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GIOVANNI ANDREA dell'ANGUILLARA, Le Metamorfosi d’Ovidio ridotte da Giovanni Andrea dell’Anguillara in ottava rima

 

Cadmo un nipote avea d’una sua figlia:

Felice lui se non l’avesse avuto!

Ch’ancor serene avrìa le meste ciglia;

Chè non si piange il ben non conosciuto.

Cortese era e leale e maraviglia,

Da tutto quanto il regno ben voluto;

Grato, giocondo e di piacevol faccia,

E sopra modo vago della caccia.

 

Un caso strano al misero intervenne,

Il maggior infortunio non fu mai,

E di quanti parlar l’antiche penne,

Tutti gli altri avanzò questo d’assai.

Da lui Diana offesa un dì si tenne,

Ma non l’offese, e tu, Fortuna, il sai;

E sebben quel meschin Diana incolpa,

Tu sai pur che fu tua tutta la colpa.

 

Io scuso in parte la silvestre Dea,

Ch’ebbe a pensar di tempo poco spazio,

Della pena ch’a lui donar dovea;

Chè non avrìa sofferto sì gran strazio

Ch’ogni vil can che l’infelice avea,

Sìavesse a far del viril sangue strazio:

Ben sarìa stata di pietade ignuda,

Se fosse stata in lei voglia sì cruda.

 

Questo infelice (ch’era Atteon detto)

Soleva a caccia andar quasi ogni giorno;

ne si togliea talor da tal diletto,

se il ciel pria non vedea di stelle adorno.

Un dì che il bosco avea di sangue infetto

Di belve senza fin, non fè soggiorno

Finché ‘l Sol s’attufasse a star con Teti,

Ma fè piuttosto assai raccor le reti.

 

Già nel cielo era il Sol cresciuto tanto,

Che discopriva il declinar del monte,

E dall’Occaso era discosto quanto

Gli era lontano il contrario orizzonte.

Teneano l’ombre delle cose intanto

Tutte al Settentrïon volta la fronte,

Quand’ei levò da quei cocenti ardori

Gli affaticati cani e i cacciatori.

 

Ben è stato il diletto oggi compito,

Ben oggi avuto il fato abbiam secondo

Chè veggio il sangue in favor nostro uscito

A tutto il bosco aver macchiato il fondo:

Già Fra Favonio ed Euro compartito

Ha con egual distanza Apollo il mondo,

Disse; e sia bene omai ritrarre i passi,

E ricreare i corpi afflitti e lassi.

 

Tosto i nodosi e ‘nsanguinati lini

Dai pali si disciolgono bicorni;

Poscia, ov’han più grat’ombra i faggi e i pini,

Ciascuno prenda riposo, e si soggiorni;

Come di perle adorna e di rubini

La desiata Aurora a noi ritorni,

E faccia appen del novo giorno Fede,

Tenteremo altre caccie ed altre prede.

 

O sfortunato giovane, che fai?

Ch’al riposo dei can tanto riguardi?

Perché quest’ozio e quiete lor dai?

Perché possano seguirti più gagliardi?

O misero infelice, perché stai?

Che non cacci ancor oggi insino al tardi?

Se in questi boschi hai già spenta ogni fera,

Che non cerchi altre cacce insino a sera?

 

Già desioso ognun della quiete,

Fa quanto egli far del per riposarsi.

Chi sotto un faggio e chi sotto un abete,

Non lungi l’un dall’altro erano sparsi;

Altri guarda la preda, altri la rete;

I can si veggano rispirando starsi ,

Col penoso esalar, con lordo morso

Mostan quanto hanno il dì pugnato e corso.

 

Vicino al loco ove a prender riposo

Gli afflitti cacciator s’eran messi,

V’era una valle amena e un bosco ombroso

Di molto antichi pini e di cipressi,

Dov’era un antro assai remorto e ascoso,

Ignoto insino a’ paesani stessi;

Sola il sapea la cacciatrice Diana,

Ch’ivi il caldo del dì fuggir solea.

 

Detta Gargafia è quella nobil parte

Di cui tenea la Dea silvestre cura.

Non è la grotta fabbricata ad arte,

Ma ben l’arte imitato ha la natura.

Un nativo arco quell’antro comparte,

Ch’in mezzo è posto alle native mura;

Tutta d’un fragil tufo è la caverna,

La fronte, i lati e ancor la volta interna.

