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GIOVANNI ANDREA dell'ANGUILLARA, Le Metamorfosi d’Ovidio ridotte in ottava rima, In Venetia, Libro III

Giunon sapea non senza gran dolore,

ch' à Giove il core ardea nova facella,

che Semele godea d'ingiusto amore,

ch'allhora il primo havea grado di bella

Figlia al primo di Thebe Imperatore,

a cui già tolse il toro la sorella.

Hor quel, che fa Diana, le rammenta,

com'ella à vendicarsi è troppo lenta.

Oime, che da ciascun vendetta è presa contra questa impudica,

e infame gente, e Giunon, che n'è più d'ogni altra offesa,

Si stà da parte, e non se ne risente.

Ogni alma illustre di giust' ira accesa,

Di desio di vendetta arma la mente,

Io stommi, e ogn'una homai Giove mi toglie,

E pure io son di lui sorella, e moglie.

Sorella io ben gli son; ma moglie in vano

Mi chiamo più di lui, se più no 'l godo,

S'ogn' hor l'empio figliastro di Vulcano

Con novo amor me 'l toglie, e novo modo.

Ma ben di questo amore al tutto vano

Farò quel forte indissolubil nodo,

Ond'ha legato il mio marito, e preso,

con modo non più usato, e non più inteso.

Regina esser del ciel detta non voglio,

Ne seder più sul mio sublime seggio,

Se non isfogo in modo il mio cordoglio,

Ch'à lei desiderar non sappia peggio

Madre del seme, ond'io madre esser soglio,

Vuol farsi, e già n'è grave, à quel, ch' io veggio,

Del seme del maggior celeste padre,

Di cui sola Giunon debbe esser madre.

Contra lei vendicarmi in una volta

Voglio, e contra l'ingiusto mio consorte;

E farò, che costei sarà sì stolta,

Che di sua bocca chiederà la morte.

E vorrò, che le sia la vita tolta

Da Giove suo, da chi l'ama sì forte.

Così s'avolge in una nube, e scende

In terra, e verso Thebe il camin prende.

Non pria da se la Dea la nube sgombra,

Che di forma senil tutta si veste.

Fà bianco il crin, di color morto adombra

il volto, e crespe fa le guance meste.

al volto antico quell'aria, e quell'ombra,

quel velo al capo, al dosso quella veste

Dà, ch'una vecchia balia hoggi usa, et have,

Che tien del cor di Semele la chiave.

Sapea tutto il suo amor, tutto il suo intento

Beroe Epidaura, di colei nutrice.

Il tardo parlar suo, l'andar suo lento

Ben finger sà di lei l' imitatrice.

Hor preso un vario, e gran ragionamento

La Dea con quella giovane infelice,

L'aggira con grand'arte, e al fin la move

À ragionar sopra l'amor di Giove.

Quanto è, che seco non fece soggiorno

Le chiede, e come Amor per lei l'accenda.

Ella risponde, e non passa mai giorno,

Ch'egli per troppo ardor dal ciel non scenda

Pur dianzi se n'andò, fia di ritorno

Diman, secondo ha detto, ch' io l'attenda.

E sempre, ch'egli viene, ha per costume

Porsi meco à giacer sù queste piume.

Sospira dal profondo del suo petto

La finta Dea, con non finto sospiro,

Perchè quel, che la giovane l'ha detto,

ha raddoppiato in lei l'odio, e 'l martirio.

Bramo, che questo sia Giove in effetto,

Ch'ogni dì teco adempie il suo desiro,

Perch'altri (disse) con mentiti aspetti

Macchiar più volte i più pudichi letti.

Non basta, ch'egli dica essere Dio,

Se non dà del suo amor più certo pegno,

Però se vuoi seguire il parlar mio,

Vo, che sopra di ciò tu chieda un segno,

Che come ei per dar loco al suo desio,

À te discende dal celeste regno,

Non venga, come suol, sotto human velo,

Ma con la maestà, ch'ei stà nel cielo.

Venga nel suo decoro, e seco porte

Le regie insegne, e 'l suo divin splendore,

Come quand'egli và da la consorte,

Per tor piacer del coniugale amore.

Così fe, ch'ella dimandò la morte,

Che non vedendo il simulato core

De la finta nutrice, il dì, che venne

Il mortal don da lui non cauto ottenne.

Senza scoprir qual dono, un don gli chiede,

Ma vuol, che Giove pria prometta farlo.

Egli, ch'altro non brama, altro non vede,

Che piacere al suo amore, e contentarlo.

