Penfr04

1553

LODOVICO DOLCE, Le Trasformazioni, in Venetia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari e fratelli, Canto settimo

Spero tal fin per le città d’intorno,

Come predetto havea Tiresia prima,

Nome acquistò di molta gloria adorno,

E presso di ciascun era in grand stima:

Sol di lui ride, e gli da infamia e scorno

Penthéo, che nessun Dio, ne Giove stima.

Come, diceva, l’avvenir prevedi;

Se quel, ch’è inanzi a gli occhi tuoi non vedi?

 

Et ei movendo le canute piume

Rispose. E tu felice anco saresti,

Se fosti, com’io son, privo di lume

Tanto, ch’i sacrificij non vedesti

Del santo Bacco, venerabil lume,

Che piu tosto verrà, che non vorresti;

E siano i giorni tuoi brevi et ameri,

Se non gli sacrerai Tempi et Altari.

 

Perche divise in mille parti e mille

Le membra tue, c’hor son belle e leggiadre,

Di sangue macchierai quest’ampie ville,

E con ambe le zie la propria madre:

Cosi le luci tue chiare e tranquille

Subito diverrai turbate et adre:

Però, c’havrai così superbo il core,

Che non vorrai degnar Bacco d’honore.

 

Non lasciò, che seguisse altre parole

Il profeta divin Péntheo superbo;

Ma lo disprezza, come sempre suole,

Nel guardo e nel parlar fiero et acerbo:

Dice, ch’un giorno a Corvi dar lo vuole

Senza risparmio alcun, senza riserbo,

O guardar ad età canuta e bianca.

Ove abbonda l’audacia, e’l senno manca.

 

Quel, che predetto fu, subito accade:

Ecco fra pochi di Bacco presnte;

E d’ululi e di suon per la cittade

Dtrano concento rimbombar si sente.

Huomini e Donne di qualunque etade

L’adoravan divoti et umilmente:

E par, ch’a tutti piaccia, a tutti giovi

Di ritrovarsi i sacrificij novi.

 

Péntheo volgendo intorno gli occhi ingiusti

Ah gridava pien d’ira e di disdegno;

Ah cittadini miei, forti, e robusti,

Qual furor tiene in voi dominio e regno?

Tu pur dal Serpe generato fusti

Popol mio, di virtù fido sostegno.

Dunque roco e vil suono ha tanta forza,

Che l’usato valor tutto v’ammorza?

 

Dunque voi genti al fiero Marte amiche,

Essendo tali, e di sì ardite mani,

Che non vi spaventar spade nemiche;

Ne mille Trombe, e mille assalti strani;

Hor da voci di femine impudiche,

Da sciocchi pazzi, e da tumulti vani

Da Ciembali, da Corni; e Greggi tinti

Di vin, sarete debellati e vinti?

 

Certo di voi mi maraviglio molto

Canuti vecchi, che per lungo mare

Da Tiro asilio volontario tolto,

Qui veniste co’ figli ad abitare;

C’habbiate il cor da si gran tema involto

Che vi lasciate prendere e legare

A gente inerme, effeminata, e vile,

Essendo sangue in voi caldo e virile.

 

Ma voi, che poco differenti sete

D’etade a questa mia, gioveni forti:

Le viti, onde le tempie cinte avete,

E quei lunghi baston d’Hellera intorti

Lasciando, l’usat’arme homai prendete,

E siate tutti al gran bisogno acorti;

E sopra tutto vi ritorni a mente,

Che l’origine vostra è d’un Serpente.

 

Quello era solo, e molti uomini estinse,

Hora imitate voi l’animo altero.

Il buon Serpe se stesso a morte spinse

Per difendere il suo sdegnoso e fiero.

Voi vincete l’error, che vi sospinse,

Solo per fuggir biasimo e vitupero,

E ricovrar il mal perduto honore,

Tutti pieni d’audacia e di valore.

 

Il serpe uccise quei, ch’eran gagliardi:

Voi con timidi e vili avete impresa,

Iquai, si come son debili e tardi,

Non faran contra noi lunga contesa.

