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sec. IV/V d.C.

LATTANZIO PLACIDO, Narrazioni Ovidiane, III, fab. 5-6

 

Traduzione da: Bettini M., Pellizer E., Il mito di Narciso. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino, Einaudi, 2003, pp. 192-3.

 

(5) La ninfa Liriope generò dal fiume Cefiso Narciso, al quale Tiresia, figlio di Evero, promise con un vaticinio ogni felicità, se non avesse avuto alcuna notizia della propria bellezza. E poiché dunque Eco lo amava, e non riusciva a trovare il modo di farlo suo, per la pena e la passione per quel giovane si consumò, e ciò che rimase del suo corpo fu mutato in pietra; ciò le accadde per l’ira di Giunone, perché spesso l’aveva trattenuta con la sua loquacità, in modo che Giove non potesse essere da lei sorpreso sul fatto mentre rincorreva le ninfe sui monti. Si dice che Eco, figlia di Giunone, per la sua deformità si sia nascosta tra i monti, perché niente si potesse percepire di lei, tranne la voce, che tuttavia dopo la sua dipartita si ode ancora.

(6) Ma Nemesi, la vendicatrice di coloro che sono restii in amore, indusse il suddetto Narciso, per la troppa crudeltà che aveva mostrato nei confronti di Eco, all’amore di se stesso, perché ardesse di una fiamma non minore. Costui dunque, stanco per la caccia che esercitava assiduamente, s’era sdraiato presso una fonte all’ombra, e bevendone l’acqua aveva visto la propria immagine: e indugiando su di essa troppo a lungo, alla fine si consunse al punto di perderne la vita.

Dai suoi resti spuntò un fiore, che le ninfe Naiadi, che piangevano le sorti del loro fratello, chiamarono col suo nome.