Ludovico Dolce, Le Trasformationi, Venezia 1553 (II ed.), canto VIII (pp. 89-90)
Ma Clitia, anchor che ’l giusto suo dolore
potea farle appo ’l Sol scusa non lieve,
e quel, ch’a lui portava, estremo amore
ch’a chi piu ama, e piu l’offesa greve;
non piu degno di fe: di che ’l suo core
cordoglio e passion tanta riceve,
che dal comertio human tutta s’invola,
e ne va per le selve errante e sola.
Lasciò da parte ogni leggiadra veste,
ch’usava per accrescer la beltade,
onde piacesse a l’amator celeste,
l’oro, le perle, e l’altre cose grate
e nuda e scalza gia per le foreste
tal, che le trigri havria mosso a pietade.
Giva per boschi e selve: e pur un poco
non si fermava in habitato loco.
Dormiva al freddo e discoperto cielo:
anzi dormiva no; che ’l suo martire
non lo consente, e quando il negro velo
il copre, e ’l chiaro di lo fa sparire.
Non si cura di caldo, ne di gelo;
et è solo et eterno il suo languire.
Senza cibo otto giorni e senza sonno
la vide quel, che de la luce è donno.
Sol di lagrime eterne e di rugiada
pasce il digiun, ne puo quetar la mente.
Giace ne la piu dura incolta strada,
e sempre tiene al sol le luci intente;
o ch’a gli hesperij liti egli sen vada,
o ritorni a far chiaro l’oriente.
Così Clitia non sà, ne puo, ne vuole
Levar, dov’ei sen và, gliocchi dal sole.
Restaro finalmente nel terreno
fitte le membra, e trasformate in herba,
c’ha il fior vermiglio, e di beltà ripieno
vago color di violetta serba;
ch’in bel giardino, o lieto colle ameno
pallida nasce a la stagion acerba
alhor, che Febo sua virtute infonde,
e ’l mondo adorno fa d’herbe e di fronde.
Volge ancor ne le cangiate spoglie,
(benche ninfa non piu, ne donna fia)
in fin, che dura il giorno, le sue toglie,
dovunque Febo il suo bel carro invia:
che ’l vivo antico amor non le si toglie;
ne per lungo girar d’anni oblia.
[…]