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GIOVANNI ANDREA dell’ANGUILLARA, Le Metamorfosi di Ovidio ridotte in ottava rima, Venezia, presso Giovanni Griffio, II

 

(…)

Sbandito egli dal ciel s'era ridutto

Pastor d'Ameto à guardia del suo armento,

Dove deposta ogn'altra cura in tutto,

Menava i giorni suoi lieto, e contento,

E fu sì saggio, temperato, e forte,

Che visse lieto in così bassa sorte.

 

Con una pelle da pastore intorno,

Con un grosso baston d'olivo in mano,

Se'n va lungo l'Anfriso, ò in quel contorno,

E quando pasce il monte, e quando il piano.

Passa talhor con la sampogna il giorno,

come conviensi al suo stato silvano;

Dando spirto hor à questi, hor à quei fori

Canta i novelli suoi più rozzi amori.

 

Felici quei, che son così prudenti,

Che san col tempo accommodar la vita.

Hor mentre Febo i suoi soavi accenti

Gusta, e 'l suo dolce suon l'alletta, e invita,

Ha sì gli spirti al suo cantare intenti,

Che gli è la guardia sua di mente uscita,

Tanto, che i buoi da lui fuggiti, e sparsi

Stavan senza custodia à pascolarsi.

 

L'acorto Dio de' furti à caso scorge,

Ch'Apollo è intento à disnodar le crome,

E perche 'l ciel l'ha in odio, al furto porge

La man per gravar lui di doppie some,

I buoi gl'invola, e sol di ciò s'accorge

Un canuto pastor, che Batto ha nome.

Questi pascea fra Pilo, e 'l lito Alfeo

L'armento martial del Re Neleo.

 

I buoi Mercurio imbosca, indi si parte,

Et al bosco, et à i buoi volta le spalle;

Ritrova Batto, e tiratol da parte

(Disse) qual tu ti sia, che in questa valle

Guardi una razza per l'uso di Marte

Di sì superbe, e nobili cavalle,

S'habbi ogn'honor dal ciel, quel, c'hai veduto,

Serba dentro al tuo cor nascosto e muto.

 

E per farti conoscer, ch'io compasso,

E ch'io misuro ben l'altrui mercede,

Questa giuvenca candida ti lasso,

In premio, e guiderdon de la tua fede.

Rispose Batto, e dimostrando un sasso

Prima dirà le tue bovine prede

Quell'atra selce, inanimata, e dura,

Che quel pastor, c'hor ti promette, e giura.

 

Il messaggier di Giove per far prova

S'egli è per osservare il giuramento,

Si parte, e si trasforma, e torna, e trova,

Quel, che del don bovin lasciò contento,

E con grand'arte gli dimanda nova

Del pur dianzi da lui rubato armento,

Se tu mi fai pastor del furto certo,

Un toro, et una vacca havrai per merto.

 

Il buon pastor, che raddoppiarsi udio

Il premio di colui, che il furto scopre,

(Disse) in quei monti più silvosi, ch'io

T'addito, il gregge tuo s'asconde, e cuopre,

Quivi starà, fin che 'l notturno oblio

Ne' fantastichi sogni il senso adopre,

Ma come al sonno ogn'un la notte chiame,

Darà la preda al suo paese infame.

 

Rise Mercurio, e disse, ahi mancatore

Di fe, questo è 'l silentio, c' hai promesso,

Che non credendo me l' involatore,

Hai me medesmo accusato à me stesso.

E tratto il primo suo sembiante fuore,

Disse; Guarda, e conosci, s' io son desso,

Dicesti, che 'l direbbe un sasso pria,

Ma non vo, c'habbi detta la bugia.

 

Nero il fa divenir, qual è un carbone,

E sì l' indura poi, ch'un sasso fallo.

Quel sasso il fa, che chiamiam paragone,

Che vero saggio dà d'ogni metallo.

Là dove poi mutò conditione,

Nessun poi tradì più, non fe più fallo,

Disse poi sempre il ver, per quel ch'io veggio,

Per non si trasformar di male in peggio.