Acciò ch'ella habbia indubitata fede,

Che se 'l promette, egli è per osservarlo,

Per quel fiume infernal promette, e giura,

Ond'hanno gli alti Dei tanta paura.

La giovane mal cauta, e desiosa

Di veder cose sopr' humane, e nove,

Non sapendo la morte essere ascosa

Per lei nel don, ch'ella vorria da Giove,

Gli dice humil la fronte, e vergognosa,

Che come amor ver lei di nuovo il move,

ne la sua maestà celeste vegna

Con l'arme innanzi, e con la regia insegna.

Nel modo, ch'à la sposa ei s'appresenta,

Quando vuol seco il coniugal diletto.

Di darle Giove in sù la voce tenta,

Ma non può far, che ella non l'habbia detto

Gli preme, e duolsi, e più, che si rammenta

Del giuramento stigio, ond' è costretto

Di compiacere in modo à desir sui,

Che lui privi di lei, e lei di lui.

Giove da questo error cerca ritrarla,

Mostrando il grave mal, ch' indi s'aspetta:

Ma tutto quel, che le suade, e parla

Rende la donna incauta più sospetta,

E quanto più difficile nel farla

Di ciò contenta il trova, più l'affretta,

Che già suspition l' ha presa, e vinta,

Per quel, ch'udì da la nutrice finta.

Vedendo al fin, ch'ogni suo priego è vano

Si torna Giove al cielo, ove si veste,

Del suo splendore, e poi di mano in mano

Di nuvoli, di venti, e di tempeste,

E di lampi, e di tuoni, e al fine in mano

Toglie il terribil folgore celeste,

Non però il più dannoso, anzi si sforza,

Di scemargli l'ardor, l' ira, e la forza.

Non quel, ch'arse il centimano Tifone

Toglie, che troppo è quel tremendo, e fero,

Ma fra quei di minor conditione

Sceglie il manco nocivo, e 'l più leggiero,

E così Giove contentò Giunone,

Che colei non potè l'aspetto vero

Soffrir di lui quando in tal forma apparse,

E de l'amante il don l'accese, et arse.

L'infante, che nel corpo era imperfetto,

De l' infelice donna, che s'accese,

Che del seme di Giove havea concetto,

Dal ventre, ch'aprir fece il padre prese,

E se creder vogliam quel, che vien detto,

Con tanta industria à quel fanciul s'attese,

Ch'unito un tempo a l'utero del padre,

Finì quei mesi, onde mancò la madre.

Quando fu poi perfetta, e ben matura

La degna prole, ch' in due ventri crebbe,

Giove da se spiccolla, e ne diè cura

Ad Ino, una sua Zia, che cura n'hebbe,

La qual, se ben di Giuno havea paura,

Non mancò al nipotin di quel, che debbe

a le Ninfe Niseide il diè di notte,

Ch'ascoso il nutrir poi ne le lor grotte.

Questo fu il padre Bacco, e l' inventore

Del meglior culto à la feconda vite,

Che la dolce uva, e quel divin liquore

Porge al sostegno de le nostre vite.

Hor mentre egli è d'ogni periglio fuore,

Giunon, che star non suol mai senza lite,

Vedendo in vista assai turbato Giove,

Per più turbarlo un'altra lite move.

Stassi Giove turbato per la morte,

Ch'ogni sua gioia, ogni suo ben gli ha tolto,

E 'l punge, e rode quel pensier di sorte,

Che qual sia dentro il cor fuor mostra il volto,

Di questo s'affligea la sua consorte

Che scorgea il suo desio lascivo, e stolto,

E questo tal travaglio, e duol l'apporta,

C' ha gelosia di lei, se bene è morta.

Ne può tenersi d' ira, e rabbia accesa,

Vinta dal duol, che non le venga detto,

Che cosa tanto v' ha la mente offesa,

Che vi fa sì turbato ne l'aspetto?

Pensate forse à nova rete tesa,

Per farmi ogni hor star vedova nel letto,

Pensier nel ver da trarne honore, e frutto

Degno di quel gran Dio, che regge il tutto.

Infinite ragion creder mi fanno,

Ch'à l'huom maggior contento amore arrechi,

Poi che 'l poter sì spesso usa, e l'inganno

Per venire à quegli atti infami, e biechi,

Correte al vostro biasmo, al vostro danno

Per soverchia lascivia insani, e ciechi,

Che 'l fin d'amor per voi soave è tanto,

Che vi fa la vergogna por da canto.

