Ermfr03

sec. XVI d.C

LODOVICO DOLCE, Le Trasformazioni di M. Lodovico Dolce, all’invittissimo e gloriosissimo Imperatore Carlo Quinto, In Venetia appresso Gabriel Giolito De Ferrari e Fratel, 1553, canto nono, pag 90-93

 

Quanti senza gustar fiume, ne fonte

Da incantato velen turbido e infetto,

Cangiar d'huomo non pur aspetto e fronte,

Ma natura, discorso, et intelletto:

Ne bisogna, ch'io scriva, o ch'io vi conte

Quel, che può fare in noi lascivo affetto.

Liquor, che nuoce a le virtudi nostre

Son Donne l'alte bellezze vostre.

 

Anzi non son; ch'angelica e divina

Cosa, non è cagion d'effetto rio.

Divina è la beltà, per cui camina

L'huom sormontando con pensier a Dio.

Ma piu tosto dirò Salmace e Alcina

Quel, che sovente e in noi, torto disio;

Che non pur toglie altrui forza e maniere

Viril, m'ancora ci trasforma in Fiere.

 

Nacque (non vi so dir, qual fu l'etade)

Di Mercurio, e de l'alma Citherea

Un fanciul, che nudrir poi le Naiade

Ne gliantri bei de la Montagna Idea;

Nel cui leggiadro viso la beltade

D'ambedue i genitori si conoscea:

Onde il nome da quelli hebbe sortito,

Che suona in Grechi accenti Hermafrodito.

 

Come il fanciullo a i quindici anni arriva

(Vaga e semplice età, che non ha freno)

Lascia di se quella Montagna priva,

Godendo di girar vario terreno;

E spesso si fermava in verde riva

Di fronte, o fiume limpido et ameno;

E'l grande piacer, di che l'alma nudriva,

L'affanno del camino alleggeriva.

 

Ma pervenuto in Caria finalmente

(Che stelle nel giudar poco feconde)

Un bel stagno trovò d'acqua lucente,

C'havea d'intorno herbose e verdi sponde:

Di cui l'alma Natura non consente,

Che giunco o canna turbi le chiar'onde:

Ma così d'ogni parte è puro e mondo,

Che tutto a gliocchi altrui dimostra il fondo.

 

Esser questo solea nido e ricetto

Di bella Ninfa, che fra tutte sola

Non prendeva di caccie alcun diletto,

O di veder, com'altra al corpo vola.

Da questa il saettare era negletto,

Così la casta faretrata scola

Di Delia, ch'a conoscer tutte avvezza,

Solamente di lei non ha contezza.

 

Fu più volte di questo ella ripresa

Da le Sorelle, et invitata spesso

A seguir del cacciar l'ardita impresa,

Lasciando quel pensier vile e dimesso:

Ma da costei non è la voce intesa;

Anzi ogni studio ha nel suo Lago messo;

E, come natural desio la invita,

Ha fermo di menar quivi sua vita.

 

Salmace (che la Ninfa haveva tal nome)

Spesso nel Lago il suo bel corpo lava:

Hor pettinando le dorate chiome

Se stessa ne le chiare acque specchiava:

Da tale specchio, onde s'adorni e come,

L'ordine e la maniera ella pigliava:

L'era il Fonte ministro e consigliero,

E del bel volto suo ritratto vero.

 

Quando soleva a lenti passi ignuda

Girsi d'intorno al bel liquido vetro:

Quando copriva la persona ignuda

D'un drappo, che potea dirsi di vetro ;

E trasparea, quantunque fosse ignuda,

Come Rosa vermiglia in sottil vetro:

Ma, che vestita o no, fosse la Ninfa,

Non hebbe fonte mai piu bella Ninfa.

 

Hor fra tenere foglie et herba giace,

Che spargea di lontan soavi odori:

Hor, mentre sola a se medesima piace,

S'adorna il biondo crin di rose e fiori.

