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Sec. I d.C.

PUBLIO OVIDIO NASONE, Metamorfosi, III, 572-700

Testo tratto da: Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, traduzione a cura di Bernardini Marzolla P., Einaudi, Torino 1994

 

Ecco che i servi tornano, tutti graffiati, e quando il loro sovrano chiede dov'è Bacco, rispondono che Bacco non l'hanno visto. «Però - dicono - abbiamo catturato questo suo seguace e inserviente», e spingono avanti un uomo con le mani legate dietro la schiena, un tirreno che si era messo al seguito del dio.

Penteo lo squadra con occhi che l'ira rende tremendi, e benché smani dalla voglia di punirlo seduta stante, dice: «O tu che ora morirai e che con la tua morte servirai da esempio per gli altri, di' come ti chiami e come si chiamano i tuoi genitori, e di dove sei, e perché segui questi riti di nuovo conio». Quello ri­sponde, per nulla intimorito:

«Mi chiamo Acete, sono della Meònia, e i miei genitori erano povera gente. Mio padre non mi ha lasciato campi da lavorare con duri buoi, non mi ha lasciato greggi lanute, o insomma del bestiame. Era anche lui un poveraccio, e usava accalappiare col filo e con l'amo i pesci guizzanti, e tirarli su con la canna. Quel mestiere era tutta la sua ricchezza; tramandandolo a me, mi disse: "Prenditi, erede mio e mio successore nel lavoro, i beni che ho", e morendo non mi lasciò nient'altro che le distese d'acqua. È questa l'unica cosa che posso dire di avere avuto da mio padre. Ora io, per non stare sempre attaccato agli stessi scogli, mi misi a imparare come si gira il timone di un'imbarcazione, regolandolo con la mano, e m'impressi bene negli occhi la costel­lazione piovosa della Capra Olenia, e Taigete e le Iadi e l'Orsa, e studiai le case dei venti e i porti adatti allenavi. Per caso, di­retto a Delo, approdo alle spiagge dell'isola di Chio, accosto con i remi di destra, spicco agilmente un salto e mi slancio sull'umida rena. Passata lì la notte, l'aurora ha appena cominciato a rosseggiare, che mi levo e comando agli altri di andare a prendere acqua fresca, indicando loro la via per trovarla. lo rimango a scrutare da un'altura che cosa mi prometta il vento, poi richiamo i compagni e torno alla nave. "Eccoci qui!” grida Ofelte venendo avanti agli altri, e trascina per la spiaggia un fanciullo .e pare una vergine, la preda - così lo chiama - che ha trovato " un campo deserto. Quello sembra barcollare, come stordito dal vino e dal sonno, e seguirlo a fatica. lo osservo l'abbigliamento, l'aspetto e il modo di camminare. Non ci vedo nulla che possa sembrare d'un mortale. Ho questa sensazione e dico ai compagni: "Non so quale dio si celi in questo corpo, ma in questo corpo si cela un dio. Chiunque tu sia, oh aiutaci e assistici nelle nostre fatiche! Perdona anche costoro!" "Per noi puoi risparmiarti di pregare”, dice Dicti, uno insuperabile per velocità nell'arrampicarsi fino in cima all'albero e nel riscivolare giù avvinghiato a una fune. Libi gli dà ragione, gli dà ragione il biondo Melanto, la vedetta di prua, gli dà ragione Alcimedonte, ed Epopeo, quello che incitava l'equipaggio e con la voce scandiva le pause e il ritmo della voga. Tutti quanti gli dànno ragione, tanto la preda li acceca di bramosia. "Ma io non permetterò che su questo legno sia empiamente imbarcato un essere sacro, grido; - chi comanda qui sono io! " E mi pianto sulla passerella per sbarrare l'entrata. Chi s'infuria con più tracotanza di tutti è Licabante, un tale che espulso da una città tirrena scontava con l'esilio un feroce delitto. Costui, mentre mi oppongo, mi fracassa la gola con un pugno potente, e con quella botta mi avrebbe scaraventato in acqua se non mi fossi aggrappato, benché mezzo svenuto, a una gomena, che mi trattenne. L'empia ciurma applaude a