pace .

 

 

Senza cura tener de le sorelle

Lieta si sta a' goder le patrie sponde.

Lava tahlor le membra ignude, e belle

Nel dolce fonte suo ne le chiar’ onde,

Talhor siede su l'herbe tenerelle,

E stasi a' pettinar le chiome bionde.

Guarda talhor ne l acque, e si consiglia,

Come s'acconci, e al suo voler s'appiglia .

 

 

Coglie hor fior per ornarsi, e’ n sen gli serba,

E forse anche in quel tempo il fior cogliea,

Che vider gli occhi suoi seder su l'herba

Il figliuol di Mercurio, e Citerea.

Mira, e non scorge in quella etate acerba,

S'egli ha d'un Dio l'aspetto, o d'una Dea.

Ma dal vestir, che sia fanciullo intende,

E del l'amor di lui tosto s'accende.

 

 

E ben che la spronasse una gran voglia

Di gire a' far col bel garzon soggiorno,

Pur non v'andò, che rassettò la spoglia,

E diè l'occhio a' le vesti d'ogni intorno.

Guarda come il suo crin leghi, e raccoglia,

Perche paia più vago, e meglio adorno.

Compone il viso, e non si mostra, ch'ella

Merita in tutto esser veduta bella.

 

 

Come con l'acque si consiglia, e vede

La veste acconcia, il viso, il velo, e'l crine,

E le pare esser tal, ch'al fermo crede

Venir con esso al desiato fine:

Move l'acceso, e desioso piede

Ver le bellezze angeliche, e divine.

Fermò poi gli occhi in lui fisi, et intenti,

E fe l'aria sonar di questi accenti.

 

 

Spirito gentil, ch'alberghi in si bel nido,

Che divin ti dimostra, e non mortale.

E se pur sei divin, tu sei Cupido,

Se ben non porti la Faretra, e l’ale.

Ben ti fu quello albergo amico, e fido,

Che pose tanto studio a farti tale,

Che ti diè si bel viso, e si giocondo,

Ch'un simil mai non n'ha veduto il mondo.

 

 

Felice madre di si nobil frutto,

E se sorella n’'hai non men felice,

Ne di lei men, ne di chi t'ha produtto,

Si può chiamar beata la nutrice.

Ma ben gradita, e fortunata in tutto

La sposa è (se tu l'hai) cui goder lice

Si delicate membra, e si leggiadre,

Che ti formò si gloriosa madre.

 

Se giunto a sposa sei, non ti sia grave,

Ch'io furtivo di te prenda diletto,

E ch'io goda d'un don, così soave,

Come promette il tuo divino aspetto.

Se nodo coniugal stretto non t'have,

Fà me tua sposa, e fa comune il letto.

Non mi negare, o sia legato, o sciolto,

Ch'io goda di quel ben, ch’ in te raccolto.

 

 

Così disse la Ninfa al gentil figlio,

E tutta intenta la risposta attese.

Et ei con gran rispetto abbassò il ciglio,

Tal rossore, e vergogna il vinse, e prese.

Il dolce viso suo bianco, e vermiglio,

Di più bel rosso subito s'accese.

Quel color, che'l dipinse à l'improviso,

Gli fe più bello, e gratioso il viso.

 

 

Come quando il mezzo orbe a noi tien volto

Delia, in cui fere il formator del giorno,

E mostra tutto l'allumato volto,

Onde la veggiam piena, e non col corno,

Se da la terra vien quel lume tolto,

Che'l ricopra con l'ombra ad'ogn’ intorno,

Fra lei stando, e fra 'l Sol, la Luna astringe,

Che d'ostro il suo color confonde, e tinge.

 

 

Così al fanciullo la vergogna tinse

Il volto col sanguigno suo pennello

D'un ostro natural, che gliel dipinse

Di maggior gratia, e’l fe venir più bello.

Con le cupide braccia ella l'avinse,

E diede un bacio a quel color novello,

Ben ch'a la bocca il bacio ella converse,

Ma il garzon torse il viso, e no'l sofferse.

 

 

Non sa, che cosa è amor, nè che si voglia

Il semplice garzon la Ninfa bella,

E cerca tutta via come si scioglia

Da lei, che in questa forma gli favella.