Tigri, e insieme Pantere, e Leopardi

Son di que’ pazzi la maggior difesa:

Han tutti freddi, anzi gelati i cori;

Ne alcuno adopra arma, che tagli, o fori.

 

E, quando sì crudel fosse la sorte,

Che destinase pur di Thebe il fine:

Se d’intorno le mura assedio forte,

D’armati minacciasse alte ruine,

Non sarebbe il cadere acerbo e forte,

Che a troppa forza virtù cede al fine;

E, doler ci potremmo di Fortuna,

Ne avremo d’esser vinti infamia alcuna.

 

Ma hor che sia? Contra il costume usato,

Poi, che ciascun l’antica forza oblia,

Lascierem, ch’un fanciullo disarmato,

Vincitore e Signor di Thebe sia?

Che di liquidi odori ha’l crin bagnato,

Lascivo, e di lascivi in compagnia?

E in vece di corazza ha molle vesta

Di purpureo colore e d’oro intesta?

 

Ne sa quel, che sia ferro, l l’uso buono

Di correr lancie, e d’aggirar cavalli?

Io, se colui sarò, che sempre sono,

Ben gli farò lasciar le feste e i balli;

E’l padre cofessar senza perdono,

E perche il popol nostro inganni e falli:

Pur, che la vostra destra non mi manchi,

E siate a tal bisogno arditi e franchi.

 

Già potè a la costui mentita insegna

Serrare Acrisio ogni sua porta avanti;

E tutte le città, doc’egli regna,

Ne temè di turbar quegliocchi santi:

Et io permetterò, ch’in Thebe vegna:

Anzi d’esser venuto hoggi si vanti?

Ah, che questo in noi biasimo, e in Bacco orgoglio,

Non si convien, ne comportar il voglio.

 

Cio detto, così l’ira oltre si stende,

Ch’impone a suoi, che preso ei fe gli meni,

Ben Cadmo et Athamante lo riprende,

Et altri ancor: ma non, ch’egli s’affreni,

Anzi piu nel pensier tutto s’accende,

Et ha gli occhi di foco ardenti e pieni;

E di sì fiera rabbia acceso il petto,

Ch’alcun guardar non l’osa ne l’aspetto.

 

Così vidi talgor lento e soave,

Quando intoppo on ha, corrersi fiume;

Ma opponendosi pietra, arbore, o trave,

Impetuoso gir carco di spume:

SI come l’ira in Péntheo acerba e grave

Trapassò il modo, e’l solito costume;

Che, dove essi pensar di mitigarla,

Vennero in questo modo ad aumentarla.

 

I ministri, che Péntheo havea mandato,

Tornano a lui con sanguinosa mano;

Afferman non haver Bacco trovato;

Ma conducono un giovine Toscano,

C’hebbero in cambio suo preso e legato,

Come seguace temerario e insano

Del suo nimico Bacco. Onde con vista

Lo guarda Péntheo disdegnosa e trista.

 

Lo riguarda pien d’ira e di dispetto,

E a pena indugia di punirlo allora.

Pur tanto differisce il crudo effetto,

Ch’intenda il di lui nome, e patria ancora:

E la cagion, che contra ogni rispetto,

E d’ogni onesto e d’ogni dritto fuora,

Con gli altri pazzi a seguitarne il move

Le disoneste cerimonie nove.

 

 

 

 

 

 

 

 

Appresso al prigionier morte minaccia

Con fiero sguardo, e parlar aspro e rio.

Esso con lieta e con sicura faccia

Disse. Sappi, che Acete è il nome mio.

M’accio, che pienamente io sodisfaccia

Senza dirti menzogna, al tuo desio;

nacqui in Thoscana tra le basse genti

D’humili e poverissimi parenti.

 

Il padre mio, che sempre opera diede

Da picciolo fanciullo a reti et hami

Sì, che d Arno giamai non torse piede

Sciolto da tutti quanti altri legami;

non mi lasciò di grassi campi herede,

o d’altro, che piu il volgo apprezzi et ami;

ma de l’onde, ch’io dico, e in larga parte

(Quel,ch’imparai) de la sua pover’arte.

