Narfr07

sec. XVI d.C.

GIOVANNI ANDREA DELL’ANGUILLARA, Delle metamorfosi d’Ovidio al Christianissimo Re di Francia Henrico Secondo di Giovanni Andrea dell’Anguillara. In Venetia per Giò Griffio, ad istantia di M. Francesco Senese, 1563, libro III, 40-43.

D’una ninfa arse già lo Dio Cefiso,

Detta Liriope, che di Teti nacque,

E potè tanto il suo leggiadro viso,

Ch’ei la sforzo ne le sue limpid’acque

N’ hebbe ella un figlio nomato Narciso,

E dato che fuor l’ hebbe, andar le piacque

A quel, che l’occhio esteriore ha scuro,

Ma con l’interior vede il futuro.

Dove, poiche fu giunta, dimandollo,

Che per virtù de la sua profetia

Al figlio predicesse, c’havea in collo,

La sorte de la sua stella natia.

No’l potendo veder, con man toccollo,

Poi con questo parlar la mandò via,

Ch’un viver a lungo a lui saria concesso,

Pur che non conoscesse mai se stesso.

Parve per lungo tempo van quel detto,

Ne la madre ne fu mesta, ne lieta,

Se non dapoi, che ne seguì l’effetto,

Che fe vera la voce del profeta.

Ahi strano amore, ahi troppo caldo affetto,

Da far i sassi intenerir di pietà,

Che togliesti à quel misero la vita,

Ne l’età sua più verde, e più fiorita.

Dal dì, che l’empio suo destino, e fato,

Diè per natale al misero garzone,

Sopra tre lustri era tre volte andato

Apollo da la Vergine al Leone,

Quand’egli un volto havea si bello, e grato,

Ch’innamorava tutte le persone,

Di qual si voglia grado, e qualitade,

D’ogni affar, d’ogni sesso, e d’ogni etade.

Le fattezze del viso erano si belle,

Ch’ogni volto piu bel fean parer nullo:

Erano in modo adulte, e tenerelle,

Ch’io non so s’era giovane, o fanciullo,

E maritate, e vedove, e donzelle,

Ardean de l’amoroso suo trastullo,

Non v’era cor si mondo, ne si casto,

Che non havesse allhor macchiato, e guasto.

Ma fu cotanto altier, che non tenea

De le piu scelte vergini pur cura.

Se l’amor virginal non gli premea,

Dove più l’huomo invita la natura,

Ben può pensarsi quel, che far dovea

Di qualche donna vedova, e matura.

Si riputò si bel, e degno,

C’havea ciascun, fuor che se stesso à sdegno.

Vide un dì quelle luci alme, e gioconde,

Vide le bianche, e le vermiglie gote

Una Ninfa, ch’al dir d’altrui risponde,

Ma cominciare à dire ella non puote,

Replica il tutto, ma il parlar confonde,

E lascia solo udir l’ultime note:

Che mentre l’uno, e l’altro à dire attende,

Il parlar, che precede, non s’intende.

Costei, ch’Ecco chiamossi, e chiama anchora,

Che parla sol da l’altrui dir commossa,

Voce sola non fu nuda com’hora,

Ma forma, e quantità di carne, e d’ossa,

Ben che com’hor quell’infelice allhora,

D’esser prima la parlar non havea possa.

L’ira il principio al dir tolto havea

De la sempre gelosa, e mesta Dea.

Un parlare hebbe già tanto soave

Questa, a cui manca hor la loquela intera,

Che mai non hebbe il mondo, e manco oggi have,

Donna di tanto affabile maniera.

Ogni aspra cura faticosa, e grave,

Fatta havria dolce, facile, e leggiera.

E l’usò sempre mai con buona mente

Schivando risse, e scandali sovente.

Questa mirabil Ninfa ornata, e bella,

Fra Ninfe, fra Silvani, e fra Pastori,

Con l’eloquente sua voce favella

Acchetava ogni di mille romori

La gelosa Giunone al fin fu quella,

Che tolse al suo parlar tutti gli honori,

Perché le sue parole ornate, e colte,

L’ havean nociuto mille, e mille volte.

Havuto havea Giunon spesso sospetto,

Che’l marito non fosse accompagnato,

E mentre già per ritrovarlo in letto

Com’egli suol, con qualche Ninfa à lato:

Costei per obviar per buon rispetto,

Che qual che error poi non ne fosse nato,

Intertenea la Dea col suo bel dire

Tanto, c’havesser tempo di fuggire.

