Armofr06

1563

GIOVANNI ANDREA dell'ANGUILLARA, Le Metamorfosi d’Ovidio ridotte in ottava rima, In Venetia, Libro IV

 

Cadmo non sà, che 'l nipote, e la figlia

La Deità marina habbia ottenuta;

Ne che Nettuno con la sua famiglia

Nomini lui Portuno, e lei Matuta.

Onde à lasciar già vinto si consiglia

La città travagliata, e combattuta

Da tanti strani, e miseri portenti,

Quella, ch'edificò da fondamenti.

 

Vecchio, scontento, e misero si parte

Ne la opinion sua fermo, e costante,

Con la figlia di Venere, e di Marte,

E ne l'Illiria al fin ferma le piante.

Li revocò à memoria à parte, à parte,

Dal dì, ch'egli lasciò d'esser infante,

Tutta la vita sua cosa per cosa,

Con la seco invecchiata, e cara sposa.

 

Oime (poi disse) oime superno Dio,

Ho pur discorsi i miei passati eccessi,

Qual' offesa, qual mal mai vi feci io,

Che in tal calamità cader dovessi?

Sei personaggi ho già del sangue mio

Da morte si crudel veduti oppressi,

Che dar non si potria più cruda, ò tale

À chi commesso havesse ogni gran male.

 

Forse questo m'avien per quel serpente,

Ch' io venendo di Tiro uccisi à l'acque,

Che fe, che tutta la Sidonia gente

Innanzi à gli occhi suoi distesa giacque.

S'io lui non uccidea, col crudo dente

Egli ucciso havria me, tal che non nacque

La morte sua da mala intentione,

Quando io ciò fei per mia defensione.

 

Se ingiuria à qualche Dio signor si fece

Del serpe, e contra me serva lo sdegno,

Faccia serpente me, che in quella vece

Sarò serpe à quel Dio, s'io ne son degno.

Dà fine à pena à la sua lunga prece,

Ch'unisce l'uno, e l'altro suo sostegno.

Le due gambe si fan coda di serpe,

Che s'aggira per l'herbe, striscia, e serpe.

 

Già simiglia Erittonio, ha già di drago

Dal nodo de le cosce insino al piede,

E di quel, che sarà vero presago,

Questo consiglio à la consorte diede.

Godi una parte de la prima imago

Donna, mentre dal ciel ti si concede.

Godi la man viril, l'humane labbia

Pria, che tutto inserpito il serpe m'habbia.

 

Piange la Donna amaramente, e dice,

Dolce marito mio, che sorte, e questa?

Qual fato, qual destin, qual ira ultrice

Prender ti fa la serpentina vesta?

Piange egli, e parla à lei; donna infelice

Non pianger, ma l'huom godi, che mi resta.

Ecco viril la man, viril la bocca,

Baciami l'una homai, l'altra mi tocca.

 

La mesta moglie il bacia, e la man stringe,

E riguarda la coda, che s'aggira,

Et un color, che lui vago dipinge,

Ceruleo, e nero, ombrato à scacchi mira.

Intanto tutto il corpo il serpe cinge

Fin' à le braccia, e la man dentro tira.

Cadmo oime (dice allhora) oime consorte,

La man dentro se'n vien, tienla ben forte.

 

La man per forza v'entra, e 'l dir gli è tolto,

Che la lingua in due parti à lui si fende,

E forma prima un favellar non sciolto,

E poi suona un parlar, che non s' intende.

Già la serpigna squama asconde il volto,

E se vuol favellare, il sibil rende.

Pur si volge à la moglie, e dir s'arrischia,

Ma in vece di parlar sibila, e fischia.

 

Vede, e stupisce l'infelice moglie,

Come tutto in quel serpe ei si nasconda.

Poi dice, esci, ben mio di quelle spoglie,

Del cuoio serpentin, che ti circonda.

Oime, dov'è il tuo viso, e chi ti toglie

La lingua, e fa, che fischi, e non risponda.

Dov'è l'amato petto, ù son le mani,

Le spalle, i fianchi, e gli altri membri humani.

 

Si china poi la donna su'l terreno,

E liscia il serpe, et ei la cara sposa

Riguarda, e l'entra poi serpendo al seno,

E quivi s'attortiglia, e si riposa.

Stupiscon, che non tema il suo veneno

Alcuni, e stimar lei molto animosa,

Che comparir, senza saper il fatto,

E restò ogn'un, che 'l vide, stupefatto.

 

Nel seno il liscia la venerea figlia,

E 'l serpe alza la testa, e in su si spinge,

E intorno al bianco collo s'attortiglia,

Con cinque cerchi, ò sei l'annoda, e cinge.

L'hedera intorno al tronco rassimiglia,

Che circonda la scorza, e non la stringe.

La bacia il grato serpe, e le fa festa,

Nel noto petto poi ficca la testa.

 

Stassi il capo nel seno, e par che dorma,

E gode il ben, che 'l ciel già fe per lui.

Prega la donna; ò Giove, e me trasforma,

Si, ch'anchor serpe io sia moglie à costui.

Ecco à un tratto ancho à lei fugge la forma,

E non è più un serpente, ma son dui.

E serpono ambedue fra l'herba, e vanno

Ne' più propinqui boschi, e lì si stanno.

 

Questi fecer di serpe quella sorte,

La qual Cervona apppella il Regno Tosco,

Non fuggon l'huom, ne men temon la morte

Da lui, ne 'l mordon mai, ne meno han tosco.

Hor, come vuol la lor cangiata sorte,

Se ben comunemente amano il bosco,

Han l'huom (c'huomini fur) per cosi fido,

Che fanno in molte case i figli, e 'l nido.

 

Questo conforto solo era restato

Al vecchio lor ringiovenito amore,

Che Bacco il lor nipote havea portato

Da tutta l'lndia il trionfale honore,

E per tutte le patrie era adornato

Da la città crudel d'Acrisio in fuore,

Il qual non sol raccor dentro no'l volle,

Ma stimò la sua pompa infame, e folle.

 

Che stupor fia, s'Acrisio il Re non crede

À le feste di Bacco altere, e nove,

Poi ch'al nipote proprio non dà fede,

Ne vuol, che sia figliuol Perseo di Giove?

Nel viso suo l'alta sembianza vede

Del Re, che tutto intende, e tutto move,

Ne sol non l'ha per quel, ch'appar nel volto,

Ma il fa gittar nel mar crudele, e stolto.