 

Lasciato Apollo il suono, l'occhio porge

Dove il gregge pascea, ne vede i buoi,

Dal luogo, ove sedea, subito sorge,

E cerca prima tutti i paschi suoi,

Cerca poscia gli strani, e nulla scorge,

Ben che il tutto trovò poco dapoi.

Seppe il ladro chi fosse, e dove stesse,

Ma non so ritrovar chi gliel dicesse.

 

Il corvo non fu già, c'havea giurato

Nova non dar mai più buona, ne rea,

Poi che 'l bianco mantel gli fu cangiato,

Per quella donna, ch'accusata havea,

Et oltre à questo, Appollo havea lasciato,

Perche sbandito, e misero il vedea.

Che ogni vil servo, perche non n'acquista,

Lascia il padron ne la fortuna trista.

 

Se ben Febo di Dio fatto è pastore,

Non però s'è scordato il trar de l'arco,

Anchor ch'un cappio del nervo habbia fuore

De la sua cocca, e stia disteso, e scarco,

Ma già l' incurva con rabbia, e furore

E tira il nervo in sù, fin che l' ha carco:

Trova Mercurio, e in lui drizza lo sguardo,

E tende l'occhio, la balestra, e 'l dardo.

 

Sì cruda voglia di ferir l'assale,

Che gli fa nel tirar perder la mira,

E manda alquanto à man destra lo strale,

Ond'egli da man manca si ritira,

E par, che dica al dardo, che fa male,

Se non si drizza ov'egli accenna, e mira.

Ma dove ei si drizzò, d'andar non resta,

Per cenni de la mano, ò de la testa.

 

Veduto il primo colpo senza effetto,

À l'arcier novo dardo inviar parve.

Ma Mercurio cangiò subito aspetto,

E si fece invisibile, e disparve.

Come un' aer si fe purgato, e netto,

E di lui più nulla sembianza apparve.

Io non saprei ben dir, che forma havesse,

Che non soffrì, ch'allhora altri il vedesse.

 

Apollo si raggira, e più non vede

L'auttor de l'altrui danno, e del suo scorno,

E gira, e move indarno l'occhio, e 'l piede,

E cerca con gran studio quel contorno,

Ben che Mercurio al fin visibil riede,

E prega, e stagli con tai mezzi intorno,

Che fan la pace, e rende il tolto armento,

E fallo d'un bel don di lui contento.

 

Hebbe Mercurio un perspicace ingegno,

E poco prima ritrovato havea

Un' istrumento più dolce, e più degno

Di quel, che Apollo allhora usar solea.

Questo era un cavo, e ben disposto legno,

Che con nervi ineguali il suon rendea,

Dando un l'accento acuto, un' altro il grave,

Faceano un suono amabile, e soave.

 

Per dimostrar Mercurio in qualche parte

L'animo verso Apollo amico e buono,

Gli diè questo istrumento, e insieme l'arte

Gl'insegnò, che suol far sì dolce il suono.

Questa è la cetra, ch' à l'antiche carte

Die sì sonoro, e dilettevol tuono.

Rendè con questa Apollo esperte, et use

(Onde sì dolce poi cantar) le Muse.

 

Deh suona Apollo la tua cetra, suona

Mentre la Musa mia di te favella,

Dia gratia à quel, ch'ella di te ragiona,

La tua dolce armonia sonora, e bella,

Sì ch'un fiume novello d'Elicona

Tragga la nostra anchor nova favella.

Deh rendi à noi sì le tue corde amiche

Che possiamo imitar le carte antiche.

 

Febo un bastone havea di sua man fatto,

Dov'eran due serpenti incatenati

Con quattro, ò cinque groppi in un bell'atto

Intorno à quel bastone aviticchiati.

Ambi un cerchio facean, ma non à fatto

Verso la testa ov'erano incurvati.

E le teste guardavano à quel punto,

Ch'un semicerchio, e l'altro havrebbe giunto.

 

Donollo à chi già Batto fe di pietra

Lo sbandito dal Ciel novo pastore

Non più per ricompensa de la cetra,

Che, per mostrar l' interno del suo core.

Cosi poi che perdon ciascuno impetra,

E fede acquista al rinovato amore,

Restando ogn'un del suo desio contento,

Questi al ciel si tornò, quelli à l'armento.