Giunon de le parole al fine accorta,

Che tante volte intertenuta l’hanno,

Disse, La lingua tua sì dolce, e scorta,

Più non m’ingannerà, s’io non m’inganno,

Io farò si la sua favella morta,

Che per l’innanzi io non havrò più danno,

Io farò, che potrà parlar si poco.

Che non potrà mai più farmi tal gioco.

E ben die tosto effetto a i desir sui

Havendo in lei per sempre stabilito,

Che mormorasse al ragionar d’ altrui.

E’l fin sol del parlar fosse sentito.

Hor vede à pena il viso di colui

Si bel, che’l brama haver per suo marito,

E’l vorria ben con le sue dolci note

Persuader, ma cominciar non puote.

Ella, ch’al dir d’altrui solo risponde,

Sta muta, e non ardisce di mostrarsi,

Anzi teme, e nel bosco si nasconde,

E per un pian vedendol diportarsi,

Fura il bel viso suo fra fronde, e fronde

Con gli occhi, e cerca ogn’hor più d’accostarsi,

Il mira, e gli occhi in lui sì fiso intende,

Che col suo foco Amore il cor le accende,

Come à una face ben secca, che sena

Il foco ardere a lei poco discosto,

S’alcun quel legno a le fiamme appresenta

A’ ricever il foco atto, e disposto,

Pria che giunga talhor, ratto s’aventa

Una fiamma, e l’accende, e l’arde tosto,

Tal’ella al foco suo volle accostarse,

E innanzi al giunger suo s’accese, et arse.

 

Mentre l’accesa Ninfa il segue, e’ l vede,

E questa, e quei tien muta la favella,

Urtando à caso in certe frasche il piede

Fece alquanto romor la Ninfa bella

Come il romore a lui l’orecchia fiede

S’adombra, e mira in questa parte, e in quella.

E quei forse qualch’un, disse ei primiero,

Qualch’un, dapoi diss’ella, e disse il vero.

 

Die quel parlare à lui gran meraviglia,

Che scorger non potè d’onde s’uscio,

E gira intorno pur l’avide ciglia,

Indi in questo parlar le labra aprio,

Non ti vegg’io, ella il parlar ripiglia,

E chiaro udir gli fece, ti veggi’io,

Narciso in quella parte gli occhi porge,

Ma teme ella, e s’asconde, e non la scorge.

Stupisce quei de le parole ascose,

E guarda intorno cinque volte, e sei,

Vien qua, poi disse, ella vien quà rispose,

E chiamò quel, ch’havea chiamata lei.

Di novo intorno à riguardar si pose,

E disse, io t’odo, e non so chi tu sei,

So chi tu sei (diss’ella) e ben sapea,

Che sol di lui, e di null’altro ardea.

Diss’ei bramoso di sapere il resto,

Poi, che tu sai chi son, godianci insieme.

O’ come volentier rispose a questo,

Che sopra ogni altro affar questo le preme,

Dice, godianci insieme, et esce presto

Del bosco, e si discopre, e più non teme

Che quel parlar dà manifesto aviso,

Ch’ivi potrà goder del suo Narciso.

Mentre al collo sperato ella distende,

Per volerlo abbracciar, l’avare braccia,

Da quegli abbracciamenti ei si difende,

Quando fugge da lei, quando la scaccia,

Non t’amo (ei dice) ella il parlar riprende,

E dice t’amo, e poi forz’è, che taccia,

Ne amar ti voglio (ei segue) e la rifiuta,

Dice ella, amar ti voglio, e poi sta muta.

Narciso al fin si fugge, e non la vuole,

E da giovane, e sciocco si governa,

Ahi come ella fra se si lagna, e dole,

Vedensosi si bella, e ch’ei la scherna,

E s’havesse l’antiche sue parole,

E potesse dar fuori la doglia interna

Pianger fariano i suoi muti lamenti

La terra, il cielo, e tutti gli elementi.

Quando sia la sua vita aspra, e noiosa,

Mostra lo stratio de le chiome bionde,

Si batte, e graffia, e comparir non osa

Fra l’altre, e ne le selve si nasconde,

Si vive in qualche grotta cavernosa,

Dove tal volta à l’altrui dir risponde,

E cresce ogn’ hor più l’amoroso foco,

Che l’arde, e la consuma à poco à poco.