quella prodezza. Quand'ecco che alla fine Bacco (Bacco era infatti), come se il chiasso l'avesse ridestato dal suo  sopore e sfumata l'ebbrezza ritornasse in sé: "Che fate? Che chiasso è questo? - dice. - Ditemi, marinai, com'è che mi ritrovo qui? Dove volete portarmi?" "Non aver paura, - risponde Proreo, - e di' a che porto desideri arrivare. Sarai sbarcato nel posto che vorrai". “Puntate su Nasso, - dice allora Bacco. - Là è la mia dimora, quella terra sarà ospitale con voi". Quei manigoldi giurano per il mare e per tutti gli dèi che così sarà fatto, e mi ordinano di sciogliere le vele al dipinto naviglio. Nasso era a destra, e io metto le vele per andare a destra. "Che fai, scemo? Quale pazzia..." mi dice Ofelte. Ognuno è in ansia per sé. " Vai a sinistra" , cercano di farmi capire i più con cenni, altri mi sussurrano nell'orecchio che cosa vuol dire. lo rimango sbalordito e dico: "Che la nave la guidi un altro! " , e mi scarico di dosso e le mie responsabilità di comandante e la responsabilità del misfatto. Tutti m'inveiscono contro e un brontolio serpeggia per tutta la ciurma. Uno, Etalione, dice: "Credi proprio che la sicurezza di tutti noi dipenda da te solo?" e si fa avanti e prende il mio posto e lasciando perdere Nasso punta in un'altra direzione. Allora il dio, prendendoli in giro, come se solo in quel momento avesse capito che lo imbrogliavano" dall'alto della poppa ricurva guarda il mare e fa finta di piangere e dice: "Non è questa, marinai, la costa che mi avevate promesso, non è questa la terra dove chiedevo di andare. Che ho fatto per meritarmi questa punizione? Che prodezza è la vostra a ingannare, grandi come siete, un bambino, a ingannare in tanti uno solo?" lo già piangevo da un pezzo: l'empia schiera se la ride delle mie lacrime e batte l'acqua con remate ancor più frettolose. Ora io ti giuro proprio per quel dio (e infatti non ce n’è uno che sia più presente di lui) che quello che ti racconto è tanto vero quanto sembra incredibile. La nave si arrestò in mezzo al mare proprio come se fosse al secco in un cantiere. Quelli, stupefatti, insistono a battere coi remi, spiegano tutte le vele, e si sforzano di andare avanti, se non con un mezzo, con l'altro. Piante di edera inceppano i remi è serpeggiando in un intrico di volute vanno ad addobbare le vele di grossi festoni. Lui, il dio, con la fronte ricinta di tralci e di grappoli d'uva, agita un'asta fasciata di pampini, e intorno gli stanno accucciate tigri e vuoti fantasmi di linci e corpi felini di leopardi chiazzati. Gli uomini saltarono su, o per il terrore, o perché colpiti da follia, e per primo Medonte cominciò a nereggiare per il corpo e ad incurvarsi, poiché la spina dorsale gli s'inarcava. Licabante gli disse: "Che mostro stai diventando? ", ma mentre ancora parlava già aveva un muso largo e le narici schiacciate, e la pelle, indurita, gli diventava coriacea. Libi, mentre cerca di girare i remi bloccati, vede le proprie mani guizzare indietro e contrarsi, mani che ormai non sono più mani e già si possono chiamare pinne; un altro, volendo allungare le braccia verso le funi impigliate, si ritrova senza braccia e con uno scatto del corpo mutilo si lancia giù in acqua: ha all'estremo una coda a forma di falce, curva come la falce della luna nascente. Da tutte le parti si tuffano, levando grandi spruzzi, riemergono, tornano sott'acqua, e intrecciano una specie di danza dimenandosi voluttuosamente e soffiando via dalle larghe narici l'acqua marina aspirata. Di venti che eravamo poco prima (ché tanti ne portava quella nave), restavo io, io solo. Gelato dallo spavento, tutto tremante, quasi non connettevo, ma il dio mi confortò dicendomi: “Scaccia dal cuore la paura, e in rotta per Nasso!” Sbarcato lì, aderii al suo culto, e così seguo i riti di Bacco».