1553
LODOVICO DOLCE, Le Trasformazioni, in Venetia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari e fratelli, Canto settimo
Appresso al prigionier morte minaccia
Con fiero sguardo, e parlar aspro e rio.
Esso con lieta e con sicura faccia
Disse. Sappi, che Acete è il nome mio.
M’accio, che pienamente io sodisfaccia
Senza dirti menzogna, al tuo desio;
nacqui in Thoscana tra le basse genti
D’humili e poverissimi parenti.
Il padre mio, che sempre opera diede
Da picciolo fanciullo a reti et hami
Sì, che d Arno giamai non torse piede
Sciolto da tutti quanti altri legami;
non mi lasciò di grassi campi herede,
o d’altro, che piu il volgo apprezzi et ami;
ma de l’onde, ch’io dico, e in larga parte
(Quel, ch’imparai) de la sua pover’arte.
Ma non piacendo a me di seguitare
Cosa, di che l’affanno era infinito;
Diemmi con ogni studio al navigare,
Cercando hor questo, et hor quell’altro lito;
E fecemi maestro senza pare,
Tal, ch’a pena non fu l’anno compito,
C’hebbe il legno in governo, e lo guidai
Per varii seni, e sempre il conservai.
Avvenne, che tenendo il mio viaggio
A Delo, porto a l’Isoletta presi
Di Chio nel tramontar del solar raggio,
Ove sicur la nuova Aurora attesi:
E sì come Nocchier prudente e saggio,
Feci, ch’alcuni fur nel lito scesi
Per attinger de l’acqua fresca e viva
A punto alhor, che’l Sol di Gange usciva.
In tanto er’io salito a passo lento
Un’erto sasso, per veder d’intorno,
Se’l cielo promettea propitio vento
Da poter navigar tutto quel giorno:
Poi tornando a la Nave, in quel momento
Trovai, ch’i miei v’havean fatto ritorno
Recando l’acqua, e seco un giovinetto,
ch’era di feminil virgineo aspetto.
Questo garzone havea l’aspetto tale,
Che pareva al mirar cosa divina:
Era’l vestir, era l’andar eguale.
E ver, ch’egli tenea la testa china,
Chiudea spesso le ciglia; e parea, quale
Fanciul, ch’assonna; e tardo e mal camina.
Io, che ben m’avisai, ch’ei fosse Dio,
L’adoro, e’l cheggio ne l’aiuto mio.
E lo prego, ch’ancora i falli suoi
A miei compagni, sua mercè, perdoni.
Lascia il pregar (disse Dittéo) per noi,
Ch’a salir su l’antenna er’un de’ buoni,
E per la fune a sdrucciolarvi poi
Si presto, come van folgori e tuoni
Ad ingombrar di noi l’orecchie e gliocchi
Prima, che Giove la saetta scocchi.
Seguiro i detti suoi Libio, e Melanto,
Che de la prora ogni governo cura;
E così Alcimedon, che gliera a canto,
Et Epopeo, che del vogare ha cura.
Ogn’un si dà di quella preda vanto;
E condurla con lui studia e procura.
Non patirò (diss’io) che’l legno offeso
Sia da questo divin celeste peso.
E mi pongo a l’entrata de la Nave:
Quand’un, che di sua patria era sbandito
Per opre inique, scelerate, e prave,
Ch’era homicida, e havea piu d’un tradito,
Diemmi un pugno nel volto: e fu si grave,
Che cadendo, nel mare io sarei gito,
S’a caso non venive a dar di mano
A un fune: e fece il suo disegno vano.
Quell’atto rio, ch’esser dovea biasmato
Con debita ragion da quella gente,
In contrario da tutti fu lodato;
Ch’ogn’un contra di me volse la mente.
Ma Bacco, come alhor fosse svegliato
(Che Babbo io lo conobbi finalmente)
Dimanda la cagion di quel romore,
Ove si meni; e par, c’habbia timore.
Ah (disse Proreo, un’huom tristo et eguala
A lo sbandito) lascia ogni spavento,
Ch’el cor fanciullo indegnamente assale,
E ripiglia la forza e l’ardimento,
Ch’a tutti i luoghi, ove d’andar ti cale,
Ti condurrem, se non ci manca il vento:
Comanda pur, ch’ad ogni tua richiesta,
Havrai l’opra di noi veloce e presta.
