Titolo dell'opera: Clytie
Autore: Giulio Cartari
Datazione: 1670-1680
Collocazione: la parte inferiore del corpo della figura è antica, ed è conservata a Madrid, presso il Museo del Prado; la parti del busto, della testa e della mano destra, opera del Cartari, si trovano, invece, nel Museo di Ponte Vedra.
Committenza: Cristina di Svezia
Tipologia: statua
Tecnica: scultura in marmo a tuttotondo
Soggetto principale: Clizia
Soggetto secondario:
Personaggi: Clizia
Attributi: dita della mano destra in forma di radici (Clizia)
Contesto:
Precedenti:
Derivazioni:
Immagini:
Bibliografia: H. H. Brummer, Two works by Giulio Cartari, in «Konsthistorisk Tidskrift», 3-4, 1967, pp. 106-123;H. van de Waal, Iconoclass, Amsterdam-Oxford-New York 1980, Bibliography 8-9, p. 187
Annotazioni redazionali: Si tratta del restauro di una statua antica realizzato da Giulio Cartari, seguace del Bernini, su commissione della regina Cristina di Svezia, per la sua collezione di pezzi antichi, allora conservata in Palazzo Riario, in Via della Lungara, sua residenza a Roma. L’idea di restauro diffusa nel Seicento non rispondeva ancora a dei criteri di scientificità: l’artista che eseguiva il restauro, inteso come rifacimento dei pezzi mancanti dell’opera, non aveva come obiettivo principale la ricostruzione fedele dell’originale classico, egli si proponeva, piuttosto, di realizzare un concetto antico, cercando di imitare lo stile classico, anche se poi la tipologia classica poteva risultare trasformata dagli influssi dell’arte a lui contemporanea. Perciò, Cartari, avendo a disposizione la parte inferiore del corpo di una figura seduta su di un fianco con le gambe piegate di lato, realizzò il busto nudo di una fanciulla con i capelli sciolti sulle spalle, il capo rivolto all’indietro e lo sguardo al cielo, poggiante sul braccio destro, le cui dita della mano avevano l’aspetto di radici. L’artista scelse, quindi, di servirsi del pezzo antico per rappresentare una figura mitologica, Clizia, fondendo il momento della contemplazione disperata dell’amato Apollo nel cielo con quello della sua metamorfosi. Egli fece certamente riferimento alla fonte ovidiana del mito (Metamorfosi, IV, 234-237; 254-270): infatti, come narra l’autore latino, essendo stata allontanata da Apollo per aver causato la morte della sua amata Leucòtoe, la ninfa è raffigurata seduta a terra, con la parte superiore del busto girata e con la testa rivolta verso l’alto, sostenendosi sulla mano destra poggiata a terra (mentre il braccio e la mano sinistra dovevano essere sollevati sulla fronte a proteggersi gli occhi dal fulgore dell’astro, o in atto di sottomissione all’amato dio). Tuttavia, avendo trascorso la maggior parte del suo tempo in contemplazione di Apollo, non preoccupandosi del cibo, e quindi deperendo, Clizia sta iniziando qui a trasformarsi in un vegetale, o meglio in quel fiore che segue anch’esso il movimento del sole nel cielo durante il giorno, il girasole. L’intento del Cartari, dunque, era di proporre una figura classica, e tuttavia, sebbene la provenienza del frammento originale sia sconosciuta, è possibile affermare, con quasi assoluta certezza, che il soggetto della statua antica non fosse il mito di Clizia, narrato da Ovidio nelle Metamorfosi, giacché sino ad ora almeno non si conoscono rappresentazioni della ninfa nell’arte classica. L’artista, quindi, dovette compiere qui un’operazione arbitraria, ed ispirato dalla posizione delle gambe del frammento antico, scelse di “mettere in figura” il mito di Clizia, probabilmente anche per influsso dell’arte a lui contemporanea, e precisamente del dipinto di Poussin il Regno di Flora, che raffigurava Clizia in un atteggiamento analogo. La ninfa anche in quest’opera, infatti, è a terra girata a guardare in cielo il carro di Apollo, e proprio il suo ripararsi gli occhi con la mano sinistra sulla fronte ha fatto ipotizzare che anche il braccio e la mano sinistra della Clizia del Cartari potessero essere in quella posizione. Tuttavia, mentre sembra che nell’opera di Poussin non vi sia alcun accenno alla metamorfosi di Clizia in girasole, risulta una scelta originale da parte del Cartari fondere il momento della contemplazione con quello della trasformazione in “eliotropio”: le dita della mano destra della statua, infatti, hanno l’aspetto di radici. Ci si è chiesti, però, se, al di là di un semplice influsso iconografico dell’opera di Poussin, alla base della scelta del soggetto vi potesse essere una ragione più complessa, ed, in effetti, alcuni critici hanno voluto collegarla con gli interessi specifici della regina Cristina di Svezia. Infatti, il gesto che si suppone compiuto dalla ninfa con la mano sinistra, poteva essere sia di protezione dalla grande luminosità della divinità in cielo (divinità che secondo l’interpretazione cristiana poteva essere identificata con Dio stesso), oppure poteva essere interpretato come atto di devozione e di sottomissione al dio del Sole. L’emblema dell’eliotropio, in effetti, è stato spesso spiegato come devozione dell’anima umana a Dio, ossia dell’amante verso colui che ama, e tale significato è affine a quello dell’impresa della Fenice, una delle preferite della regina Cristina. Anche l’atto della Fenice di bruciare se stessa in un rogo aveva assunto un significato prevalentemente cristiano di profonda fede nella resurrezione dopo la morte, poiché la Fenice risorgeva dalle proprie ceneri. Una Fenice che brucia se stessa in un rogo, rivolgendosi al Sole alto nel cielo, compariva sulle medaglie della regina Cristina di Svezia, datate fra 1659 e 1665, a simboleggiare appunto la sua devozione. In conclusione il mito di Clizia, interpretato in senso cristiano come sottomissione e devozione verso la divinità, per il restauro del pezzo antico, potrebbe anche esser stato richiesto dalla regina stessa.
Elisa Saviani