 

Goccia per tutto intorno la spelonca,

E un chiaro fonte fa dal destro lato,

Dove più basso, a guisa d’una conca,

la natura quel tufo avea cavato:

Forma la goccia il tondo e poi si tronca,

né stillamento v’è continuato,

Ma per più gocce sparse un ruscel cresce,

Ch’empie quel vaso, e poi trabocca e n’esce.

 

Dall’antro il ciel, che natura compose,

Dalle gocce e dal gel diviso e rotto,

V’ha mille varie forme e capricciose,

Ch’esser mostran d’artefice ben dotto;

Tronchi orati e piramidi spugnose

Vi pendon, ch’al gocciar fanno acquedotto:

Comparamento ha tal, che lo scalpello

Nol potria far più vago né più bello.

 

Qui star solea la Dea Silvana spesso

Per fuggir il calor del mezzogiorno,

Dove giunta ora, e le compagne appresso,

L’arco in man d’una diede, i dardi e ‘l corno:

L’aureo sparso suo crin sottile e spesso

Raccoglie un’altra, e poi l’avvolge intorno,

Poi glie lo lega in capo in un bel modo,

Con un leggiadro e maestrevol nodo.

 

Chi le slaccia i coturni e scopre il piede,

Altra le spoglia la succinta veste;

E l’una all’altra in ben servir non cede,

Ma stanno pronte, vigilanti e preste.

Come la Dea spogliata esser si vede,

Non vuol ch’alcuna fuor vestita resta

E ignuda se n’entrar (come a lei piacque)

Nelle dolci, tranquille e lucid’acque.

 

Mentre si stan le Ninfe ivi adunate

Senza sospetto alcune liete e sicure

E si lavan le membra delicate

Nelle dolci acque, cristalline e pure,

E con parole accorte, oneste e grate.

Passan quell’ore sì nojose e dure,

Attéon, ch’a di porto iva soletto,

Venne a casso in quest’antro a dar di petto.

 

Siccome piacque all’empio suo destino,

S’era à compagni l’infelice tolto;

Ch’altri prono, altri in fianco, altri supino

Veduto avea nel sonno esser sepolto.

Entrò in quel bosco, che ‘l cipresso e ‘l pino

Ed altri arbori fanno ombroso e folto,

Tanto che ‘l trasse il piacer che n’avea,

Dov’era ignuda la silvestre Dea.

 

Come son d’Atteòn le Ninfe accorte

Ch’in lor tien gli occhi stupidi ed intenti,

E veggon ch’egli le ha già ignude scorte,

Con muti e rotti gemiti e lamenti

Batton le mani e ‘l sen, non però forte,

Perch’han vergogna; e misere e dolenti

Le parti ascondon, che natura asconde,

Dentro alle trasparenti e limpide onde.

 

Confuse tutte ceraci far coperchio,

Ch’egli ignuda la Dea non vegga e note;

E le fan mormorando intorno un cerchio,

E lei coprono, e lor più che si puote;

Ma il capo lor sovrasta di soverchio,

Né può la Dea celar le rosse gote;

Le gote più che mai tinte ed accese,

Per la troppa vergogna che la prese.

 

Come si tinge una nube nel cielo,

Che dall’avverso Sol venga percossa,

Come al tor del notturno ombroso velo

La parte oriental diventa rossa;

Tal la sorella del signor di Delo

Si tinge in viso, e da grand’ira mossa

Si duol ch’in man non ha gli strali e l’arco,

Per levarsi quel biasimo e quell’incarco.

 

Subito volta a lui la bassa fronte,

E non avendo altre arme da valerse,

Prese con ambe man l’acque del fonte,

E ‘l miser con quell’acque ultrici asperse.

Or voglio, se potrai, che tu racconte

Come Diana ignuda si scoperse:

Questo gli disse la sdegnata Dea,

Che fu indicio del gran mal ch’aver dovea.

 

Vede intanto l’irata cacciatrice,

Ch’a venir la vendetta non soggiorna,

Ch’a lui già crescono sopra la cervice

Di cervo a poco a poco un par di corna:

Il naso entra nel viso, e la narice

Resta aperta più sotto, e ‘l mento torna

Dentro in se stesso, e in modo vi si serra,

Che la bocca vien muso, e guarda in terra.  

