Acefr08

1563

GIUSEPPE OROLOGGI, Annotazioni a Le Metamorfosi di Ovidio ridotte da Giovanni Andrea dell’Anguillara in ottava rima, Venetia 1563, Annotatione del terzo libro

 

Mi nome è Acete, e del popolo Tirreno

A Memoria mi dier bassi parenti,

Ch’oro non mi lasciar, nè men terreno,

Nè lanigeri greggi, ò grossi armenti,

Quando il mio pover padre venne meno,

Ch’andò à torvar le trapassate genti,

Altro non mi potè del suo lasciare

Ch’un hamo, et una canna da pescare.

 

C’hebbe del mondo anch’ei, sì poca parte,

Che col pescar so sostenea la vita,

Le rendite, c’havea, era quell’arte,

E disse quando fè da noi partita,

Altro non posso herede mio lasciarte

Che questo, el’hamo, e la canna m’addita.

Altro da me non s’ha, né si possede:

E te ne faccio volentieri herede.

 

Mi lasciò l’acqua anchor, si ch’io n’avessi

In tutto ii tempo et là vita mia

Da bere, e da pescar quant’io volessi,

A par di qual si voglia huomo, che sia,

L’hamo, e la canna mi mancaro anch’essi,

Ch’un giorno un fiume me gli portò via.

Tal che sol l’acqua, perche vive eterna,

Posso chiamare heredità paterna,

 

Ond’io, che da vil animo tenea

D’essercitar nuovo hamo, e nuova canna,

conoscere volli la Capra Amaltea,

Arturo, et la corona d’Arianna;

Quale stella è benigna, e quale è rea,

Qual rasserena il cielo, e qual l’appanna:

Dei venti, ove Pavonio, ou’ Euro alberga,

Qual sia destro a nochier, qual lo sommerga.

 

Così l’arte sottil del navigare

Appresi, e corsi io v’ho tanti perigli,

Ch’era meglio per me starmi à pescare,

Con la povera mia consorte, e figli:

Hor quel, che sì gran Dio fammi adorare,

Onde tanto tu sol ti maravigli,

Un gran miracol’è, ch’egli fatt’have

Innanzi à gli occhi miei ne la mia Nave.

 

Havendo una mattina il egno sciolto

Da Smirnia per andar infino à Delo,

la sera io vewggo un nembo oscuro, e folto,

Che mi nasconde d’ogni intorno il cielo;

A l’Isola di Scio lanimo volto,

Non mi fidando in questo ombroso velo:

E lego laccio in arena sicura,

Fin ch’un giorno più lieto m’assicura.

 

 

Poi come a fanciulla di Titone

Discopre a noi le sue ghirlande nove,

E sopra i frutti di questa stagione

Per ben nutrirgli la ruggiada piove,

E chiama à gli esserciti le persone,

Altre al remo, altre al rastro, e altre altrove

Mi levo, e’l ciel riguardo d’ogni intorno,

Come prometta à noi propitio il giorno.

 

Vedendo il ciel, che mi fa certo segno,

C’havrem propitio il vento, e chiaro il raggio

D’Apollo, io chiamo i compagni su’l legno

Per voler seguitare il mio viaggio;

Ecco mena un fanciullo illustre, e degno

Ofelte, un de’ compagni, che meco haggio:

E m’accenna con l’occhio, e vuol, ch’io il veda

E che gli approvi cosi nobil preda.

 

Mi dice pian, ch’in un campo deserto

Sol ritrovollo, e che’l vuol menar via,

Come in lui fermo l’occhio, io tengo certo,

Ch’un divin Nume in quel fanciullo sia.

Quanto piu il miro, piu palese, e aperto

M’appar de la celeste monarchia.

E dissi loro, un divin Nume il credo,

Gli è certo un divin Nume à quel, ch’io vedo.

 

E volto à lui col viso humile, e chino,

Gli dissi in atto honesto, e riverente,

Porgi favore ò spirto almo, e divino

A la nostra a divota, e buona mente,

E fa, ch’à salvamento il nostro pino

Ci guidi à riveder la nostra gente,

E à costro perdona, che t’han preso,

Se non ti conoscendo, t’hanno offeso.

 

Prega Acete per te, quanto vuoi,

mi disse un, ch’era Ditti nominato:

Nè ti curar di pregar più per noi,

Che già quel, che vogliamo, habbian pensato.

Di questo huom’ non fu mai, nè sarà poi

Più destro, più veloce, e più lodato

Nel gir sopra l’antenna in su la cima,

O calar per la corda, ov’era prima.

 

Questo Libi approvò, questo Melanto,

il medesimo conferma Alcimonte:

E da me in fuora, il resto tutto quanto

Ha il pensier volto à le bellezze conte,

Gli prese in modo quel bel viso santo,

Gli occhi lucenti, e la benigna fronte,

Gli accese tanto quel divin splendore,

Ch’arser di lui di disonesto amore.

