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1561

GIOVANNI ANDREA DELL’ANGUILLARA, Le Metamorfosi di Ovidio ridotte da Giovanni Andrea dell’Anguillara in ottava rima, Venezia 1561, Libri II-III

 

Libro II

Il celeste corrier si torna dove

Con desiderio, et ansia l’attendea

Il superno rettor, suo padre Giove,

Che gran bisogno del suo aiuto havea.

Come io ti voglio in ciel, tu fuggi altrove,

Giove, a cui novo amor l’anima ardea,

Disse; deh non haver te tanto a core,

Che’l tuo ponghi in oblio padre, e signore.

 

Mercurio allhor per iscusarsi inparte.

E perché Giove ha gran piacer d’udire,

Quando tal volta egli dal ciel si parte,

L’esito, e la cagion del suo partire,

Volea tutto narrar parte per parte,

Ma Giove, c’havea voglia d’esseguire

Un novo amor, non volle, ch’ei seguisse

Ma fattolo tacer, così gli disse.

 

Non è tempo di dir messo mio fido

I bei di porti tuoi di questi giorni,

Che per novo amor, ch’in me fa nido,

E’ forza, che di novo in terra torni:

Vanne, in Fenicia, e fa scendere sul lido

L’armento regno, e fa ch’ivi soggiorni,

Fa che sì presso al mar dal monte scenda,

Che’l mormorar, che fa Anfitrite, intenda.

 

Il nipote d’Atlante obedì tosto.

E l’armento regal mandò sul lito.

Questo, non molto à là città discosto.

Era uno ameno, e dilettevol sito.

Concorse a questo loco, à Cipro opposto.

Molte eran figlie allhora atte al marito

Con la figlia del re, al cui beltade

Non hebbe pari al mondo in quella etate.

 

Di questa il padre Agenore fu detto.

E di Tiro, e Sidonia fu signore.

La figlia Europa hebbe sì grato aspetto,

Ch’accese del suo amor l’alto motore.

Ahi come stanno male in soggietto,

Con grave maestà, lascivo amore.

Come opran, ch’altri fa (sì mal si regge)

Come fuor di misura, e fuor di legge.

 

Quel, che dà legge à gli dei del cielo,

Quel, ch’ad un cenno il mondo fa tremare

Chi con sua pioggia, e con suo ardente telo.

Può sommerger la terra, ardere il mare,

Vestì mentito, e vergognoso pelo,

Per lascivo pensier, per troppo amare,

Fuor d’ogni degnità, d’ogni decoro

Prese per troppo amor forma d’un toro.

 

E misto fra’ l real bovino armento,

D’intorno à lei vagar diletto prende.

La giogaia, che pende sotto al mento,

Insino a le ginocchia si distende.

Ne l’humil fronte sua quello spavento,

Che suol nei tori star, non si comprende,

Il manto suo di neve esser si vede,

Che non ha guasta sol, vento, ne piede.

 

Come una gemma il chiaro, e picciol corno

Sì bel risplendente, che par fatto a mano:

Move con dignità l’occhio d’intorno,

E mostra un volto amabile, et humano.

Dolce rimira quel bel viso adorno,

Poi si move ver lei quieto, e piano.

Paurosa ella l’aspetta un poco, e fugge

E il toro per dolore sospira e mugge.

 

Ella del suo muggir si meraviglia,

Che vede, che si dole, e che la guarda,

E che tien ferme in lei l’ignote ciglia,

E che per non noiarla il piè ritarda;

Dal prato per provar de l’herba piglia,

E verso lui và paurosa, e tarda;

Cresce col destro piè, stende la mano,

E poi si ferma alquanto a lui lontano.

 

Il collo, il capo, e’ l muso ei stende à posta,

E mostra di quell’herba haver gran voglia,

Pian piano poi con bel modo a lei s’accosta,

Perché non tema la mentita spoglia.

Ella stende al mano, e il piè discosta,

E come ei sta per abboccar la foglia,

Cader la lascia, e fugge, e si ritira,

E’ il miser toro anchor mugghia, e sospira.

 

Il toro per mostrar ch’accetto, e grato

Gli fu quel don de l’herba, ch’ella offerse,

Senza punto toccar l’herba del prato,

Quella mangiò, ch’ella lasciò caderse.

Vedendolo ella così ben creato,

A lui con esca, nova si converse,

E senza haverne più tanta paura,

L’aspetto più costante, e più sicura.

 

Il toro abbocca l’herba con destrezza,

Poi le lecca la man tutto modesto,

E tanto il move quell’alma bellezza,

Ch’à pena può più differire il resto.

Ella fa d’una cinta una cavezza,

Che vuol veder se l’obedisce in questa:

Legar il toro allegro il corno lassa,

E poi la segue come un cane à lassa.

 

Ella senza timor, senza sospetto,

Per tutto il vuol menar, per tutto il tocca:

Gli palpa leggiermente il collo, e il petto,

E sicura la man gli mette in bocca.

L’amante con piacer, con gran diletto

Segue la donna baldanzosa e sciocca,

La qual più volte le mentite corna,

Di vaghi fiori, e di ghirlande adorna.

 

Su l’herba al fin l’astuto bue si getta,

E col bugiardo sen la terra cova.

Allhor l’ardita, e vaga giovinetta

Di veder sempre qualche cosa nova,

Su’l fraudolento suo dorso s’assetta,

Che vuol far del giuvenco un’altra prova.

Prova vuol fat la semplicetta, e stolta,

Se vuol come un destrier portarla in volta.

 

Pian piano il bue si leva, e si diporta,

E move da principio il passo à pena,

E la donzella in su le spalle porta,

Poi drizza il falso piè verso l’arena.

La semplice fanciulla, e male accorta

Non credendo ad un Dio premer la schiena,

Lieta lasciò portarsi ove à lui piacque,

Et egli à poco à poco entrò ne l’acque.

 

L’ardita damigella non si crede,

Che’l toro innazi entri ne l’onda,

Ma come il lito poi scostarsi vede,

E trarsi indietro l’arenosa sponda,

Non potendo à l’asciutto porre il piede,

Perché il mar non l’inghiotta, e non l’asconda

Su’l dorso una man tiene, con l’altra afferra

Un corno, e l’occhio tien volto a la terra. 

 

Bagna di pianto la donzella il volto,

Che la terra ogn’hor più s’asconde, e abbassa.

Dritto à Favonio il toro il nuoto volto,

Cipro, e Rodi a man destra vede, e passa.

Veder dal lato manco a l’occhio è tolto

Le gran bocche del Nil, ch’à dietro lassa.

Ella non crede più poter campare,

Ch’altro veder non può, che cielo, e mare.

 

Le bionde chiome, il vestimento, e’l velo

Movea dolce aura, e’l mar si stava in calma,

Scacciate havean le nubi, il Sole, e’l cielo

Per mirar la bellezza unica, et alma.

Giove sotto il buggiardo, e novo pelo,

Con si soave, e pretiosa salma,

Per l’onda se nandò tranquilla, e cheta,

Tanto, che giunse à l’isola di Creta.

 

 

Libro III

Gia del fallace toro il falso volto

Giove lasciato havea, prendendo il vero,

E del novo amor suo quel frutto colto,

Che poteva appagare il suo pensiero,

E da quel nodo in breve tempo sciolto

S’era tornato al suo celeste impero.

Tornar non volle Europa al patrio seno,

Conoscendo alterato havere il seno.