Ma ben nacquer le donne per sentire

Tutti quanti i martir, tutte le doglie,

L'esser gravida, e 'l duol del partorire,

E 'l nutrir tocca à la scontenta moglie,

Questo è il nostro piacer, questo è 'l gioire,

Questo frutto d'amor per noi si coglie.

Ciò, che di male ha il matrimonio, è 'l nostro,

Ma il piacere, e 'l contento è tutto il vostro.

Maraviglia non è dunque, s'amore

Del foco suo così spesso v'accende,

E non curate punto de l' honore,

Tal gioia, e tal piacer da voi si prende.

Non ci pensate più, sfogate il core,

Gite à trovar l'amica, che v'attende,

E senza haver d'honor, ne d'altro cura,

Date luogo al diletto, e à la natura.

Non potè far' allhor, che non ridesse

Giove, bench'altro havesse in fantasia,

Udendo le querele strane, e spesse,

Che la moglie movea per gelosia.

Ne si potè tener che non dicesse

Che dava qualche inditio di follia

À dir, che l'huom più si compiaccia, e goda,

Quando con la consorte amor l'annoda.

E se par, c'habbia l'huom maggior piacere,

Ch'ei prega, ei serve, ei narra il suo martoro,

E con difficultà le donne havere

Può, se non spende i prieghi, il tempo, e l'oro:

Questo avien, che le leggi fur severe,

Che conoscendo l'ingordigia loro,

Fer come infame esser mostrata à dito

Donna, ch'altri godea, che 'l suo marito.

Annotazioni del terzo libro (….) Concatenando Ovidio, come fà per sempre in questo libro delle Metamorphosi una favola con l'altra, unisse a quella di Atteone, questa di Semele ingannata da Giunone, trasformata in Beroe sua nodrice, a persuasione della quale la misera si procaccia la morte, che ci viene a far conoscere come noi chiedendo gratie a Dio, non sapendo quello che dimandiamo, venemo a chieder' il piu delle volte cose che ci sono dannose, e mortifere, come persuasi dalla nostra cupidiggia insaciabile, che è per sempre la notrice nostra.Diremo anchora che Semele è pregna di Giove quando la vite figurata per Semele, nella primavera si gonfia per il calore del Sole, e divien pregna di Bacho e che poi è folminata nel maggior ardore dell'estate, quando per il gran vigore del Sole incomincia a mandar fuori i frutti si congiungono i frutti poi al ventre di Giove, non essendo ridotti a perfettione dalla vite, quando egli piglia cura di renderli maturi, i quali sono poi conservati da Ino, quando coperti dalle foglie, e da i pampani, si vanno nascondendo, a i raggi del Sole, vengono poi nodriti dalle Ninfe quando sono ristaurati dall'humidita della notte. Che Sileno sia poi allievo di Baccho, significa che i vecchi si nodriscono piu col vino che con le vivande. Volendo poi seguire la descrittione che fanno i Poeti di Baccho a quello che gli attribuiscono dirò che i Lupi Cervieri non son'altro che cosi la vertù del vino preso moderatamente; come quella che cosi cresce l'ardire, e la vista, com'anchora preso ingordamente fa l'huomo volubile come il suo carro. Le Tigri poi che 'l tirano dinotano le crudeltà de gli ubbriacchi; gli Orsi, e i Lupi arrabiati poi che sono portati nella preda di Baccho sono i furori, e le pazzie, sopra lequali montano fieramente quelli che sono tocchi, da 'l vino, perche sono di modo senza consideratione, che andarebbero sfrenatamente in ogni maniera di pericolo. Sono anchora timidi quelli che si danno al vino come quelli che havendo perduta la ragione non discerneno, quali cose siano da temere, e quali no. I gradi instabili poi che sono numerati fra i compagni di Bacco significano quei vari e diversi, e non mai fermi passi che fanno quelli che hanno soverchiamente bevuto. È dipinto Bacco ignudo perché chi è tocco da lui scopre tutte le cose e non tiene alcuna cosa nascosta; e poi perché il bere soverchiamente riscalda di modo che non si hà bisogno de vestimenti; il fanno fanciullo poi, perche i suoi fedeli sono sempre spensierati come i fanciulli; il chiamano poi per nome Baccho che non significa altro che furore; rendendo furiosi quelli che 'l pigliano fuori di misura consuma il vino anchora preso moderatamente come vogliono i medici, cosi la soverchia humidità de cibi, nello stomaco, come anchora essendo bevuto fuori di modo spegne pe 'l soverchio calore e l'humido radicale, snerva il vigore, e fa gli huomini deboli, e tremanti. È a Baccho sacrificato il Caprio, amando molto questo animale i suoi pampani.