Quel foco, ch’entro la distrugge, e coce,

L’humore, e’ sangue in grosso aer risolve.

E tanto consumando al corpo noce,

Che la carne si fa cenere, e polve.

Al fin sol le restar l’ossa, e la voce,

Ma tosto l’ossa in duri sassi volve.

Stasi hor ne gli antri, d’ossa, e carne privo

Quel suon, che solo in lei rimaso è vivo.

Oltr’à costei disprezza, hor quelle, hor queste

Narciso, e l’Amadriadi, e le Napee,

Ne mover lo potria forma celeste,

Minerva, o Citherea, con le altre Dee.

Fra tante, e tante disprezzate teste

Chiese ragione a le bilance Astree

Una, c’havendo al ciel le luci fisse,

Con le braccia elevate cosi disse.

Astrea, ch’in man la retta libra porti

De la giustizia del celeste regno,

Facci ragion di mille, e mille torti

Contra costui, c’ ha tutto il mondo a sdegno.

Fa, che talmente Amor seco si porti,

Che nel mondo n’appaia illustre segno.

Fa, c’habbia quel contento a i desir sui,

C’ha dato ei sempre, et è per dare altrui.

Replicò forte cinque volte, e sei

La Ninfa i giusti suoi prieghi, e lamenti.

O come bene essaudir gli Dei

Pria, che i suoi raggi Apollo avesse spenti,

La giusta oration, chefe colei,

Il suo cordoglio, i suoi sospiri ardenti,

Ch’uno amor prese lui piu folle, e strano,

Che mai nascesse in intelletto umano.

Dentro un’ombrosa selva, à piè d’un monte,

Dove verdeggia à lo scoperto un prato,

Sorge una chiara, e cristallina fonte,

Che confina à la linea di quel lato,

Che quando equidistante à l’Orizzonte

De l’Orto, e de l’Occaso è il Sole alzato,

L’ ombrosa spalla del monte difende,

Che’l più cocente sol mai non l’offende.

 

Quel chiaro fonte è si purgato, e mondo,

E l’acqua in modo è lucida, e traspare,

Che ciò, ch’egli ha nel suo piu cupo fondo,

Scoperto à gli occhi altrui di sopra appare,

Hor mentre il Sol dà il maggior caldo al mondo

Nel punto, ch’è principio a declinare,

Amor menò costui per castigallo

A’ questo puro, e liquido cristallo.

Arso dal Sole, e da la caccia stanco

Brama il riposo, e più trarsi la sete,

Allenta l’arco, e toglie i dardi al fianco,

Per darsi, dopo il bere, à la quiete:

Ma più trist’acqua egli non bevve un quanco

Di questa, e fu per lui l’onda di Lete,

Di questa, che fin pose à gli anni sui,

E fu quel giorno il mal fonte per lui.

Mentre à gustare il suo dolce liquore

L’avide, e secche labra il fonte tira,

Una sete maggior gli cresce al core

Di se, che l’ombra sua ne l’onda mira.

Come guardar ne l’onda il vede Amore,

La saetta dorata incocca, e tira,

El cor d’un van desio tosto gl’ingombra,

E fa, che s’innamora di quell’ombra.

La vaga, e bell’ imagine, ch’ei vede,

Che’l corpo suo ne la lontana face,

Che sia forma palpabile si crede,

E non ombra insensibile, e fallace.

In tutto à quello error si dona, e cede,

E di mirarla ben l’occhio compiace.

E l’occhio di quell’occhio acceso, e vago

Gioisce di se stesso in quella imago.

Come statua di marmo immobil guata

Il bel volto ne l’onda ripercosso,

E loda ne la guancia delicata

Il ben misto color candido, e rosso.

Gli par, ch’al Sol la chioma habbia levata,

Et a Venere il viso, a Marte il dosso.

E loda, e essalta, et ammira in colui

Tutto quel bel, che fa mirabil lui.

Loda di se medesimo il degno aspetto,

Mentre quel di colui lodare intende.

E se’l desio di lui ne l’ombra accende.

E di ciò vede un evidente effetto,

Che gli atti, che le fa, tutti gli rende.

Se l’volto à lei pietoso inchina, e porge,

La medesima pietà ne l’ombra scorge.

