2 – 8 d.C.
OVIDIO, Metamorfosi, III, vv. 259-315
Testo tratto da: Bernardini Marzolla P. (a cura di), Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, Einaudi, Torino 1994. III, vv. 259-501
Solo la consorte di Giove non si perde in pro e contro,
ma esulta per la sciagura che ha colpito il casato 260
di Agenore, perché su tutta la stirpe riversa l'odio
concepito per la rivale fenicia. E a quell'antico motivo
se ne aggiunge uno nuovo: lo sdegno che in seno porti Sèmele
il seme del grande Giove; e affila la lingua per la lite, ma:
«Che mai ne ho ricavato,» dice, «tutte le volte che ho litigato?
Colpirla, questo devo; sì, la distruggerò, quanto è vero
che mi chiamo Giunone la suprema, che ho il diritto d'impugnare
uno scettro sfavillante di gemme, che sono regina, moglie
e sorella di Giove, sua sorella, certo. Si accontenta
di un'avventura, penso, di poco conto è l'offesa al nostro amore. 270
No, è incinta! Questo ci mancava! che col suo ventre pregno
la colpa rivelasse, cercando grazie a Giove d'essere madre,
ciò che a stento mi è toccato, tanto confida nella sua bellezza!
Farò che l'inganni: non sono figlia di Saturno, se nelle acque
dello Stige non finirà travolta proprio dal suo Giove!».
Detto questo, si alza dal trono e, nascosta da una nuvola fulva,
si reca a casa di Sèmele. Qui scioglie la nube, ma non prima
d'avere assunto l'aspetto di una vecchia, incanutendo le tempie,
solcando la pelle di rughe e trascinando con passo tremante
le membra incurvate; rende senile anche la voce, 280
ed è Bèroe di Epidauro, la nutrice di Sèmele in persona.
Così attacca discorso, e quando dopo lunghe chiacchiere si arriva
a nominare Giove, sospira e: «Ti auguro», dice,
«che sia proprio Giove, ma io sospetto di tutto: spacciandosi
per dei, troppi uomini sono entrati in letti onesti.
E non basta che per te sia Giove: ti dia una prova del suo amore,
se è vero amore; chiedigli che, grande e splendido
come l'accoglie l'eccelsa Giunone, grande e splendido così
ti stringa a sé, assumendo prima le sue insegne!».
Con queste parole sobilla Giunone l'ignara figlia
di Cadmo; e questa chiede a Giove un dono senza nominarlo. 290
«Scegli,» le risponde il dio; «nulla ti rifiuterò;
e perché tu più mi creda, sia testimone la divinità
del fiume infernale, un dio che anche agli dei incute paura!»
Lieta a proprio danno, eccitata di potere, sul punto di perdersi
per compiacenza dell'amante, Sèmele: «Come ti abbraccia
la figlia di Saturno, quando vi disponete ai giochi d'amore,
così concediti a me!» chiede. Avrebbe voluto il dio, mentre parla,
tapparle la bocca, ma ormai via nell'aria era volata la voce.
Gemette: più non può far sì che non abbia lei chiesto
e lui giurato. E allora tristissimo sale in alto 300
nel cielo e con uno sguardo raduna docili
le nubi e vi aggiunge uragani e in mezzo ai venti
lampi, tuoni e il fulmine al quale non si sfugge.
Ma, per quanto può, cerca di velare le sue forze;
così non si arma del fuoco con cui aveva abbattuto Tifone,
il gigante dalle cento braccia: troppa ferocia v'era in quello.
C'è un altro fulmine più fioco, nel quale la mano dei Ciclopi
ha infuso meno furia e fuoco, meno rabbia:
gli dei lo chiamano fulmine secondo; lo prende ed entra
nella casa di Agenore. Donna mortale non sopporta 400
assalto celeste e quel dono nuziale la incenerì.
Ancora in embrione il piccolo viene estratto dal ventre
della madre e tenero com'è viene cucito, se devo crederlo,
in una coscia del padre per compiere la gestazione.
Di nascosto Ino, la zia materna, lo alleva nei primi mesi,
quelli di culla, poi lo affida alle ninfe di Nisa
che lo nascondono nelle loro grotte, nutrendolo di latte.
Mentre in terra avvenivano per volere del fato queste cose
e l'infanzia di Bacco, tornato a nascere, scorreva tranquilla,
si racconta che, reso espansivo dal nèttare, per caso Giove
bandisse i suoi assilli, mettendosi piacevolmente a scherzare 501