 

Ma non piacendo a me di seguitare

Cosa, di che l’affanno era infinito;

Diemmi con ogni studio al navigare,

Cercando hor questo, et hor quell’altro lito;

E fecemi maestro senza pare,

Tal, ch’a pena non fu l’anno compito,

C’hebbe il legno in governo, e lo guidai

Per varii seni, e sempre il conservai.

 

Avvenne, che tenendo il mio viaggio

A Delo, porto a l’Isoletta presi

Di Chio nel tramontar del solar raggio,

Ove sicur la nuova Aurora attesi:

E sì come Nocchier prudente e saggio,

Feci, ch’alcuni fur nel lito scesi

Per attinger de l’acqua fresca e viva

A punto alhor, che’l Sol di Gange usciva.

 

In tanto er’io salito a passo lento

Un’erto sasso, per veder d’intorno,

Se’l cielo promettea propitio vento

Da poter navigar tutto quel giorno:

Poi tornando a la Nave, in quel momento

Trovai, ch’i miei v’havean fatto ritorno

Recando l’acqua, e seco un giovinetto,

ch’era di feminil virgineo aspetto.

 

Questo garzone havea l’aspetto tale,

Che pareva al mirar cosa divina:

Era’l vestir, era l’andar eguale.

E ver, ch’egli tenea la testa china,

Chiudea spesso le ciglia; e parea, quale

Fanciul, ch’assonna; e tardo e mal camina.

Io, che ben m’avisai, ch’ei fosse Dio,

L’adoro, e’l cheggio ne l’aiuto mio.

 

E lo prego, ch’ancora i falli suoi

A miei compagni, sua mercè, perdoni.

Lascia il pregar (disse Dittéo) per noi,

Ch’a salir su l’antenna er’un de’ buoni,

E per la fune a sdrucciolarvi poi

Si presto, come van folgori e tuoni

Ad ingombrar di noi l’orecchie e gliocchi

Prima, che Giove la saetta scocchi.

 

Seguiro i detti suoi Libio, e Melanto,

Che de la prora ogni governo cura;

E così Alcimedon, che gliera a canto,

Et Epopeo, che del vogare ha cura.

Ogn’un si dà di quella preda vanto;

E condurla con lui studia e procura.

Non patirò (diss’io) che’l legno offeso

Sia da questo divin celeste peso.

 

E mi pongo a l’entrata de la Nave:

Quand’un, che di sua patria era sbandito

Per opre inique, scelerate, e prave,

Ch’era homicida, e havea piu d’un tradito,

Diemmi un pugno nel volto: e fu si grave,

Che cadendo, nel mare io sarei gito,

S’a caso non venive a dar di mano

A un fune: e fece il suo disegno vano.

 

Quell’atto rio, ch’esser dovea biasmato

Con debita ragion da quella gente,

In contrario da tutti fu lodato;

Ch’ogn’un contra di me volse la mente.

Ma Bacco, come alhor fosse svegliato

(Che Babbo io lo conobbi finalmente)

Dimanda la cagion di quel romore,

Ove si meni; e par, c’habbia timore.

 

Ah (disse Proreo, un’huom tristo et eguala

A lo sbandito) lascia ogni spavento,

Ch’el cor fanciullo indegnamente assale,

E ripiglia la forza e l’ardimento,

Ch’a tutti i luoghi, ove d’andar ti cale,

Ti condurrem, se non ci manca il vento:

Comanda pur, ch’ad ogni tua richiesta,

Havrai l’opra di noi veloce e presta.

 

Rispose Bacco, s’egli avvien che sia

Conforme il core a quel ch’appar di fuora,

Conducetemi a Nasso patria mia,

Laqual volendo sarà vostra ancora.

Giura ciascun, che’l suo voler faria;

E comanda, ch’io sciolga alhora alhora

Dal lito il legno; e dia le vele a i venti,

Diverso havendo il cor da i giuramenti.