Rispose Bacco, s’egli avvien che sia
Conforme il core a quel ch’appar di fuora,
Conducetemi a Nasso patria mia,
Laqual volendo sarà vostra ancora.
Giura ciascun, che’l suo voler faria;
E comanda, ch’io sciolga alhora alhora
Dal lito il legno; e dia le vele a i venti,
Diverso havendo il cor da i giuramenti.
Da man destra era Nasso, a cui volendo
Volger la vela, cessa, Ofelte grida,
Perche tanta sciocchezza in te comprendo?
Ove la pazza tua mente ci guida?
Parea, ch’ogniun di se gisse temendo.
Ma pur tanta perfidia in lor s’annidqa,
Che la parte maggior con mano accenna,
Ch’a la sinistra una torca l’antenna.
Altro la voglia sua rubalda e trista
Mi dice entro l’orecchio: ond’hebbi sdegno
Tal, che la pena lor chiara prevista,
Lasciai del tutto abandonato il legno.
Forse, che non è alcun che ti resista,
Disse uno, o solo è in te nostro sostegno:
E pieno d’ira e di veleno interno
Subito in vece mia prese il governo.
E d’ir altrove ogni sua cura messe:
Lasciando Nasso, e me colmo d’affanno.
Come alhor Bacco conosciuto havesse
L’iniqua fraude, eìl discoperto inganno,
In atto, che parea, ch’esso piangesse,
Ahi, dice, al vento i giuramenti vanno:
Che’l vero manifesto hor mi dimostra
Contrario effetto a la promessa vostra.
Altri liti io vi chiesi, altro terreno,
Altri liti e terren mi prometteste,
Perche venite a la promessa meno,
E rompete la fe, che gia mi deste?
In che v’ho offeso? perche havete pieno
Il cor di crudeltà? voi non dovreste,
Se ben nulla vi cal de’ dolor miei,
Sprezzar l’alto poter de i sommi Dei.
Ne pensate, che men laude v’apporti
Lo haver, essendo voi si grosso stuolo
D’huomini saggi e marinai accorti,
Ingannato un fanciul semplice e solo.
Deh per Dio non mi fate questi torti:
E, se pur me gli fate; io mi consolo,
E spero ancor ne la pietà di sopra,
Che’l premio vi darà conforme a l’opra.
I lamenti m’havean gia sì conquiso,
che n’uscì fuora da quest’occhi il pianto.
Quei mi schernivan con parole e riso;
Rinforzando la voga e i remi intanto.
Vero io dirò, che di menzogna ha viso.
Ma testimon mi sia Bacco di quanto
Io son per dirvi; ch’io non m’allontano
Da quel, ch’io vidi, e ch’io toccai con mano.
Era in mezo del mare a vele piene;
E vogando ciascun, fermossi il legno,
Quale in spiaggia, o ne le secche arene
Tenuto da fortissimo ritegno.
Ciasacun la voga pur sempre mantiene;
E con quanta era in lui forza et ingegno
E con vele e con remi, cerca e prova
Di gire avanti, ne rimedio trova.
A questo io vidi i remi esser avolti
Da remi e foglie d’Hedera seguace,
ED stretti sì, che non gli havria disciolti,
Quanto di forza in mille huomini giace;
E molti d’essi fur serpendo involti
Con torto piede, e man salda e tenace
Ne l’ampie vele, ancor gonfie et aperte,
Fin, che di quà di là l’hebber coperte.
Alhor si vide il garzon soprahumano
Haver d’Uve e di Viti il capo adorno.
Teneva un’hasta ne la destra mano
Di pampani coperta e cinta intorno:
E poscia con feroce aspetto strano
(Ch’io non ne vidi mai, senon quel giorno)
Lo circondar Tigri spietate e fere,
E di vari color Lonze e Panthere.
Subito par saltar del legno fuore
Si mosse l’empia turba e mal condotta;
O, che cagion di cio fosse il furore,
O che ve l’inducea forse la dotta.
Un di quelli vid’io cangiar colore,
E piegarsi, com’arco. O (disse alhotta
Licabo) come avien, che ti trasforme
Prendendo nove e non più viste forme?