Mosso da una speranza vana, e sciocca,

Che gli dà quell’ immagine divina,

Accosta in atto di baciar la bocca,

E quei tende le labra, e s’avicina.

Ecco, che quasi già l’un l’altro tocca,

Ch’un alza il viso in su, l’altro l’inchina.

Vien questo al caldo, e dolce bacio, e tolle

Di semplice acqua un sorso freddo, e molle.

L’acqua mossa da lui turbata ondeggia,

E fa mover l’imagine, e la scaccia.

Egli pensando, che fuggir si deggia,

Stende per ritenerla ambe le braccia.

Quel moto fa, che l’ombra piu vaneggia,

E move in modo il viso, che minaccia

Ei nulla stringe, e torna amirar fiso

e tenne le minacce del suo viso.

 

 

Non sa quel, che si vede, o che si voglia,

Non trova quel, che cerca, e pure il vede.

E questo è, che ‘l consuma, che l’addoglia,

Che ‘l perde allhor, che d’acquistarlo crede,

Accresce il cupido occhio ogn’hor la voglia,

E dona sempre à quell’error più fede.

L’ombra è già ferma, e non minaccia, o fugge,

Ei mira, e piu, che mai si sface, e strugge.

O’ misero, e infelice, che rimiri

Piu ‘l simulacro tuo vano, e fugace?

Non vedi, che colui, per cui sospiri,

L’ombra è, che’l corpo tuo né l’onda face?

Non vedi menticato, che t’aggiri

E che folle desio ti strugge, e sface?

Ben puoi veder se sei insensato, e cieco,

Che vai cercando quel, c’hai sempre teco.

Tu ‘l porti sempre teco, e mai nol lassi,

E starà sempre qui, fin che ci stai,

E se quindi ritrar potessi i passi,

Ti seguiria senza lasciarti mai.

Io veggo gli occhi tuoi bagnati, e lassi,

Ma non satii però de i finti rai.

Tu lagrimi per lui, quei per te piange,

E d’ambi il pianto in un s’incontra, e frange.

Hor l’infelice innamorato, e stolto

Vedendo pianger lui si caldamente,

Ne gli amorosi lacci il crede involto,

E c’habbia anch’ei per lui calda la mente

Di novo apre le braccia, e china il volto,

Quel con atti scambievoli consente,

Questo da ver si china, ei s’alza, e finge

Questo di novo abbraccia, e nulla stringe.

Non la cura del cibo, ne del sonno

Distorre il puo dal radicato errore.

Quel pensier nel suo cor gia fatto donno

Tutto il da in preda a quel fallace amore.

E gli occhi innamorati più non ponno

Levarsi da gioir del lor splendore,

E di se stessi son vaghi di sorte,

Che condurrai quell’infelice a morte.

Si leva al fine, e manda gli occhi in giro,

E mostra il fonte, che ‘l consuma, e coce

A i boschi intorno; e con piu d’un sospiro

In questa forma articola la voce.

Voi selve, che l’ardente mio desiro

Vedete in parte, è l mal, che si mi noce,

Ascoltate per Dio quel, che dir voglio,

Et vairete tutto il mio cordoglio.

Selve, che’l vostro honor, ch’al cielo è asceso,

E ‘l piede, che di voi tende a l’inferno,

Havete tanti secoli difeso

Dal gran rigor de l’indiscreto verno,

E piu d’un cor d’amor ferito, e preso,

( Che sfogò qui tal volta il duolo interno)

Veduto havete, ditemi per Dio,

Se mai vedeste amor simile al mio?

Strana legge d’ Amor, mi piace, e ’l vedo,

Ne trovo quel, che vedo, e che mi piace:

E allhor, ch’io l’ prendo, e stringerlo mi credo,

Più libero il ritrovo, e piu fugace.

Io conosco il mio errore, e me n’avedo,

E so, ch’io credo a quel, che m’è mendace,

e si accecato Amor m’have, e percosso,

Ch’io cerco quel, che ritrovar non posso.

E perche maggior doglia io vi racconte,

Chi mi toglie la via? chi nol comporta?

E’ forse largo mare? o alpestre monte?

Grossa parete? o ben fermata porta?

Oime, che m’impedisce un picciol fonte,

Fa un picciol rio la mia speranza morta.

Ei vuuol, ch’io l’ami, a voti miei risponde,

Ma il negan le gelose, et invide onde.

