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GIOVANNI ANDREA dell'ANGUILLARA, Le Metamorfosi d’Ovidio ridotte da Giovanni Andrea dell’Anguillara in ottava rima, Lib. III
Stassi Giove turbato per la morte,
Ch'ogni sua gioia, ogni suo ben gli ha tolto,
E 'l punge, e rode quel pensier di sorte,
Che qual sia dentro il cor fuor mostra il volto,
Di questo s'affligea la sua consorte
Che scorgea il suo desio lascivo, e stolto,
E questo tal travaglio, e duol l'apporta,
C' ha gelosia di lei, se bene è morta.
Ne può tenersi d' ira, e rabbia accesa,
Vinta dal duol, che non le venga detto,
Che cosa tanto v' ha la mente offesa,
Che vi fa sì turbato ne l'aspetto?
Pensate forse à nova rete tesa,
Per farmi ogni hor star vedova nel letto,
Pensier nel ver da trarne honore, e frutto
Degno di quel gran Dio, che regge il tutto.
Infinite ragion creder mi fanno,
Ch'à l'huom maggior contento amore arrechi,
Poi che 'l poter sì spesso usa, e l'inganno
Per venire à quegli atti infami, e biechi,
Correte al vostro biasmo, al vostro danno
Per soverchia lascivia insani, e ciechi,
Che 'l fin d'amor per voi soave è tanto,
Che vi fa la vergogna por da canto.
Ma ben nacquer le donne per sentire
Tutti quanti i martir, tutte le doglie,
L'esser gravida, e 'l duol del partorire,
E 'l nutrir tocca à la scontenta moglie,
Questo è il nostro piacer, questo è 'l gioire,
Questo frutto d'amor per noi si coglie.
Ciò, che di male ha il matrimonio, è 'l nostro,
Ma il piacere, e 'l contento è tutto il vostro.
Maraviglia non è dunque, s'amore
Del foco suo così spesso v'accende,
E non curate punto de l' honore,
Tal gioia, e tal piacer da voi si prende.
Non ci pensate più, sfogate il core,
Gite à trovar l'amica, che v'attende,
E senza haver d'honor, ne d'altro cura,
Date luogo al diletto, e à la natura.
Non potè far' allhor, che non ridesse
Giove, bench'altro havesse in fantasia,
Udendo le querele strane, e spesse,
Che la moglie movea per gelosia.
Ne si potè tener che non dicesse
Che dava qualche inditio di follia
À dir, che l'huom più si compiaccia, e goda,
Quando con la consorte amor l'annoda.
E se par, c'habbia l'huom maggior piacere,
Ch'ei prega, ei serve, ei narra il suo martoro,
E con difficultà le donne havere
Può, se non spende i prieghi, il tempo, e l'oro:
Questo avien, che le leggi fur severe,
Che conoscendo l'ingordigia loro,
Fer come infame esser mostrata à dito
Donna, ch'altri godea, che 'l suo marito.
Che se non raffrenasse questo alquanto
Quel desio, che le donne hanno di nui,
L'huom pregato saria da tante, e tanto,
C'huopo non gli saria pregare altrui.
Questo è quel, che vi tien: che se far quanto
Stà bene à l'huom, lecito fosse à vui,
Sareste al proferir tanto per tempo,
Che l'huom non spenderia priego, oro, ò tempo,
E che questo sia il ver, pogniamo mente
À chi pon maggior cura in adornarsi,
Le donne sol per allettar la gente,
Altro non studian mai, che belle farsi.
Ben vede questo ogn'un palesemente,
Io non parlo di quel, che dee celarsi,
Che voi, se come à l'huom vi fosse honesto,
Fareste à la scoperta anchora il resto.
Ben raddoppia in Giunon l'orgoglio, e l'ira,
Quella ingiusta, et infame opinione,
E tanto più le preme, e se n'adira,
Quanto più vede, ch'egli al ver s'oppone,
Trova, che quel piacer gli homini tira
Fuora d'ogni honestà, d'ogni ragione,
Ne tien, che tanto à loro aggradi, e giove,
Da poi che tanto non le sforza, e move.
Replica, e dice, e pur cerca provare,
Che l'huom più dolce frutto, gusta, e coglie,
E gli la lascia à suo modo sfogare,
E in patientia ogni cosa si toglie.
Al fin sì il punge, ch'ei risponde, e pare
Più il marito ostinato, che la moglie,
E vuol, che ne le donne al suo dispetto
Sia senza paragon, maggior diletto.
Dopo molto garrir conchiuso fue,
Per por silentio al lor ridicol piato,
Che dicesse ciascun le ragion sue
Ad un, che maschio, e femina era stato.
Fu femina una volta, e maschio due,
Un' huom, ch'era Tiresia nominato,
E spesso hor donna, hor huom gustati havea
I frutti del figliuol di Citherea.