 

Quello aspetto sì vago e sì giocondo

D’animal bruto nova forma prende;

S’allunga il collo, e dove egli era tondo,

Diventa piatto, e per lo taglio pende;

Se di peli ei fu già purgato e mondo,

Or novo pel tutto macchiato il rende;

Da quattro pie’ quel corpo or vien sospeso,

Che già dava a due pie’ soverchio peso.

 

Quel subito timor, quella paura,

Che suol nei cervi stare, a lui s’aggiunge:

E vedendo ogni Ninfa già sicura,

Che forte il grida, e minacciando il punge,

Dove la selva è più frondosa e scura,

Fuggendo va da lor più che può lunge.

Si maraviglia ei, che non sa l’intero

Dell’esser suo, di correre sì leggiero.

 

Mentre il paese via correndo sgombra,

Dal corso un’acqua limpida l’arresta;

Ma, come scorge nella sua nova ombra

Le nove corna e la cangiata testa,

Si tira a dietro attonito, e si adombra;

E sì questo l’affligge, ange e molesta,

Che vi torna più volte, e vi si specchia,

E non può ritrovar l’ombra sua vecchia.

 

Mentre il meschin, misero me, dir vole,

Queste son ombre vere, o pur son finte?

Trova che più non può formar parole

Di più sillabe unite, ovver distinte:

Gemere è ‘l suo parlar, come far sole

Il cervo; e le novelle luci vinte

Dal duolo interïor, stillan di fuore

Per lo volto non suo novo liquore.

 

L’antica mente sol di lui riserba.

Or che farà l’afflitto trasformato?

Rivedrà la sua reggia alta e superba,

Tra’ suoi regj parenti in quello stato?

O quivi pascerà le ghiande e l’erba,

Fra mille dubbi e morti imprigionato?

Misero lui! Né quel né questo agogna;

Questo il timor non vuol, quel la vergogna.

 

Mentre fra sé col non perduto ingegno

Trovar pensa al suo mal pur qualche scampo,

Fu sentito dai cani, e ne dier segno

Col solito latrar Tero e Melampo.

Fa, vinto dal timor, tosto ei disegno

D’uscir del bosco in ben aperto campo;

Che’ sì leggier si sente esser nel corso,

Che non pensa trovar miglior soccorso.

 

Pensa forse avanzar tanto nel piano,

Che i can debbian di lui perder la vista,

E poi salvarsi in Ermo più lontano;

Così perdendo il bosco, il campo acquista:

Ma gli uscirà questo disegno vano,

Che’ già del folto esce una turba mista

Di cani, di cavalli e cacciatori,

Empiendo il ciel di strida e di romori.

 

Acquista il cervo, per quella campagna,

E mostra aver la gamba più leggiera.

I veltri, turchi, d’Italia e di Spagna,

Son men discosto alla cacciata fera:

Di Corsica i can grossi, e di Bertagna,

Fan dopo i veltri una più grossa schiera:

Son quei che ‘l sentîr pria, più lungi e stanchi,

I bracchi della Marca e i livrer Franchi.

 

Scorre il veloce cervo e valli e monti,

E salta fossi e macchie, e passa via;

Per linea retta i can veloci e pronti,

Gli corron sempre a traversar la via.

Il passar spesso di fossi e diponti,

Tien molto a dietro la cavallerìa;

Gli equestri cacciator non son sì presso,

Perché impedita è lor la via più spesso.

 

Colui che più vicin segue la traccia,

Siasi sorte o giudicio, o il destrier buono,

Per far sapere a gli altri ov’è la caccia,

Da’ fiato al corno, e fa sentire il suono.

Quei che non sanno ove voltar la faccia

Per la distanzia, che infiniti sono,

Che’ ‘l vario corso gli ha sparsi d’intorno,

Si drizzan tutti ove gl’invita il corno.

 

Già il cervo preso avea tanto vantaggio,

Che non era lontan forse a salvarsi;

Ma venne l’infelice in quel vïaggio

In due sui gentiluomini a incontrarsi,

Ch’avean del mezzodì fuggito il raggio

In quella parte ove ora eran comparsi,

Che nel cacciar di prima eran perduti

Dagli altri, al maggior caldo ivi venuti.

 

Or mentre a riposarsi erano all’ombra

Sul mezzogiorno i lassi cavalieri,

Quel gran romor l’orecchie loro ingombra

Di can, di cacciatori e di destrieri:

Subito l’uno e l’altro il bosco sgombra

Coi freschi veltri a lassa atti e leggieri,

Che si sforzan sentendo gli altri cani

A più poter d’uscir lor delle mani.