Che s’io per dargli un bacio a lui m’inchino,

Per dar quel refrigerio a la mia doglia,

Ei col suo dolce viso, e resupino

Ver me dimostra la medesima voglia.

Qual tu ti sia mortal viso, o divino

Vien fuor, deh fa ch’i nel mio sen t’accoglia,

Lascia il nemico fonte a noi non grato,

E trastulliamoci insieme in questo prato.

Ahi come male il mio pregar si prezza,

Perche non esci homai? che fai?che tardi?

Oime che l’età mia, la mia bellezza

Non si doveria fuggir, se ben ci guardi.

Ahi, che l’aspettto mio, la mia vaghezza,

Le mie vermiglie guance, e i dolci sguardi

Son tali, ch’ogni altro occhio se n’accende,

E solo il tuo mi schiva, e vilipende.

In te non so pur che di speme io scorgo,

Che mostri un viso amabile, e discreto,

Le braccia porgi a me, s’a te le porgo,

Se lieto a te mi mostro, a me tu lieto

S’io piango, che tu lagrimi, m’accorgo,

E mostri ragionar, s’io non sto cheto,

Ma il dolce suon de le tue mute note

Le nostre orecchie penetrar non puote.

Ahi, che pur’ hora ti conosco, e intendo,

Tu sei l’imagin mia, se ben riguardo,

E ‘ l mio slendor, ceh di qua su ti rendo,

Dà si bel lume al tuo soave sguardo.

Io sono, io son colui, che ‘l foco accendo,

E del medesimo foco io son quel, ch’ardo.

Quel lume l’occhio tuo da me si fugge,

Ch’in me riflette, mi consuma, e strugge.

Conosco, ch’esso è me, e ch’io son esso,

Tanto, ch’io son l’amante, io son l’amato.

Che debbo far? debb’io pregar me stesso?

O’ pur debbo aspettar d’esser pregato?

Chiederò forse quel, c’ho sempre appresso?

Quel, che nel corpo mio stasi informato?

Oime, che la ricchezza a me fa inopia,

E pover son per troppo haverne copia.

 

 

 

 

Potessi almen da questo corpo mio

Prendendo un’ altro corpo separarmi,

Lasciando in lui però la forma, ch’io

Amo tanto in colui, che veder parmi:

Che se fosse in due corpi un sol desio,

Si potria trovar via da contentarmi,

Ma gia non posso (essendo un sol soggetto)

Questo petto goder con questo petto.

Gia l’alma il gran dolor preme si forte,

Dar non potendo il suo contento al core,

Che per me sento avicinar la morte,

Ne la mia verde età, su’l piu bel fiore.

E piu m’incresce, che con ugual forte

Morendom’io, quel, ch è nel fonte, more.

S’uccide me, non lascia in vita lui

Morte, e se ne toglie un, ne toglie dui.

A’me per me non duol questa partita,

mancar dovendo il mio dolor con lei,

Mi grava ben, che non rimane in vita

Colui, che piace tanto a ‘gli occhi miei.

Ma il dolce fonte mi richiama, e invita

A mirar quel, ch’anchor toccar vorrei.

Cosi dicendo ritornar gli piacque

A rimirar le sue mortifere acque.

Lagrima, e lagrimar l’amato viso

Vede, e vuol pur toccarlo, e turba l’onda,

E mira il simulato suo Narciso,

Che par, che fuggir voglia, e si nasconda.

Ovunque l’onda il manda, ei l’occhio fisso

Tien sempre, e l’ pianto ogn hor crebbe, et abbonda

Se non vuoi, ch’io ti tocchi, ne che t’oda

(Disse) lascia, ch’almen l’occhio ti goda.

D’ira acceso in se stesso, e di dispetto,

Poi, ch’egli al suo gran mal sì caldo intende,

Co i pugni chiusi l’innocente petto

Percote, pur la veste gliel contende.

Per dare al batter suo maggiore effetto,

Leva la spoglia, e quello ignudo offende,

Si batte, e duolsi, e dassi in preda al lutto,

E par de l’intellettuo uscito al tutto.

L’eburneo petto suo cosi percosso,

Si sperse di una nobile tintura

Prese un misto color di bianco, e rosso,

Qual mela suole haver non ben matura:

O’ come uva, che l’acino ha gia grosso,

Che già rosseggia, e tende a farsi oscura,

Si vestì d’un color, d’una maniera,

Che’l fe piu bello assai, che pria non era.

