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8-12 d.C.

OVIDIO, Metamorfosi, IV, 562-603

Testo tratto da: Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, traduzione a cura di Bernardini Marzolla P., Einaudi, Torino 1994

 

(Cadmo) Il figlio di Agenore ignora che la propria figlia e il nipotino ora sono divinità marine. Vinto dal dolore, da tutte quelle sciagure e dai tanti prodigi che ha visto, lascia la città che ha fondato, come se sul luogo e non su lui gravasse una maledizione. Dopo aver errato a lungo, in fuga con la moglie giunge nella regione degli Illiri. E mentre, oppressi ormai dalle sventure e dagli anni, conversano rievocando gli eventi del casato e rivangano i loro guai, Cadmo osserva: «Forse era un serpente sacro quello che, al tempo in cui lasciammo Sidone, io trafissi con la lancia, spargendone al suolo, come assurda semente, i denti velenosi. Se è volontà degli dei vendicarlo con ira così spietata, possa io strisciare lungo il ventre come un serpente». Disse, e come un serpente si distese lungo il ventre, sentendo che sulla pelle indurita gli spuntano squame, che il corpo si fa nero e si chiazza di macchie azzurre. Caduto prono sul petto, le gambe si fondono insieme e a poco a poco si assottigliano in una punta affilata. Non gli restano che le braccia, e le braccia, finché gli restano, tende, con le lacrime che gli scorrono sul viso ancora umano: «Accòstati, moglie mia,» dice, «accòstati, moglie mia infelice, e finché qualcosa di me sopravvive, toccami, prendimi la mano, finché è tale, finché il serpente tutto non mi pervade!». Vorrebbe, sì, dire di più, ma la lingua si scinde a un tratto in due, le parole che ha in animo di dire si spengono e ogni volta che cerca di emettere un lamento, sibila: questa è l'unica voce che natura gli lascia. Colpendosi con le mani il petto ignudo, la moglie grida: «Cadmo, no, no! spògliati, sventurato, di questa forma mostruosa! Cadmo, che accade? dove sono i piedi? e le spalle, le mani, il tuo colore e, mentre parlo, il viso e ciò che resta? Perché mai, dei del cielo, non mutate anche me in un serpente uguale?». Così protesta, e lui lambisce il volto della moglie, s'insinua in quel suo seno adorato, come se lo riconoscesse, e avvolgendola in un abbraccio, cerca il collo che gli è familiare. Tutti i presenti, i loro compagni, guardano atterriti; ma lei accarezza il collo viscido di quel serpente crestato e di colpo sono in due a strisciare intrecciando le spire, finché non si nascondono nel folto di un bosco vicino. Ancor oggi non fuggono l'uomo o l'aggrediscono per ferirlo: serpenti innocui, che non possono scordare chi furono un tempo.