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LODOVICO DOLCE, Le Trasformazioni, in Venetia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari e fratelli, Canto VI

Ecco nuovo disdegno al primo aggiunge,

che più ch’ardesse mai tutta l’accende;

e l’apre il petto, e acerbamente il punge,

che Semele essere gravida comprende

di Giove; e ch’era ancor non molto lunge

d’uscir in luce il novo parto intende.

Onde a l’usato si lamenta e duole:

e mosse iratamente este parole.

 

Qual dicea, profitto hai lassa ho fatto,

in punir, chi disturba ogni mia pace;

Se, quando penso haver divelto e tratto

Da radice quel mal, che mi disface,

Io lo trovo maggior sempre rifatto;

e spenta l’una accesa un’altra face?

A Europa (e pur non fu prima ne sola )

Hor succede di Cadmo la figliuola.

 

Ne basta, ch’ella sia del letto mio

Fatta compagna; che n’è fatta ancora

Gravida: quel, ch’a pena ho potut’io

Ottener fra molt’anni insino ad hora.

Ah , non sarei moglier del maggior Dio,

ma solo il nome a me rimaso fora

di sprezzata sirocchia; s’io comporto

questo si grave insoportabil torto.

 

Vuo, ch’ella sparga homai l’ultima strida ,

Ne vuoglio, che’l morir mi basti solo;

ma con le proprie man Giove l’uccida

si che’l tormento suo tempri’l mio duolo.

Questo conchiuso, senza farne grida

Dentro una nube in terra scende a volo;

e presa forma d’una vecchia antica

s’appresenta davanti a la nemica.

 

Di Beroe elle si veste la figura;

la quale era di Semele nutrice

e come avesse del suo parto cura,

s’accosta a quell’incauta et infelice.

Gran sorte, lieta stella, alta ventura

Fu la tua figlia mia; Giunon le dice;

che ti fe degna a l’amorose prove

haver qua giù nelle tue braccia Giove.

 

Ma uno, che sappi, che si come avviene ,

che molti infra di noi caldi Amatori,

Per acquistare il desiato bene

Fingon d’esser grand’uomini e Signori:

I quai son poi (per dir, come conviene) 

E Villani , e Bifolci, e Zappatori:

Così fingon gli Dei celesti e Santi

Per ingannar le semplicette Amanti.

 

A me dorrai, che tu fosti di quelle

Così beffate e di soverchio buone.

Onde per darne altrui vere novelle,

Sapendo quel, ch’io dubito a ragione;

Prega, che tale a le tue luci belle

Giove si mostro, qual suole a Giunone:

Prega, che teco in quella forma ghiaccia,

Che suol con lei, senza cangiar la faccia.

 

E ne la stanza tua discenda e vegna

(Altrimenti non creder, che sia d’esso)

con la medesima sua superba insegna,

che porta in ciel quando le giace appresso

E, se di tal favor egli ti degna,

Alhor potrai mostar chiaro, et espresso,

che veramente è Giove e non mortale,

E ch’a la tua non sia bellezza uguale.

 

Accomodar con le parole i gesti

Seppe Giunone, e così ben la voce,

che Semele di facile credesti

Tu vera Balia l’avversaria atroce

Et inducesse a quel che non dovessi:

che’l troppo ricercar sovente nuoce:

ma non si può fuggir il suo destino;

Ne sempre del futur l’huomo è indovino.

 

Ecco vien Giove, ecco la semplicetta

Li chiede un dono. Egli promette e giura

Di concederle, quanto a lei diletta,

si come suol, per la palude oscura.

Subito dimandò la giovanetta

(d’ottener il desio tutta sicura)

che tal le si mostrasse, qual soleva,

quando con giuno sua giacer voleva.

 

Ben le volse serrar Giove turbato

La bocca, ma’l voler non ebbe effetto;

Non potè far di non haver giurato;

E quel, che detto fu, non fosse detto.

Ritorna al ciel dolente oltra l’usato,

Dal giuramento a compiacerle astretto,

nubi di qua, di là nembi conduce;

E folgori coò venti, e tuoni adduce

 

Ben cercò di scemar, quanto poteo,

l’usata forza: e ne le man ridusse

non la fiera saetta, onde Tifeo

con gli altri suoi fratei Giove percosse: 

ma un altro, che men grave ardente feo

sterope, l’arma sua volle, che fusse.

Questi, che manco offendono mortali,

chiaman gli dei nel ciel secondi strali,

con tal saetta appresentossi e venne

A la incauta nipote di Agenore.

L’impeto il mortal corpo non sostenne,

ch’avampò tutto a quel cocente ardore:

E, mentre polve, e cenere divenne,

Giove (che’l pote far) ne trasse fuore

Un fanciullo: e sel mise (io so, che voi

Mel crederete) entro una coscia poi:

 

E ve lo tenne il tempo, ch’a madre

Mancava, onde l’infante uscir dovesse.

Lo diede prima a nutricare il padre

Ad Ino, che costei da tutte elesse;

A certe ninfe poi belle e leggiadre

Il medesimo officio egli commesse.

Ino era zia di quel bambino: e queste

Habituan di Nisa le foreste.

 

Mentre crebbe il fanciul ne gli antri ombrosi

Il qual dir si potea due volte nato,

e fu mercè de’ gesti suoi famosi,

che lo fecer divin Bacco chiamato;

Sciolto da suoi pensier gravi e noiosi,

giove trovassi un dì tutto scaldato,

(se lice dir ) del Nettare Divino,

ch’è de gli dei soave eletto vino.