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1553  

LUDOVICO DOLCE, Le Trasformazioni. Gabriele Giolito, Venezia, 1553

Canto Sesto

 

Il nipote meschin, detto Atheone:

 

Che trasformato in fugace Cervo

Fu lacerato dai suoi propri cani:

Ma, come haver potea cor si protervo,

Chi lo cangiò da tutti i membri umani?

Se lui  solingo e senza amico o servo,

Condusse il caso per boschetti e piani

A veder troppo? Ne dirò peccato,

Quando per imprudentia ha l’uomo errato.

 

Già quel, che sempre fugge, e sempre riede,

Com’era prima, con distanze eguali

Da l’eterno camin, ch’in giro fiede,

Dispensava la luce a li mirtali;

Quando Cadmo gentil carco di prede

(Ch’in caccia occisi havea molti animali)

Essendo di sudor già colmo e stanco,

Volse posar l’affatigato fianco.

 

Onde fatto levar a suoi compagni

I tesi lacci, e le nodose reti,

E differir i suoi cari guadagni

Fin, che scopria l’Aurora i campi lieti;

Non volendo, ch’alcun più l’accompagni,

Semplice, e co’ pensier gioiosi e queti;

Giva cercando, ove piu dolce il sonno

Ombra e strepito d’acqua invitar ponno.

 

Era fra due Montagne un’ampia valle

Tutta d’aguzzi Pini, e di Cipressi,

Che lasciando fra loro angusto calle

Parea, che fosser d’una forma impressi.

Quivi, quando talhor volgea le spalle

Al suo bel cinto, o a boschi folti e spessi

D’altro amato da lei luogo, solea

Spesso venir la cacciatrice Dea:

 

Ove fatta non gia da humana cura

Quasi nel fine una spelonca giace;

Però, ch’immitò l’arte la Natura

Di lei miglior maestra e piu efficace.

Ella di vivo pomice a misura

Formato un’arco havea largo e capace.

Corre a la destra man tra verdi sponde

Un fonte con soavi e luci d’onde.

 

Tosto, che’l luogo a lei gradito vede,

Rivolse prima in ogni parte il guardo:

poi l’Arco d’oro a una sua Ninfa diede,

E parimente la Faretra e ‘l Dardo.

Due le scalzaro l’uno e l’altro piede,

Altre al trar de la gonna hanno riguardo.

Questa le chiome in un bel groppo annoda,

Bench’ella haver le sue disciolte goda.

 

E nel suo vago corso il sacro rio,

Ove intorno ogni fior lieto si specchia,

Rende si dolce e grato mormorio,

Ch’invaghisce del suon ciascuna orecchia.

Quivi di rinfrescar caldo desio

Torse Diana: e, come usanza vecchia

Havea, l’esercitate membra il giorno;

Però, che dal cacciar facea ritorno.

 

Tolgono alcune in larghi vasi l’onde,

E poi le spargon leggermente sopra

Il bel corpo, che drappo non asconde,

Ogn’una a prova il grato ufficio adopra.

Mentre le ninfe tacite e gioconde

Attendevano ignude a la bell’opra;

Ecco Atheone a la Spelunca arriva

Tratto dal ciel, che la sua morte ordiva.

 

Rimaser tutte a l’apparir di questo

Attonite le Ninfe: onde gridando

Si posero a la Dea d’intorno presto,

Quella co i corpi lor meste occultando.

Ma, quantunque nascoso fosse il resto,

Diana, ch’è maggior, tutte avanzando

Infino al collo; si raggira, e viene

A non scoprir di lei, fuor che le rene.

 

Poi volge a dietro il viso; e tale apparse,

Qual prima, ch’esca a l’Orizzonte il Sole,

Inanzi al suo bel Carro dimostrarse

Versando rose e fior, l’Aurora suole.

Prese de l’acqua, ed ambe man la sparse

Nel viso ad Atheon con tai parole.

Poi, ch’adoprar non posso arco e saetta

Hora, quest’acqua fia la mia vendetta.

 

Tu, se potrai, racconta avermi vista

Lavarmi ignuda in queste lucide acque.