 

Io, cui cosa parea profana, et empia,

Dissi: Non soffrirò, che’n questa nave,

Dov’ho la maggior parte mai s’adempia

Questo cieco desio, che presi v’have.

Et ecco mi percote in questa tempia

Un pugno, di cui mai non fu il più grave,

Mentre m’appongo, e cerco con mio danno

D’involar quel fanciullo al loro inganno.

 

Colui, ch’alzò ver me l’audace palma,

Havea pria in Etruria alzato il braccio

Contra un col ferro, e gli havea tolta l’alma

E n’era stato condennato al laccio;

Ma non pendè la sua terrena salma

Per gravar i miei guai d’un altro impaccio

Fuggì da birri à me sopra il mio legno,

Et io il condussi meco al Lidio regno.

 

Quell’empia turba tutta in un concorre,

Ch’ebbe il Toscan ragione, e che fe bene

Ch’io vo’ sopra di me quel peso torre,

Ch’à patto alcuno à me non si conviene.

In quel romor par, che si senta sciorre

Dal somo il bel garzon, ch’oppresso il tiene,

Che fin’allhora addormentato, e lento

S’era mostro stordito, e sonnolento.

 

E con piacevol viso à noi rivolto,

Che romor (disse) è questo, che voi fate,

Chi m’ha dal luogo, ov’io mi stava, tolto?

Chi qui condotto? à che camino andate?

Non dubitar, con simulato volto

Gli disser quelle genti scelerate:

Dì pur dove vuoi gir, prendi conforto,

Che per gradirti prenderem quel porto.

 

A l’Isola di Naso andar vorrei,

Disse egli, ove è la patria, e’l regno mio.

Giuran quei traditor per tutti i Dei,

Che daran tosto effetto al suo desio.

Sapendo i lor pensieri malvagi, e rei,

Di no’l voler soffrir penso allhor’io:

Ma di quel pugno intanto mi ricordo,

E fa, che resti anch’io con lor d’accordo.

 

Io già per gire à Nasso havea voltato

A quel camin lascelerata proda,

E con vento men già soave, e grato:

Ma Ofelte intento à la biasmevol froda,

Mi dice, ch’io mi volga a l’altro lato,

Non si forte però, che’l garzon l’oda.

Bisbiglia altri à l’orecchia, altri m’accenna

Ch’io volga altrove la bugiarda antenna.

 

Io, che veggo l’ingame intentione,

Ch’ingombrar lor la vitiosa mente;

E tutti haver l’instessa opinione

Verso il fanciullo credulo, e innocente,

Mi lievo da la guardia del timone

Contra il voler di tutta l’altra gente.

Non piaccia à Dio, diss’io, ma’l dissi piano

Ch’à si nefando vitio io tenga mano.

 

Ogn’un mi biasma, e dice villania.

Fra me pian pian me ne lamento, e doglio.

Verso il timone alhor Libi s’invia,

E dice à gli altri, Io questa cura toglio.

Par ben, che senza lui sforzato sia

Questo legno à ferir in qualche scoglio;

Par ben, che vaglia ei sol per tutti nui,

S’ogni speranza habbian fondata in lui.

 

Cosi sopra di se prese la cura

Di cndurre il navilio in qualle parte,

Dove pensavan di goder sicura

La nobil preda, e Nasso andò da parte.

Finge il fanciullo alhor d’haver paura,

Piangendo con hel modo, e con grand’arte

Guardò per tutto il mare, et in lor fisse

Le ruggiado luci, e cosi disse.

 

O naviganti, dove andate adesso?

Dove volete voi condurre il legno?

Non è questo il camino à me promesso,

Non è questa la via, che và al mio regno.

Che honor vi fia, s’un timido, e dimesso

Fanciullo senza forza, e senza ingegno

Voi giovani ingannate? che s’un solo

Vincete, essendo voi si grosso stuolo?

 

Questo dicea con cosi caldo affetto

Bacco (che Bacco era il predato Dio)

Cìhavria mosso à pietà Megera, e Aletto

E il Re di Stige, e de l’eterno oblio.

A à me fe in modo intenerire il petto,

Che fui sforzato à lagrimare anch’io

Ride la turba iniqua, empia, e perversa

Del pianto, che’l mio viso stilla, e versa.

 

Il nostro legno havea contrario il vento

Per voler gire al destinato loco,

E senza vela con grand’ira, e stento

Co i remi andava via per qualche poco.

Hor per quel sommo Dio fo giuramento

Che dal ciel lancia il formidabil foco,

Di voler dirti d’una cosa il vero,

Ch’eccede il creder d’ogni human pensiero.

 

Eccede il creder si del basso mondo,

Ch’à raccontarlo la mia lingua pave.