 

Da man destra era Nasso, a cui volendo

Volger la vela, cessa, Ofelte grida,

Perche tanta sciocchezza in te comprendo?

Ove la pazza tua mente ci guida?

Parea, ch’ogniun di se gisse temendo.

Ma pur tanta perfidia in lor s’annidqa,

Che la parte maggior con mano accenna,

Ch’a la sinistra una torca l’antenna.

 

Altro la voglia sua rubalda e trista

Mi dice entro l’orecchio: ond’hebbi sdegno

Tal, che la pena lor chiara prevista,

Lasciai del tutto abandonato il legno.

Forse, che non è alcun che ti resista,

Disse uno, o solo è in te nostro sostegno:

E pieno d’ira e di veleno interno

Subito in vece mia prese il governo.

 

E d’ir altrove ogni sua cura messe:

Lasciando Nasso, e me colmo d’affanno.

Come alhor Bacco conosciuto havesse

L’iniqua fraude, eìl discoperto inganno,

In atto, che parea, ch’esso piangesse,

Ahi, dice, al vento i giuramenti vanno:

Che’l vero manifesto hor mi dimostra

Contrario effetto a la promessa vostra.

 

Altri liti io vi chiesi, altro terreno,

Altri liti e terren mi prometteste,

Perche venite a la promessa meno,

E rompete la fe, che gia mi deste?

In che v’ho offeso? perche havete pieno

Il cor di crudeltà? voi non dovreste,

Se ben nulla vi cal de’ dolor miei,

Sprezzar l’alto poter de i sommi Dei.

 

Ne pensate, che men laude v’apporti

Lo haver, essendo voi si grosso stuolo

D’huomini saggi e marinai accorti,

Ingannato un fanciul semplice e solo.

Deh per Dio non mi fate questi torti:

E, se pur me gli fate; io mi consolo,

E spero ancor ne la pietà di sopra,

Che’l premio vi darà conforme a l’opra.

 

I lamenti m’havean gia sì conquiso,

che n’uscì fuora da quest’occhi il pianto.

Quei mi schernivan con parole e riso;

Rinforzando la voga e i remi intanto.

Vero io dirò, che di menzogna ha viso.

Ma testimon mi sia Bacco di quanto

Io son per dirvi; ch’io non m’allontano

Da quel, ch’io vidi, e ch’io toccai con mano.

 

Era in mezo del mare a vele piene;

E vogando ciascun, fermossi il legno,

Quale in spiaggia, o ne le secche arene

Tenuto da fortissimo ritegno.

Ciasacun la voga pur sempre mantiene;

E con quanta era in lui forza et ingegno

E con vele e con remi, cerca e prova

Di gire avanti, ne rimedio trova.

 

A questo io vidi i remi esser avolti

Da remi e foglie d’Hedera seguace,

ED stretti sì, che non gli havria disciolti,

Quanto di forza in mille huomini giace;

E molti d’essi fur serpendo involti

Con torto piede, e man salda e tenace

Ne l’ampie vele, ancor gonfie et aperte,

Fin, che di quà di là l’hebber coperte.

 

Alhor si vide il garzon soprahumano

Haver d’Uve e di Viti il capo adorno.

Teneva un’hasta ne la destra mano

Di pampani coperta e cinta intorno:

E poscia con feroce aspetto strano

(Ch’io non ne vidi mai, senon quel giorno)

Lo circondar Tigri spietate e fere,

E di vari color Lonze e Panthere.

 

Subito par saltar del legno fuore

Si mosse l’empia turba e mal condotta;

O, che cagion di cio fosse il furore,

O che ve l’inducea forse la dotta.

Un di quelli vid’io cangiar colore,

E piegarsi, com’arco. O (disse alhotta

Licabo) come avien, che ti trasforme

Prendendo nove e non più viste forme?

 

Mentre, che cosi parla, ecco a se stesso

Slungar la bocca, et ecco divenire

Schiacciato il naso: ecco novella appresso

E dura squama il busto ricoprire.