Qual di temerità premio s’acquista,

Saprai tra poco: e cosi detto, tacque.

Disusata virtù nell’acque mista

Fece, ch’in testa al giovinetto nacque

L’un corno el’altro di vivace e strano

Cervo; e levolli il primo aspetto humano.

 

Lungo il collo divien, l’orecchie acute,

Piè le braccia e le man, lunghi e sottili.

Vestì macchiato pelo e spoglie irsute

Le carni, che fur pria bianche e gentili:

e non, ch’in cervo si trasformi e mute,

(Che non restano in lui segni virili)

Ma gli si aggiunge ad un con la prestezza

La nativa paura e timidezza.

 

Fugge Atheon lungo le belle sponde,

E che si presto sia si maraviglia:

Ma vedendo le corna a le chiar’onde,

tutto pien di stupor chinò le ciglia.

Volea gridar oime: ne corrisponde

La lingua: e tal di cio dolor ne piglia,

Che poi, ch’altro non puo, sospira; e fuore

Versano gliocchi lacrimoso humore.

 

Con la mente, che sol gliera rimasa

D’human, discorre, e ben non si risolve.

Se debba riveder la Real casa,

O ne le selve star, nel petto volve.

Vergogna gli have ogni baldanza rasa

Di girne a quella, e d’indi lo rivolve;

Poi di ridursi entro le selve teme:

Così vario pensier l’alma gli preme.

 

Mentre dubbia fra se, Melampo e Thero

Suoi fidi cani; e Canace e Ladone,

E Droma e Tigre, e Thoo presto e leggero,

Et altri, che n’havea molti Atheone;

Vedendo quel meschin, crudele e fiero

Ciascun l’assalta; e ’l misero patrone

Vanno seguendo con veloci passi

Per rupi, scogli, e discoscesi sassi.

 

Per quelli istessi luoghi, onde seguio

Le fere, egli fuggia pien di timore

Non solo de’ suoi can l’asslato rio,

ma questo e quel suo servo e cacciatore.

Volea dir: conoscete, ch’io son

Atheone, Atheon vostro Signore.

Ma ne parole piu, ne lingua havea

Pronta e spedita a dir quel, che volea.

 

Di gridi sona e di latrati il cielo:

gia sono i cani e i cacciatori appresso.

Un lo morde a la schiena; e carne e pelo

Ne leva; e tieni il fero dente impresso,

Altro nel fianco, altro l’aguzzo telo

Fige nel collo, altro l’assalta spesso

O ne la destra, o ne la gamba manca,

e loco homai per le ferite manca.

 

Geme quello: e se d’huom non forma suono,

Non però sembra voce d’animale.

Ma poi, che non ha più braccia dono,

Volge la testa verso a chi l’assale:

E lor dimostra addimandar perdono

Con le ginocchia chine; ma non vale;

Che la man, che dovrai porgerli aita

De’ servi, il fere, e l’un l’altro ne invita.

 

Essi Atheon, com’egli fosse assente,

Chiamano spesso, e lui cercando vanno:

Ilqual si duol che troppo era presente

Per le piaghe, che infino al cor gli vanno;

Et al suo nome languido e dolente

Inalza il capo. I servi, che non sanno,

Lo bramano a la preda. Egli a vedella

Esser miser vorrai, ma non gia quella.

 

Non vorrebbe sentir lo stratio fiero

De’cani, la cui torma era infinita:

I quai si pronti a quanto era mistero,

Gli fur ne l’opra per suo mal gradita.

Ne si satia quel cor sdegnoso altero

Di Delia; senon, quando esser finita

Intese d’Atheon per mille e mille

Piaghe la vita in quelle alpestre Ville.

 

Nacque vario parer tra chi l’udiro:

troppo cruda ad alcun sembra la Dea;

Ne parve degno di si gran martirio

L’incauto, che di cio nulla sapea:

Gli altri poi, che ‘l contrario ne sentiro,

Diceano, che gran biasimo si potea

Recare a Delia, ch’alcun si trovasse

Ch’averla vista ignuda si vantasse.