Lascia amor mio, che dai tuoi labri io toglia

Baci almen da congiunta, e da sorella.

Se quei dolci d'amor dar non mi vuoi,

Non mi negar quei de' parenti tuoi.

 

 

Il dolce soro, e mal accorto figlio

Prova sciorsi da lei, ma dolcemente,

Le parla poi con vergognoso ciglio,

Con si timido dir, che appena il sente

A’ più grato camin tosto m'appiglio,

(Ch'io mi sciorrò per forza finalmente)

Se tu m'annoi, e mi molesti tanto,

E da te non ti sciogli, e stai da canto.

 

 

Perch' ei non se ne vada, e non la lassi,

(Come questo parlar la Ninfa intese)

Da lui si spicca, e ritirata stassi,

Seco favella poi tutta cortese.

Altrove non voltar giovane i passi,

Godi sicuro, e sol questo paese.

Già cedo al solitario tuo desio.

E perche ci stia tu, me ne vad'io.

 

 

Così dicendo subito si parte,

E fra certi arbuscelli si nasconde,

E china le ginocchia, e con grand'arte

Fura il bel viso suo tra le fronde, e fronde

Ei si diporta in questa, e in quella parte,

E poi torna a goder le limpide onde.

L'invita il fonte, e 'l caldo gli rimembra,

Ch'ivi è ben rifrescar l'ignude membra.

 

 

E però, ch'osservato esser non crede,

Fa saggio pria del suo temperamento,

E poi discalza l'uno e l'altro piede

E spoglia il ricco, e molle vestimento.

Come la bella Ninfa ignudo il vede,

Infiamma di tal foco il primo intento,

Che gli occhi suoi lampeggian, come suole

Lampeggiar vetro, ove percuote il Sole.

 

 

E si può a’ pena ritenere, (e sullo

Per far) di correr tosto ad abbracciarlo,

Ma stà, che (se ne l'acqua entra il fanciullo)

Con più vantaggio suo potrà poi farlo,

Che quel, ch'ella d'amor brama trastullo,

Quivi otterrà, che ei non potrà negarlo,

Che di quella fontana essendo Ninfa,

Ha tutto il suo poter in quella linfa.

 

 

Entra ei ne l'acque cristalline, e chiare,

Dove à la Ninfa il fonte non contende,

Che possa a quel bel corpo penetrare

Con l'occhio, che si cupido v'intende.

Come in un vetro una rosa traspare,

Che chiusa a gli occhi altrui di fuor risplende,

Tal chiuso ei traspare nel piccol fiume

Al lampeggiante de la Ninfa lume.

 

 

Alza la voce allhor la Ninfa lieta.

Habbiam sicuro già vinto il partito.

Nessuna cosa più mi turba, e vieta,

Ch'io non t'abbracci, e faccia mio marito.

Le gioie, il sottil lin, la ricca seta,

Ogni ornamento suo getta su 'l lito.

E corre ignuda, e cupida e in gran fretta

Nel fortunato suo fonte si getta.

 

 

La dove giunta subito l'abbraccia,

E dove più l'aggrada, il palpa, e tocca,

Li tien poi con le man ferma la faccia,

E se bene ei no'l soffre, il bacia in bocca.

Con le gambe, e le man tutto l'allaccia,

Contra la mente sua semplice, e sciocca

Che ben è sciocco, e semplice colui,

Che se di tanto ben priva, et altrui.

 

 

E gli si scuote, e la discaccia, e spinge,

Irato al fin, la prende per le chiome.

Come l'hedera intorno il tronco cinge,

E con più rami s'avviticchia, e come

Quel pesce il pescatore afferra, e stringe,

Che da molti suo piè Polipo ha nome,

Così lega ella il giovane con ambe

Le braccia, e con le mani, e con le gambe.

 

 

Lo stringe ella, ei si scuote, e ‘l crin le tira,

Cadon su'l lito, et ei perchè no 'l goda,

Si torce, e sforza, tal l'augel, che mira

Fiso nel Sol, talhor la serpe annoda,

Che mentre l'ha nei piedi, e al cielo aspira.

