sec. XVI d.C.
LODOVICO DOLCE, Le Trasformationi di M. Lodovico Dolce con Privilegii. All’’Invittiss. e Gloriosissi. Imp. Carlo Quinto. In Venetia appresso Gabriel Giolito De Ferrari e Fratel. MDLIII, canto VII
Non è pena maggior, cortesi Amanti,
Voi che donaste a deu begli occhi il core;
Che, quando l’huomo è a la sua Donna avanti,
Far palese non possa il suo dolore:
E, quantunque ella il cor vegga a i sembianti,
Non si mova a pietà di chi si more.
Gran miseria è il suo amor tener celato,
E amando altrui non esser punto amato.
L’uni e l’altro crudele empio martire
Sentì l’afflitta e sventurata amica
Del giovenetto altier , ch’al suo languire
Fuggì con alma di pietà nimica.
Ma uno si specchi in quel, c’hebbe a seguire,
Ogn’huomo e Donna; e fra se stessa dica,
L’esempio di Narciso in ogni etate
Deve ammonire huomini e donne ingrate:
Che già non piace a la bontà infinita,
Anzi egli è abominoso e gran peccato,
Che s’amo te, come la propria vita,
Non sia da te, come la vita, amato.
Ma, quanto avanzi questa ogni ferita,
Sappelo Donne mie, chi l’ha provato.
L’ho provat’io: e non amando noi,
Prego, che ancor ve lo proviate voi.
Moss Narciso da la sete ardente,
Ratto accostò la bella bocca a l’acque:
Ma spenta quella sete, un’altra sente,
che maggior de la prima a l’alma nacque:
Perche nel chiaro humor vide presente
La imagin sua: la qual tanto li piacque,
Che, come vera, al remirar di quella
Subitamente inamorossi d’ella.
Fiso et immoto a riguardar ne l’onde
Stassi, come un bel marmo, e di se fuore.
Gli occhi due stelle lucide e gioconde
Gli sembran, dentro a cui s’annidi Amore,
Le chiome crespe, inanellate, e bionde
Degne d’Apollo; e’l bel natio colore
De le guancie somiglia a un dolce foco,
Che faccia tremolar liev’aura un poco.
Non cessa di mirar, non di lodare
Le mani e’l collo; e ne sospira spesso:
Perche in altrui mirabile gli pare
Tutto quel, ch’è mirabile in sé stesso.
Desia fruir l’alme bellezze rare,
Ne sa, che son pur sue, ne s’aved’esso.
Loda, et egli è il lodato: è preso, e prende;
E parimente ei solo arde, et accende.
Procaccia di basciar le labra in vano:
Onde più volte in mezzo l’acqua stende
Le bianche braccia, e l’una e l’altra mano;
Ma lasso nulla stringe, e nulla prende.
Mira gli occhi, le guancie, e’l viso humano;
Ne quel fallace error folle comprende:
Anzi, quanto più mira, più s’infiamma;
Ne parte è in lui, che non sia foco e fiamma.
Semplicetto garzone, a che cercando
Vai quel, che esser non puote in alcun loco?
Verrà la falsa immagine mancando,
Se da quest’onde t’allontani un poco.
Ella teco ne vien; ne gire in bando
Puo da te stesso; et agghiacciare il foco
Prima vedrai, che possa ella lasciarti,
Se tu prima da te non ti diparti?
Di cibo no, ne di riposo cura
Puo trar Narciso da mirar nel Fonte;
Ma tien gli occhi a l’angelica figura;
Ne quindi un poco mai leva la fronte.
S’era posto a giacer su la verdura,
Gia declinando il Sol da l’Orizonte.
Poscia levossi alquanto, e mirò intorno
La Selva e’l luogo di be’fiori adorno.
Ombrose selve, a le cui folte piante
Hebber mille amator dolce ricetto;
Nel girar, dice, d’anni e d’hore tante,
C’havete qui vitale e fresco letto,
Vedeste mai più sventurato Amante
Di me; ch’in tutto misero e negletto,
L’amato mio thesoro inanzi veggio,
E lui senza trovar cerco e vaneggio?
Accresce lasso ancor la pena mia,
Che l’un da l’altro non disgiunge o tolle
Mar, terra, monte, lunga e alpestre via
Ma un picciol fonte sol, liquido, e molle.
Colui, che m’inamora, tuttavia,
Mostra d’amarmi; e mille volte volle
A me accostarsi; e a la mia bocca inchina
Le labra: e s’io mi piego, ei s’avicina.
Giovinetto gentil d’alta beltade
Adorno si, ch’al mondo è senza pare,
Habbi pietà de la mia verde etade,
Et esci, tua mercè, de l’acque chiare.
Da te sgombra durezza e crudeltade,
Ch’anch’io vago fanciul mi vidi amare
da mille Ninfe: e s’ho beltà minore,
forse io non sono indegno del tuo amore.