 

Hor come anchor si specchia, e che s’accorge

Di quelle carni tenere di latte,

E’l bel cinabrio si ben misto scorge

In quelle parti ignude, si ben fatte,

L’amoroso desio piu caldo sorge,

Di palpar quelle membra anchora intatte,

E se ben egli fa, che nulla abbraccia,

Gli è forza in quello error tuffar le braccia.

L’onda si move, et ei si duol, che fugge,

Lascia fermarla, e torna a rimirarsi,

E si cresce il desio, tanto l’adhugge,

Che dove ardea, comincia a liquefarsi.

Cosi nel forno il metallo si strugge,

Che comincia al principio ad infocarsi,

Et infocato ogn’hor si fa piu molle,

Tal, che come acqua al fin liquido bolle.

 

Già manca il bel color vermiglio, e bianco,

Mancan le forze sue, manca il vigore,

Il suo bel viso, e’l suo splendor vien manco,

Che già prese Ecco,, hor’ a lui strugge il core.

Ecco anchor, che sdegnata, non di manco

Ha sempre accompagnato il suo dolore,

Replico cio, che mai Narciso disse,

E fe, che’l fin del suo parlar s’ udisse.

Al suon, che’ batter de le man rendea,

Quando il petto, e le man battea si forte,

Ella col suon medesimo rispondea,

Diss’ egli all’ombra, ecco per ho la morte,

Ecco ho per te la morte (ella dicea)

E rimembrava la sua cruda sorte.

Dice egli al fin, me’n vò, rimanti in pace,

Ella dice il medesimo e poi tace.

 

Lo smorto volto al fin fu l’herba verde

Posa, è n quel vano pensier si sta pur fiso,

E tanto a poco a poco il vigor perde,

Che la morte s’alberga nel suo viso,

Le luci, che satiar non si poter de

Gli usati sguardi in quel finto Narcisoo,

A’ specchiarsi se’n gir di carne ignude,

Ne la nera infernal Stigma palude.

 

Lo spirito di quel vano amante, e stolto

Quando fu giunto à l’onde d’Acheronte,

In quel medesimo error trovossi involto,

E rimirossi in quel pallido fonte.

Il petto si batter, graffiarsi il volto,

E le chiome stracciar sparse, et inconte

Le Naiade di lui meste sorelle,

E l’Amadriade, e le altre Ninfe belle.

 

Ecco con loro il suo strider confonde,

E lascia solo udir l’ultime note,

Ma graffiarsi, e stracciar le chiome bionde

(Non havendo piu il corpo) ella non puote.

Ma ben finge quel suono, e gli risponde,

Che fan, se palma a palma si percote.

E s’una dice, ahi quel bel lume, e spento

Ella il ridice, e narra il suo tormento.

 

Già preparata havean la pira, e l’foco

Per far le sacre essequie al corpo estinto,

Ma non trovar cadavero in quel loco,

Dove l’uccise il suo bel viso finto.

Fatto era il corpo nel color del croco,

Un fior da bianche foglie intorno cinto.

E si leggiadro, e nobile è quel fiore.

Che parte anchor ritien del suo splendore.

 

La fama di Tiresia allhor ben crebbe,

E n’hebbe tosto tutto il mondo aviso

Come il saggio pronostico effetto hebbe,

C’havea gia fatto al figlio di Cefiso.

Il caso in vero a tutto ‘l mondo increbbe

De la spietata sorte di Narciso,

E ben, ch’altero ei non stimasse alcuno,

Pur tal bellezza a pietà mosse ogn’uno.

 

ANNOTAZIONI DEL TERZO LIBRO

[…]La favola di Narciso è assai chiara, per se stessa, onde per venir all’ Allegoria dirò che per eccho si può intender l’immortalità de i nomi, amata molto da i spiriti alti e nobili, ma poco prezzata da i Narcisi che datti alle delicie s’innamorano miseramente di se medesimi; e al fine poi sono trasformati in fiori, che la mattina sono vaghi, e la sera guasti cosi questi vennendo a morte rimangono sepolti insieme con i loro nomi eternamente, non giovando loro le delicie ne i piaceri ne quali hanno consumata la vita loro. Bella conversione e quella della stanza. O misero et come è bellissima anchora la digressione del lamento di Narciso.