La serpe il lega tutto con la coda

E l'ali spatiose in modo afferra,

Che cadon spesso ambi in un gruppo in terra.

 

 

Ei sta nel suo proposito, e contende,

E nega à quella i desiato bene,

Ma a poco a poco ella in tal modo il prende

Che come era il desio, se 'l gode, e tiene.

E mentre ingorda al suo contento intende,

Di grado in grado in tal dolcezza viene,

Ch’alza i travolti lumi al cielo, e move

Un parlar pien d'affanno, e rotto a Giove.

 

 

Fa sommo Dio del gran piacere, ch'io sento

Tutti i miei sensi eternamente ricchi,

E che'l ben, che mi dà si gran contento,

Mai da me non si parta, e non si spicchi.

Et ecco, non so come, in un momento

Par ch’ un corpo con l'altro in un s'appicchi.

Le cosce si fan due, che quattro foro,

Così le braccia, e l'altre membra loro.

 

 

Già la schena di lei di pancia ha forma,

Che la pancia di pria nè l'huomo è entrata.

Già d'un corpo comun l'un l'altro informa,

E fanno una figura raddoppiata.

Il doppio collo, e viso un Sol si forma,

E fassi un huom d'effigie effeminata.

Son due, ma non però fanno una coppia,

Ma in un corpo comun la forma è doppia.

 

 

Così ramo con ramo anchor s'innesta,

E poi, che ben s’è unito, e alquanto alzato,

Così conforme l'uno a l'altro resta,

Che par, che 'l ramo sia nel tronco nato.

Così la donna, e l'huom fanno una testa,

Ma non è alcun di lor, quel, ch'è già stato.

Non è donna, nè d'huom, ma resta tale,

Ch'è donna, et huom, nè l'un nè l'altro vale.

 

 

Come il figliuol di Mercurio s'accorge,

Ch'egli è fatto mez' huom, d'unhuom intero,

E che gli ha l'acqua chiara, ch'ivi sorge,

Effeminato il suo volto primiero,

Queste preghiere a suoi parenti porge,

Ma non co’l suo parlar virile, e vero.

Con voce dubbia al ciel le luci fisse,

E questi prieghi Hermafrodito disse:

 

 

Pietosa madre mia, genitor pio,

Fare al vostro figliuol gratia vi piaccia,

Ch'ogni huom, che in questa fonte entra, com'io

Fra la donna, e fra l'huom dubbio si faccia.

Allhor la madre Dea col padre Dio

Fan, che in quel fonte l'huom cangi la faccia.

Quell'acque fan di tanto vitio sparte,

Ch'ogni huomo Hermafrodito se ne parte.

 

 

ANNOTATIONI DEL QUARTO LIBRO

 

Si legge bene di Salmace fonte di Caria; il quale trasformava quanto in donne quanto in huomini quelli che si tuffavano nelle sue acque; è questa qualità gli fu data a preghi di Hermafrodito figliuolo di Mercurio, e di Venere, giovane bellissimo, il quale essendo entrato nel fonte di Salmace ninfa; fu di modo stretto ad essa, che di dui corpi se ne fece uno solo che haveva l'uno, e l'altro sesso, onde vedendose Hermafrodito huomo, e donna chiese in gratia a i suoi genitori che divenissero simili a lui tutti quelli che si bagnavano in quel fonte. e l'ottenne, ed da indi in poi vedendose gli effetti di quell' aque era chiamato da ogni uno quel luogo infame.

La secreta intelligentia di questa favola, secondo alcuni è che nelle matrici delle donne sono sette le stanze che ricoglino il seme dell'huomo, tre dalla parte destra, che producono i maschi, e tre dalla sinistra che producono le femine et una nel mezzo, laquale riccogliendo il seme ha forza di produre l'uno e l'altro sesso insieme, per questa cagione vogliiono dire che Hermafrodito nascesse di Mercurio, havendo Venere raccolto il seme in quella stanza di mezzo. Altri hanno voluto dire che viene detto questo di Mercurio perche fra gli altri pianeti, è maschio con i maschi, e femina con le femine, onde quelli che l'hanno al nascer in ascendente, che non habbi l'opposizione d'altro pianeta, sono molto vaghi del piacer dell'uno, e dell'altro sesso.