Ah, ch’i be gli occhi tuoi, la bella faccia,
Fa che speranza in me vivace sorga.
S’io le braccia ti porgo, e tu le braccia
Benignamente assai par, che mi porga.
S’io piango, par che tu’l medesmo faccia,
E ch’ogni mio sembiante in te si scorga.
E mentre io parlo, e tu le labra movi,
ma non avvien, che’l suono uscita trovi.
Misero, ch’io m’accorgo, e veggo tardo,
Che questa è pur di me la imagin propria.
Di me stesso infelice avampo et ardo,
E povero mi fa la troppa copia.
Chi vide mai, quel ch’in me provo e guardo,
Che ricchezza in altrui portasse inopia?
Chi vide mai, chi mai porgerà fede,
Ch’alcun bramasse haver quel, che possede?
Anzi vorrei poter con questa mano
Da me stesso me stesso dipartire.
O d’un Amante desiderio strano,
Che l’amato da se debba fuggire.
Ma poi, ch’io veggio ogni rimedio vano,
Che m’avanza meschin piu, ch’el morire?
E morir lasso debbo, e morir voglio,
Poi, che solo nel mondo e’l mio cordoglio.
E gia l’incomparabile dolore
Del corpo a poco a poco leva e scorza
La carne, e fugge il natural vigore,
E la primiera sua virtute e forza;
Troncando di mia vita il più bel fiore,
Sì come vento un picciol lume ammorza.
Ne mi duol col morir uscir di noia;
Ma che l’amato ben meco si moia.
Che, se pur morend’io, restasse in vita
Quel caro obietto, ch’è cagion, ch’io mora;
Morte non fu ad altrui tanto gradita,
Nessun giunse piu lieto a l’ultima hora.
A questo il van desio Narciso invita
A remirar nel Fonte: e uscendo fuora
Le lagrime degli occhi, le chiare onde
Turbaro, onde l’effigie si nasconde.
Ei, ch’oscurare e dipartir la mira,
Prega, che si rischiari e che ritorni:
Ch’assai gli par, se lei , che’n van sospira,
Vegga, fin che finisca i brevi giorni.
In tanto si distrugge e si martira,
Si duol, ch’in vita homai troppo soggiorni.
Al fin con tristo e’mpallidito aspetto
Squarciò la vesta, e si percosse il petto.
Il petto diventò di quel colore,
Che suole haver un ben maturo frutto,
O l’uva priva ancor del suo sapore;
Che non è bianca, e non è rossa in tutto.
E sempre col mirar cresce l’ardore;
E’l misero Garzone è a tal condutto,
Che gia si liquefà ne la maniera,
Ch’a lento foco suol tenera cera:
O, come suol ne le montagne Alpine
Sotto a tiepido Sole a poco a poco
Liquefarsi la neve e le pruine,
Tal, che di vita homai gli resta poco.
Sparite son quelle beltà divine,
Che in Eco acceser l’amoroso foco:
La qual, come lo vide, di sua sorte
Pietà le venne, e se ne dolse forte.
E più, che l’ira in lei l’amor potendo,
O la memoria de l’havute offese;
Quando Narciso oime dicea piangendo,
La medesima voce anch’ella rese.
E quante volte il miser percotendo
Veniva il petto; tante si comprese
Il medesimo suon da lei formato;
Ch’invisibile altrui gli stava a lato.
Al fin mirando pur l’acqua fatale
Ne la sua morte, il giovinetto lasso,
O da me in darno e per mio estemo male
(Disse) amato fanciullo, ecco ch’io passo
Ad altra vita, vale: et Eco vale
Gli rispose con suon languido e basso.
Alhor di sua beltà stupida forte
Poco mancò, che non morisse morte.
Egli la testa havea posta ne l’herba;
Al fin quella crudel gliocchi li serra;
Quella crudele, horribile, e superba,
Che sforza il mondo, e i piacer nostri atterra
Poi, che lasciando la prigione acerba
L’anima giovanile andò sotterra;
Non men la imagin sua là giù li piacque,
E ancor di Stige si specchiò ne l’acque.
Or poi, che le Naiade hebbero scorto
L’infelice fratel di vita privo;
Senza prender giamai pace, o conforto
Versan da gli occhi lagrimoso rivo:
E squarciandosi i crin, sul corpo morto
Gli spargon con humor continuo e vivo,
et hebbero compagne a quei lamenti
Le Driadi, et Eco ad iterar gli accenti.
E, mentre seguitando il pianto amaro,
Ch’era pari al martir, pari al dolore,
Faci, rogo, e feretro apparecchiaro,
Per fare a quel meschin l’ultimo honore;
Il corpo, ov’era posto, non trovaro,
Ma in vece d’esso un bel candido fiore.
Le foglie bianche havea, ma in mezo loro
V’era un cerchio gentil di color d’oro.