Libo s’affanna, e’l ciel bestemmia spesso,

ch’qad ogni modo inanzi volea gire.

Ma branche diventar le mani in breve,

E tutto il corpo suo spedito e leve.

 

Un altro, che colea pure apprapparsi

Ad una fune, e corre in su la proda;

Senza braccia nel mare hebbe a trovarsi

V’ezzolso pesce, e con falcata coda.

In fine ad uno ad un tutti mutarsi

(Io non credo, ch’ugual miracol s’oda)

In Delfini, et cerchio su per l’onde

Guizzano: altro si mostra; altro s’asconde.

 

Biancheggia intorno lor l’acqua spumosa,

Che versan poi per le narigie fuori.

Cosi di quà di là vaga e festosa

La nova turba fa diversi cori.

Io con pallida fronte e paurosa,

Quasi vedendo in altri i miei dolori,

Di lor, che venti fur, solo restava:

Onde da capo a piè tutto tremava.

 

Ma Bacco alhor con parlar grave e basso

Racconfortommi’l cor, lieto dicendo,

Ch’io drizzassi la prora in ver di Nasso.

Ond’io la dritta via subito prendo.

Com’io vi giungo, ogn’altra cosa lasso,

E a sacrifici suoi del tutto attendo:

Ne questi mai d’abandonar mi piacque,

E cosi detto, il buon Thoscan si tacque.

 

Piacemi (disse Péntheo) havere atteso

A la tua lunga favola; ch’intanto

Doppia forza e maggiore ha l’ira preso,

Che forse non saria cresciuta tanto.

Onde ti sia del tuo peccato reso

Il castigo maggior, piu largo il pianto.

Quinci comanda a suoi, che fieramente

Sta tormentato, et arso il dì seguente.

 

Cosi fu posto in parte oscura e forte,

Per far di lui spettacolo e le genti.

Ma mentre s’apparecchia a la sua morte

Il ferro, il foco, e gli altri rei strumenti,

Da se stesso s’aprir le chiuse porte.

O, quanto son le man di Dio possenti;

Che spezzate e ritorte, e ceppi, e mani,

Furo i disegni lor fallaci e vani.

 

Non per questo il crudel punto abandona

L’iniqua impresa; ne vi manda alcuno:

Va nel Monte Cithereo egli in persona

Là, dove a i sacri offici era ciascuno.

Quivi pien di furor fulmina e tuona

Con occhio torto, e guardo oscuro e bruno:

Cotale a l’arme, quando il suono intende,

Animoso Caval tutto s’accende.

 

Come il suon, che d’intorno il ciel percuote

De la turba, che vede, ovunque mira,

I gridi, i canti, e le diverse note

Infiammarono in lui da capo l’ira.

Laquale a dir, quanto mai seppe, o pote,

Detti pieni d’horror la lingua tira:

E sì la porta l’impeto, che vuole,

Che confonde gli accenti e le parole.

 

Giace nel Monte un spatioso piano

Netto così, che non v’è ramo o pianta;

Ove la gente e’l buon popol Thebano

In lode del gran Dio festegia e canta.

Quivi nel rimirar l’occhio profano,

Che tutto ardea, la cerimonia santa,

Fu da la madre Agáve, che la cima

Di quel monte tenea, veduto prima.

 

E mossa dal furor, come havesse ale,

Col Tirso in man a lui si lancia sopra;

E disse a le sorelle. Se vi cale

Di nostro honor, se far lodevol opra;

Uccidiam questo fier brutto Cinghiale:

Ne solamente Agáve hora s’adopra;

In esortar le sue Sirocchie altere,

Ma prima ella il figliuol percote e fere.

 

Ella fu prima a insanguinar le mani

Nel figlio, ch’un Cinghial lo giudicava.

Ei con dolci parole et atti humani

Confessando il suo error, pietà gridava.

Ma, come l’huom, ch’a paesi lontani

Ne va, se il troppo caminar li grava,

Posa a l’albergo; cosi, come soglio,

Posar la mano affaticata i voglio.