Questo faceva alhor, che la sua pace

Furo a sturbare i pargoletti Amori;

Che vedendo del giovene l'aspetto,

Non piu sentito amor l'entrò nel petto

 

E desiando haver cosa si bella

Alhor alhor ne le sue braccia stretta;

Pria he sen vada a lui, tutta s'abbella,

Ornando il crin di vaga ghirlandetta;

E studia, quanto puo d'avanzar quella

Bellezza, ch'era in lei semplice e schietta;

Non col bianco e'l vermiglio, onde voi tutte

Donne di non parer cercate brutte.

 

E facendo ciascuna Idolo un specchio,

Non mai d'adoperare i lisci è stanca;

Di cui sempre ve n'ha tanto apparecchio,

Che pria la lena, che la copia manca.

Cosi muro talhor putrido e vecchio

Huom per celar la sua bruttezza, imbianca;

Ma il tempo leva poi la crosta via,

E lo fa ritornar, qual era pria .

 

Donne non disprezzate la figura,

Che vi diè quel, che fe tutte le cose.

Son via piu grate l'opre di natura,

Che quelle, u dotta mano industria pose.

Salmace si lavò con l'acqua pura,

E sol le treccie ad ordine compose:

E rassettando ben la sottil vesta,

Si pose dico una ghirlanda in testa.

 

Poi, che vicina l'amoroso strale

La fece si, ch'aprir potè il desio,

Caro fanciul, la cui bellezza è tale

(Dice) ch'io posso assomigliarti a un Dio.

Se Dio, tu sei Cupido: e se mortale

(Che mortal gia non sembri a l'occhio mio)

Felice il padre tuo, felice quella ,

Che ti diè latte, e s'hai sposa o sorella.

 

Anzi tre volte e piu colei beata,

Che merita gioir di tal consorte;

O chi sarà ne l'avvenir degnata

(Se non ve n'hai) di così lieta sorte,

Se ad altra pur tanta ventura è data,

Che t'habbia a posseder fino a la morte.

Degnati di far degno del tuo amore

Me, che di me ti do l'anima e'l core.

 

E, se pur sei da questi nodi sciolto,

Non ti sia grave di legarti meco:

Che, se riguardi ben questo mio volto,

Forse indegna non son d'habitar teco.

Non è lontan da questo fonte molto

Un fresco, soletario, ombroso speco:

Onde potrem, senza ch’alcun ci veggi,

Adempir d'Himeneo le sante leggi.

 

Il garzon, che non sa cosa è amore,

A quelle voci diventò vermiglio;

Come maturo pomo, o rosa, o fiore,

Che sian vicini a un bel candito Giglio.

Il che facea la sua beltà maggiore,

Piu caro il guardo, e piu gradito il ciglio.

Così, benche si turbi, e si disdegni,

In bella Donna son dolci gli sdegni .

 

Un bacio (ella segui) fanciul ti cheggio

Per arra; e, se non degno di mogliera,

Mentre, che i tuoi divini occhi vagheggio,

Sia di sorella almen pura e sincera.

Con le parole Amor tolta il seggio

Ogni honestà, mosse la Ninfa altera

A voler con sicura ardita faccia

Metter al collo del garzon le braccia.

 

Et egli, o cessa, o ch'io mi parto,disse;

E cio farò, se t'avvicini un poco.

Vi lasso immaginar, che duol trafisse

Salmace, e s'avampò tutta di foco.

Dubitandosi al fin, ch'ei non fuggisse,

Dice, Ti lascio homai libero il loco.

E fingendo partirsi, ella si ascose

Là da vicin fra certe piante ombrose.

 

Quando parve al fanciul d'esser soletto,

Per l'herba verde hor quinci, hor quindi aggira;

E invaghito del lucido laghetto,

S'accosta, e fiso a le bell'onde mira:

Poi dentro pien di giovenil diletto

Vi pon l'uno de' piedei, e lo ritira;

Iquai d'ogni costume nostro fuora

Portava ignudi: e così haveva alhora.