In mezzo al mar pii alto, è piu profondo

Non altramente si fermò la nave,

Che se toccasse co’l suo fondo il fondo

Del mare, e fosse ben di merci grave,

Fan co i remi per moverla ogni prova

Quei marinari esperti, e nulla giova.

 

Non lor giovando i remi, i naviganti

Alzan la vela, indi si snoda, e tira:

Pongon l’antenna à squadra poi dinanti

A quella parte, donde il vento spira,

Ma non movon Sirocchi, nè Levanti,

Se ben l’antenna à lor si volta, e gira,

Quel legno; ma sta saldo al lor orgoglio,

Come farebbe in mezo al mar un scoglio.

 

Par, che’al fondo del mar congiunto stia

Quell’immobil navilio con un chiodo.

L’hedera sacra al gran signor di Dia

Serpi (come volle ei) quel legno in modo,

Che tuti i remi in un legati havia

Con un tenace, e indissolubil nodo.

L’arbor, l’antenna, indi la vela asconde

L’herba, e l’adorna di corimbi, e fronde.

 

 

Tutto il legno afferrar l’edere intorno,

Come à l’offeso Dio di Thebe piacque,

E di pampino, e d’uva il capo adorno,

Che non so come in quel navilio nacque.

Fa con un’hasta à tutti oltraggio, e scorno

E ne sforza à saltar molti ne l’acque:

C’havea d’intorno à lui diverse fere

Orsi, Tigri, Leon, Pardi, e Pantere.

 

Medone il primo fu, che cominciasse

A perder il suo primo aspetto vero,

A che la spina, e gli homeri incurvasse,

E che solcasse il mar veloce, e nero.

Ditti, perch’un Leon no’l divorasse,

Per una corda andò presto, e leggiero.

Fin che giunse à l’antenna in su la cima:

Ma non vi potè star come fea prima.

 

Ch’à pena in cima de l’antenna giunge,

Che si vede nel corpo entrar le braccia.

E l’una gamba à l’altra si congiunge,

E cade al fin nel mar con nova faccia

Miro intanto il Toscan, che non m’è lunge,

E quella man nel corpo se gli caccia,

Che mi percosse, e v’entra infino à l’ugna,

E sicuro mi fa da le sue pugna.

 

Dal banco, dove Ofelte al remo siede,

Pensa levarsi per saltar ne l’onda,

E quando vuole alzare il destro diede

Per porlo sopra l’infrondata sponda,

Unito, e giunto al piè sinistro il vede,

Gli manca un piè, nè sa dove s’asconda,

Coda esser vede la sua parte estrema

A guisa d’una Luna quando è scema.

 

Libi volendo dir, che gli era appresso,

Chi t’ha tolto il tuo piè? dove s’asconde?

Vede aguzzar de la sua bocca il fesso,

E sente; che’l parlar non gli risponde.

S’ascolta, et ode un suon muto, e dimesso,

Che la pronuntia ogn’hor più gli confonde,

Il naso poi, mentre ei doler si vuole,

Cresce, e la bocca asconde, e le parole.

 

Cridar colendo anchora Alcimedonte,

Oime, voi vi cangiate, ò strano caso,

Sente di dura squama armar la fronte,

E’l suo parlar coprir da novo naso.

Ma, che bisogna più, ch’io vi racconte?

Di venti io solo Acete era huom rimaso;

E teneva ancor’io, che’l mio destino

Non mi facesse diventar Delfino.

 

Dapoi, che tutti trasformati foro,

E fur per tutto il mar divisi, e sparsi,

Io temendo, e l’andar mirando, e loro,

Hor sorger gli vedeva, et hor tuffarsi,

E mi faceano intorno al legno un choro,

Nè sapean dal secco albero scostarsi,

E lascivi vedeansi diportare,

E’l loro naso innaffiar col mare il mare.

 

E per quel, che da molti ho poi sentito,

Incontran lieti hor questo, hor quel naviglio,

E se veggon un legno in mar sdruscito,

Cercan gli huomini trar fuor di periglio,

E su’l lor dorso quei portano al litio:

Ma d’una cosa più mi maraviglio,

C’hamano anchor, se veggono un fanciullo.

Goder del fanciullesco lor trastullo.

 

Stupido io stavo, e tremante,

Colmo di maraviglia, e di paura,

Quando quel Dio mi fe si allegro amante,

E disse, Non temer, ma prendi cura,

Ch’io possa sopra Dia fermar le piante.

E cosi à pena alquanto ,’assicura.

Snodo le vele, senza hedera al vento,

E guido Bacco à Dia lieto, e contento.

 

E s’havete signor vedute voi

Ogni huomo in quel navilio trasformato,

Ch’io seguitassi i sacri riti suoi,

Non vi sareste si maravigliato.

Volea contar’ anchor, come dapoi

L’havea per tutto, e sempre seguitato,

E quel, che in ogni parte gl’intervenne,

Fin che con Bacco à Tebe se ne venne.