 

Quei veltri con gli orecchi alti ed intenti

Dan più scosse or da questo, or da quel canto;

E fan gemendo certi lor lamenti,

Con certo flebil suon, che mostran quanto

Han voglia d’ire a insaguinare i denti

Nell’animal, ch’ancora è lungi alquanto:

Ma quei cacciator pratichi ed accorti,

Per far lassa miglior, gli tengon forti.

 

Giammai nel volto all’animal cacciato,

Quando incontro ti vien, non dèi far lassa,

Perch’egli sguinza lo scontro da un lato,

E scorrer lascia il cane, e innanzi passa.

Il veltro dal grand’impeto sforzato

Non può tenersi, e trasportar si lassa,

E la fugace belva acquista molto

Prima che possa il can voltarle il volto.

 

Ora ecco il cervo affaticato e lasso

Con debil corso e con la lingua fuori,

Che giunge al tristo e sfortunato passo,

Dove l’attendon quei due cacciatori.

Egli, che gli conosce, affrena il passo,

E ferma gli occhi in quei suoi servidori;

E detto avrebbe, s’avesse potuto,

Il signor vostro Io son, datemi ajuto.

 

Ma le parole mancano alla mente,

E non può esprimer fuor quel che vorrìa:

In vece di parlar, gemer si sente;

Pur a’ suoi servi il suo gemito invìa.

Quei, che ‘l veggon fermato, immantinente

Gli van di dietro, e i can lascian gir via.

Il cervo, che lasciarsi i veltri vede,

Affretta più che può lo stanco piede.

 

E per quei luoghi, ov’egli avea seguìto

Più volte fiere assai, vien seguìto esso:

Ma già si vede il corso aver fornito,

Ch’è stanco, e i freschi veltri ha troppo appresso.

Ecco nel fianco l’ha Tigri ferito,

Licisca in una orecchia il dente ha messo;

E l’han già inginocchiato al suo dispetto,

Stracciando a più poter l’ignoto petto.

 

Quivi intanto arrivâr su i lor cortaldi

Quei che lasciaro i can poco lontano;

E pajon ben volenterosi e caldi

Che ‘l cervo ucciso sia per la loro mano:

Giunti nol toccan già, ma stando saldi

Tutti cercan con gli occhi il monte e ‘l piano;

E questi e quegli Atteòn chiama e grida,

Acciò ch’Atteòn sia che il cervo uccida.

 

Il cervo al nome suo leva la testa,

E par che dica: Io son, dammi soccorso.

Ma l’uno e l’altro cantanto il molesta,

Ch’a lor si volge, e placar cerca il morso.

Questo e quel cacciator gridar non resta,

E far segno al signor ch’affretti il corso,

Al lor signor, che già credon scoprire

Fra quei che di lontan veggon venire.

 

Giunge intanto dei can la prima schiera,

Dei presti veltri affaticati, e ingordi

Di far sul dorso alla cacciata fera

I musi lor insanguinati e lordi:

Ei, che non ha la sua favella vera,

Gemendo prega i can spietati e sordi,

E inginocchiato a lor si raccomanda,

Volgendo il volto a questa e a quella banda.

 

Questo e quel di quei due diventa roco,

E si duol che ‘l signor non è presente;

Né può gustar di quel piacere un poco,

Di sì degno spettacolo nïente.

Ma il miser, che non è fuor di quel loco,

Ne vorrebbe del tutto essere absente,

Che’ vede esser per lui spettacol tale,

Ch’altri gusta il piacere, ei sente il male:

 

E tanto più ch’ogni altro cane è giunto,

E par che mordan tutti quanti a prova;

Né più si vede nel suo corpo un punto

Da poter darvi una ferita nova:

Così Atteone alfin steso e defunto

Dai cacciator, che giungono, si trova:

E così vendicata esser si dice

Le Dea contra quel giovane infelice.

 

Per questo in gran romore il mondo venne

Per la gran crudeltà che usò Dïana;

E la parte maggior conchiuse e tenne

Che fu troppo crudele e inumana.

Non mancò già chi ‘l contrario sostenne,

Che’ per servarsi ed incorrotta e sana

La fama d’esser vergine e sincera,

Doveva in quel castigo esser severa