 

E parendogli assai temprato il gelo,

Bagnarsi dentro al giovinetto piacque.

Del bel tenero corpo il puro velo

Ne lieva; e tutto lieto entrò ne l'acque.

O, come crebbe l'amoroso zelo

In Salmace; e maggior del primo nacque

Il desio; poi ch' ignude vide quelle

Membra, di cui non furo altre piu belle.

 

Sfavillan gliocchi suoi, si come suole,

Quand' è piu bello e piu lucente il giorno,

Da un chiaro specchio ripercosso il Sole,

Che gliocchi abbaglia, e si riflette intorno.

A pena si ritien: pur bada e vuole

Tanto restar, che non riceva scorno

Fuggendole il garzone: e, mentre aspetta,

Incredibil piacer l'alma diletta.

 

Come il giovene fu dentro ne l'onde,

Tocca cò mani una o due volte il petto;

Poi braccia e gambe a tempo move, et onde

Si dipartì, spesso volgea l'aspetto.

Tralluce l'acqua; e piu non lo nasconde,

Che bianco Giglio un bel cristallo schietto.

Habbiam vinto, sei mio, gridò la Ninfa;

E nuda entrò ne la sua chiara linfa.

 

E'l giovene, che'n van, pugna e contende,

Da la bella seguace è giunto tosto:

Lo cinge ad ambe braccia, e stretto il prende;

Che scior non se ne puo, ne gir discosto.

Egli di quà di la s'aggira e stende:

Quella gli ha piu d'un nodo intorno posto:

Che gambe e braccia frettolosa avinge:

E bocca e petto ad un li baci e stringe.

 

Come ad Aquila audace, irata e presta

Serpe, che presa sia da i feri artigli,

Annoda i piedi, e la superba testa

Tanto, che l'ali ancor cinga et appigli:

O, come avvien, che tronco Hedera vesta,

O, Folpo in mare il suo nimico pigli:

Così di qua di là stretto tenea

Salmace il bel garzon, che preso havea.

 

Egli pur tenta uscir di quelle mani ,

Che lo stringono ogn' hor piu salde e forti:

Ma son le forze e i suoi disegni vani;

Convien la Ninfa la vittoria porti.

Accio tempo da te non m'allontani,

Dice, ne mai da me possa distorti,

Faccia, chi fece l'uno e l'altro polo ,

Che divengan due corpi un corpo solo.

 

Fu la dimanda in ciel di tana forza,

Che di due corpi un solo hebbe a formarsi;

Come, chi pon due rami entro una scorza,

Vede crescer col tempo, e un solo farsi.

Così 'l desio di Salmace s'ammorza,

Che in altra guisa non potea quetarsi.

A questo modo l'un l'altro diviene;

Che un corpo solo ambi li sessi tiene .

 

E non era ne maschio ne donzella;

Ma li due corpi raccozzati in uno

Si mostravano insieme e questo e quella;

Cosa che forse pria non scorse alcuno.

Com'ei si vide d'huom mezzo polcella,

Pregò Venere e 'l padre, che ciascuno,

Ch' in quell' onde la sorte conducesse,

La natura di lui prender dovesse.

 

Fecero questi alhor l'acque incantate;

E tal del nuovo effetto è la cagione.

Qui hebbe le prole terminate

Leucothoe; e fe qui punto al suo sermone.

 

Allegoria tratta dall'edizione del 1561: Le Trasformazioni di M. Lodovico Dolce in questa sesta impressione da lui in molti luoghi ampliate, con l'aggiunta degli argomenti, et allegorie al principio et alla fine di ciascun canto. In Vinegia appresso Gabriel Giolito de Ferrari 1561

 

Si puo prender per Hermafrodito la mirabile unione, che fa l'anima con Dio, lasciando queste cose transitorie e mortali, e poggiando alla contemplazione delle Divine