1553
LODOVICO DOLCE, Le Trasformazioni, in Venetia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari e fratelli, Canto quinto
A la gran cura, al gran’officio intento
Volse il saggio Chiron tutto il suo core,
Riputando minore ogni tormento
Di questo solo a lui concesso honore.
E, mentre, che di cio lieto, e contento
Spendeva il tempo, e comparitva l’hore,
La figliuola, ch’Ociroe nome havea,
In braccio il bel fanciullo spesso prendea.
Ella disprezzando di suo padre l’arte
Di medicina, apprese un’arte ascosa;
Che senza studio a rivoltar di carte,
Indovinava ogni futura cosa.
Un giorno adunque con le chiome sparte
(Come a guisa di pazzia e furiosa)
Ripiena il cor di spirito Divino
Predisse del fanciul l’alto destino.
Cresci dicea fanciul, da cui s’aspetta
Desiata salute a tutto il mondo.
Tu l’anima ad uscir del corpo astretta
Potrai tornar nel suo carcer giocondo.
E’ ver, che colpo al fin d’empia saetta
Torrà la tua; ch’a dirlo il mi confondo:
Ma dopo morte la bontà infinita
Ti farà don d’una perpetua vita.
Indi soggiunse; e tu mio padre caro
Alhor, banche divin, morir vorrai;
Che pel sangue de l’Hidra incendio amaro
Ne le ferite membra sentirai.
Ma non sia di pietade il cielo avaro,
E benigne le Parche troverai;
Ch’ordiscono lo stame de la vita,
E lo troncano poi, quand’è finita.
Ancor volea seguir; ma caldo pianto
Le uscì de gli occhi, e gemito del core:
E disse: Oime, che l’haver detto, quanto
M’ha spinto a dir profetico furore,
Lassa (ch’i nol pensai) m’offende tanto,
Che pii di favellar non ho vigore.
Ben forse il fallo mio non era degno
Da muover contra me celeste sdegno.
Ma, poscia ch’ei dovea tal frutto darmi,
Deh, perche il dono hebb’io d’esser profeta?
Ahi, che lasciar l’humana forma parmi,
E d’esser d’herba destosa e lieta.
Sento in Cavalla homai tutta mutarmi:
E’l cor nel petto mio piu non s’acqueta,
Anzi misera avvien, ch’arda et avvampi
Di gir correndo per gli aperti campi.
Se la paterna forma haver debb’io;
Ce cosi giovi a la mia stella ingrata;
Perch’una parte equina ha il padre mio,
Et esser ne debb’io tutta cangiata?
Qual peccato ho commesso iniquo e rio?
Ahi, che di danno m’è la lingua stata.
Non furo intese ben l’ultime note;
Che le fece altro suon di senso vote.
Prima ne d’huom, de di cavallo intero
Era quel son, ma simile a chi vuole
Finger uno annitrir superbo e fiero,
Ch’in tutto assomigliar però non suole:
Ma finalmente annitrir fu vero.
O quanto il buon Chiron si lagna e duole:
Quanto de l’esser suo tutta si scosse
La figlia, e piedi e man per l’herba mosse.
Le cinue dita una sol unghia indura,
S’allunga il collo, indi la fronte e’l volto;
E di coda serbò giusta misura
Gran parte del vestir, ch’iva sciolto.
Il crin, che parea d’ambra tersa e pura;
Come sparso giacea, negletto e sciolto;
Fu chiome di Cavalla, che senz’arte
Piegar del collo a la sinistra parte.
E cosi rinovò voce et aspetto
Quella infelice, e le rimase il nome.
Se Chiron pianse, e si percosse il petto,
Se fece ingiuria a le canute chiome;
E se gli venne a noia et a dispetto
La vita; lo potrete intender, come
Vi recherete nel pensier l’amore,
Che puo trovarsi in un paterno core.
Piange il giusto Chitone; e nel suo pianto
Indarno a Febo addimandava aiuto;
Però, ch’ei non potea tanto, ne quanto
Romper quel, che’l gran Giove hevea voluto:
E, quando ben potuto avesse, intanto
Esso era altrove umile e sconosciuto:
Perche da l’antro suo molto lontano
Di Messenia abitava il colto piano.