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LODOVICO DOLCE, All’invittissimo e gloriosissimo Imperatore Carlo Quinto, Le Trasformazioni di m. Lodovico Dolce, in Venetia, appresso Gabriel Gioito de Ferrari e fratelli, Canto ottavo, pp. 88-89

[…]

Tu a commodi del mondo acerbo e duro

hai sempre gliocchi a riguardare intenti

Leucothoe sola: e Climene non prezzi,

e Persa, e Rodo, e Clitia  anco disprezzi.

 

Questa e molt’altre alhor teneva a vile

Apollo (e ben di ciò Clitia si dolse)

Leucothoe via piu bella e piu gentile

gli sembra, e tutto a lei l’animo volse:

così serbando il sopra detto stile,

d’ogn’altra cura e d’ogni amor lo sciolse,

era figlia costei (se ’l ver non mente)

d’Orcamo re de l’odorata gente.

 

Orcamo fu de la donzella padre,

che discendea dal primo antico Belo,

e resse Persia: e di lei fu la madre

Eurinome; che, quante sotto ’l cielo

donne hebbe quella età belle e leggiadre,

o vestisser giamai corporeo velo,

di beltà ninfe: e sì com’era sola,

così vinta fu poi da la figliuola.

 

Sotto l’occidental clima, ove suole

girsene il dì, quando la notte riede,

v’è un ampia stalla, ove i destrier del Sole

soglion posar l’affaticato piede.

Ne sono il cibo loro herbe e viole,

ne fieno o paglia lor Febo concede:

ma di celeste ambrosia esso gli pasce

che sol là suso in miglior campi nasce.

 

E mentre quelli a sì divina cena

prendon de le fatiche ampio ristoro;

e la notte il bel carro in giro mena,

e nel lucido azur fiammeggia l’oro;

Febo, che piu non puo soffrir la pena,

alhor, c’havea riposo il suo lavoro,

d’Eurinome, si come amor l’informa,

madre de la fanciulla, prese la forma.

 

E là, dove costei nel mezo a molte

(qual si soleva alhor) fidate ancelle,

tenea l’occhio e le mani intente e volte

a bel lavoro in compagnia di quelle;

entrando, ambe le luci a lei rivolte,

come madre, basciò le guance belle.

Poi disse, figlia queste escano: ch’io

di secreto parlar teco desio.

 

Quivi, come fu sol, tutto giocondo

disse, ch’egli era quello, ch’apporta

l’anno, lume del cielo, occhio del mondo;

e, che lei piu, ch’ogn’altra cosa, amava.

Stupì la donna; e dal parlar facondo,

ch’amorosa pietade in lei destava,

a poco a poco mitigata cesse

di Febo a dolci preghi, a le promesse.

 

Ma potè piu ne l’animo cortese

de la giovane accorta e pellegrina,

quand’egli sé ne la sua forma rese,

la incomparabil sua beltà divina.

Seco il bramoso dio la notte spese,

fin, che l’Aurora la gelata brina

dal suo carro spargendo, a far ritorno

Chiamollo in cielo, a rimenare il giorno.

 

Clitia, che ’l fatto chiaramente intese,

come quella, che Febo amava molto,

di cio tal rabbia, e tanta invidia prese,

che non hebbe mai piu sereno il volto:

e tosto al vecchio padre il fe palese

ch ’n tutto da pietà diviso e tolto,

dentro una fossa, ove la terra e priva

d’humor, fe sepellir la figlia viva.

 

Febo di doglia e di pietà ripieno

cercò con la virtù de’raggi poi

fender, perch’ella uscir possa, il terreno,

ma vani furo i desideri suoi;

però ch’ogni vigor di quel bel seno

era fuggito: e tu Febo non puoi

contra il voler de’ fati eterni in vita

del corpo ritornare alma partita.

 

Ne dopo la caduta di Fetonte,

che già com’io vi dissi, il punse tanto,

sì grave duol gl’impallidì la fronte,

et offese, e turbò l’animo santo.

Poi, ch’al voler non ha le forze pronte

tengasi quel ch’è suo, la morte intanto,

dice: farò, che del bel corpo fuore

infino al ciel n’ascenderà l’odore.

 

E quello e ’l luogo andò con larga mano

d’odorifero nettare spargendo:

questo si liquefece; e a mano a mano

per le zolle venir vide surgendo

verghe d’incenso, ilqual mandò lontano

l’odor, che verso ’l ciel corse salendo:

però, ch’ardere il gran sempre fecondo

usò dapoi ne i sacrifici il mondo.