Mentre, che cosi parla, ecco a se stesso
Slungar la bocca, et ecco divenire
Schiacciato il naso: ecco novella appresso
E dura squama il busto ricoprire.
Libo s’affanna, e’l ciel bestemmia spesso,
ch’qad ogni modo inanzi volea gire.
Ma branche diventar le mani in breve,
E tutto il corpo suo spedito e leve.
Un altro, che colea pure apprapparsi
Ad una fune, e corre in su la proda;
Senza braccia nel mare hebbe a trovarsi
V’ezzolso pesce, e con falcata coda.
In fine ad uno ad un tutti mutarsi
(Io non credo, ch’ugual miracol s’oda)
In Delfini, et cerchio su per l’onde
Guizzano: altro si mostra; altro s’asconde.
Biancheggia intorno lor l’acqua spumosa,
Che versan poi per le narigie fuori.
Cosi di quà di là vaga e festosa
La nova turba fa diversi cori.
Io con pallida fronte e paurosa,
Quasi vedendo in altri i miei dolori,
Di lor, che venti fur, solo restava:
Onde da capo a piè tutto tremava.
Ma Bacco alhor con parlar grave e basso
Racconfortommi’l cor, lieto dicendo,
Ch’io drizzassi la prora in ver di Nasso.
Ond’io la dritta via subito prendo.
Com’io vi giungo, ogn’altra cosa lasso,
E a sacrifici suoi del tutto attendo:
Ne questi mai d’abandonar mi piacque,
E cosi detto, il buon Thoscan si tacque.
Piacemi (disse Péntheo) havere atteso
A la tua lunga favola; ch’intanto
Doppia forza e maggiore ha l’ira preso,
Che forse non saria cresciuta tanto.
Onde ti sia del tuo peccato reso
Il castigo maggior, piu largo il pianto.
Quinci comanda a suoi, che fieramente
Sta tormentato, et arso il dì seguente.
Cosi fu posto in parte oscura e forte,
Per far di lui spettacolo e le genti.
Ma mentre s’apparecchia a la sua morte
Il ferro, il foco, e gli altri rei strumenti,
Da se stesso s’aprir le chiuse porte.
O, quanto son le man di Dio possenti;
Che spezzate e ritorte, e ceppi, e mani,
Furo i disegni lor fallaci e vani.
Non per questo il crudel punto abandona
L’iniqua impresa; ne vi manda alcuno:
Va nel Monte Cithereo egli in persona
Là, dove a i sacri offici era ciascuno.
Quivi pien di furor fulmina e tuona
Con occhio torto, e guardo oscuro e bruno:
Cotale a l’arme, quando il suono intende,
Animoso Caval tutto s’accende.
Come il suon, che d’intorno il ciel percuote
De la turba, che vede, ovunque mira,
I gridi, i canti, e le diverse note
Infiammarono in lui da capo l’ira.
Laquale a dir, quanto mai seppe, o pote,
Detti pieni d’horror la lingua tira:
E sì la porta l’impeto, che vuole,
Che confonde gli accenti e le parole.
Giace nel Monte un spatioso piano
Netto così, che non v’è ramo o pianta;
Ove la gente e’l buon popol Thebano
In lode del gran Dio festegia e canta.
Quivi nel rimirar l’occhio profano,
Che tutto ardea, la cerimonia santa,
Fu da la madre Agáve, che la cima
Di quel monte tenea, veduto prima.
E mossa dal furor, come havesse ale,
Col Tirso in man a lui si lancia sopra;
E disse a le sorelle. Se vi cale
Di nostro honor, se far lodevol opra;
Uccidiam questo fier brutto Cinghiale:
Ne solamente Agáve hora s’adopra;
In esortar le sue Sirocchie altere,
Ma prima ella il figliuol percote e fere.
Ella fu prima a insanguinar le mani
Nel figlio, ch’un Cinghial lo giudicava.
Ei con dolci parole et atti humani
Confessando il suo error, pietà gridava.
Ma, come l’huom, ch’a paesi lontani
Ne va, se il troppo caminar li grava,
Posa a l’albergo; cosi, come soglio,
Posar la mano affaticata i voglio.