Più strano caso mai non fu sentito,
Più degno di memoria, e di stupore,
Ch'essendo questi un giorno à caso gito
In un bosco à fuggir le più calde hore,
Vide due serpi, la moglie, e 'l marito,
Che congiunti godean del lor amore.
Et con un cerro à lor battendo il tergo
Fe, ch'al lor fin cercar più occulto albergo.
À pena dà ne l'auree, e vaghe pelli,
Che gli vien l'esser suo di prima tolto,
Manca la barba, e cresce ne' capelli,
Si fa più molle, e delicato il volto,
S' ingrossa il petto, e fuggon tutti i velli,
Si ritira entro al corpo, e stà sepolto
Quel, che distingue da la donna l'huomo,
Tal che si trova donna, e non sa como.
Trovo, che la Natura ha molto à sdegno
Chi impedisce i diletti naturali,
E se n'adira forte, e talhor segno
Ne fa con varij, et infiniti mali.
Dispiacque à la Natura, che quel legno
Tolse gli abbracciamenti lor carnali
À gl'indolciti serpi, e dimostrollo
Allhor, ch' irata disse, e trasformollo.
Del sesso io voglio farti per tua doglia,
Che tanto ingordo quel diletto agogna,
Acciò che, quando n'haverai più voglia,
T' impedisca il baston de la vergogna.
Ma 'l vezzo rio seguì la nova spoglia,
E de l'honor schernendo ogni rampogna,
Poco passò, che per esperienza
Havria potuto dar quella sentenza.
Si sà ben proveder secretamente
Per satisfar la sua voglia impudica
Tiresia, ma non tanto, che la gente
Nol veda, non ne mormori, e nol dica.
Ahi come donna si scuopre sovente
De l'honor, di se stessa, poco amica,
Ch'à dishonesto amor ceda, e compiaccia,
Pensando, che si celi, e che si taccia.
Ben fortunata si può dir colei,
Che non dà orecchie à dishonesto invito,
E che può far, che la ragione in lei
Vinca il pensier lascivo, e l'appetito.
Ó ben felice cinque volte, e sei,
Chi si sa contentar del suo marito,
E non la lega altro impudico nodo,
Che son gli huomini al fin tutti ad un modo.
Vide, dopo sette anni, che fu donna,
La serpe sotto à l'amorosa soma,
E disse, s'à turbargli l'huom s'indonna,
Io vò provar, se la donna s' inhuoma,
Gli batte, e un saio allhor sì fe la gonna,
Crebbe la barba, e s'accortò la chioma,
Spianossi il petto, e quel, ch'era nascosto
Uscendo, il fe per huom conoscer tosto.
E s'è ver quel, che molti hanno affermato,
Quand'ei l'ultima volta gli batteo,
Volle il colpo ritrar, c'havea menato,
Ma calato era troppo, e non poteo:
Che trovò sempre in feminile stato,
Come più volte esperienza feo,
Venere assai più dolce, e più soave,
E però il tornar huom le parea grave.
Vò (disse) ad ogni modo castigarti
Ver lui (ch'era anchor donna) la Natura.
E intendo il tuo maggior piacer levarti,
Poi che non hai de la vergogna cura.
E quanto erra colui, vo anchor mostrarti,
Che d'impedir l'altrui gioia procura,
E così tolse il ben più dolce à lui,
Per la dolcezza, c'havea tolto altrui.
À questo eletto giudice s'espose,
La di ridicol merito tentione,
Il qual senza pensarvi su, rispose,
E la sententia diè contro Giunone.
Le man, sdegnata, addosso ella gli pose,
E fuor d'ogni dover, d'ogni ragione,
Come s'havesse à lei fatto uno scorno,
Gli occhi innocenti suoi privò del giorno.
Così perpetua notte il miser hebbe,
Per pagamento de la sua sentenza,
E'l Re del cielo, à cui molto n'increbbe,
Sofferse, che 'l facesse in sua presenza:
Però che giusto à un Dio già non sarebbe
A l'oprar d'altro Dio far violenza,
Pur, per ricompensar quel rio destino,
De le cose future il fe indovino.
Così diè Giove ricompensa in parte
Al miser huom, ch'havea perduto il lume,
E, per dirlo la Fama in ogni parte
Tosto spiegò le sue veloci piume,
Come in Beotia un cieco v'è, che l'arte
D'indovinar il ver, saper presume.
E in poco tempo da tutte le bande
Vi concorse à trovarlo un popol grande.
Quel vuol saper il fin d'una sua lite,
E quell'altro il successo d'una guerra,
Chi di fanciulli le future vite,
Chi s'uno absente è vivo, over sotterra.
Innamorate, e gelose infinite,
Corron da tutti i lati de la terra,
Ei (secondo, che lor la sorte viene)
Predice ad altri il male, ad altri il bene.