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2-8 d.C.

OVIDIO, Metamorfosi, II, 836-875; III, 1-5

Traduzione tratta da: Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, a cura di Bernardini Marzolla P., Einaudi, Torino 1994, pp. 228-229

II, 836-875

Quand’ecco che Giove, suo padre, lo chiama in disparte, e senza rivelargli il perché, e cioè di essere innamorato, gli dice: “Fedele esecutore dei miei ordini, figlio, non perdere tempo e scendi giù veloce come al solito, e in quella terra (Simonia è il nome indigeno) da cui si vede tua madre tra le stelle dalla parte sinistra, in quella vai. E vedrai che un armento del re pascola  lontano su un monte erboso: sospingilo verso la spiaggia”. Così dice. E già i buoi scacciati dal monte si dirigono, come ha ordinato, verso la spiaggia, sove la figlia del grande re è solita giocare col suo seguito di fanciulle di Tiro.  Maestà ed amore non vanno molto d’accordo, non possono convivere. Perciò, lasciato lo scettro solenne, il padre e signore degli dèi, colui che ha la destra armata di fulmini a tre punte, che con un cenno fa tremare il mondo, assume l’aspetto di un toro e mescolatosi alle giovenche mugge e gironzola, bello, sul tenero prato. Il colore è proprio quello della neve non calcata dalla pianta di un duro piede, non sciolta dall’Austro piovoso. Il collo è rigonfio di muscoli, dalle scarpe pende la giogaia. Le corna, è vero, sono piccolette, ma così ben fatte che potresti sostenere che son fabbricate a mano, e sono più diafane di una gemma pura. Niente di minaccioso nella fronte, e lo sguardo non mette paura. Un muso tutto pace. La figlia di Agènore lo guarda meravigliata: è così bello, non ha affatto un’aria battagliera. Dapprima però, anche se è tanto mansueto, ha timore di toccarlo. Poi gli si accosta e gli tende dei fiori verso il candido muso. Gode l’innamorato, e, in attesa del piacere sognato, le bacia le mani. E ormai a stento, a stento rinvia il resto, ed ora giocoso le saltella attorno sull’erba verde, ora distende il fianco color di neve sulla rena bionda. E dissipata a paco a poco la paura, ora le offre il petto perché lo palpi con la sua mano virginea, ora le corna perché le inviluppi di ghirlande appena intrecciate. A un certo punto la figlia del re si azzarda a sedersi sul torso del toro, senza sospettare di chi sia in verità. Allora il dio, allontanandosi con fare indifferente dalla terra e dalla spiaggia asciutta, comincia a imprimere le sue false orme sulla battigia, poi va più avanti, poi si porta via la preda sull’acqua in mezzo al mare. Lei è piena di spavento, e si volge a guardare la riva ormai lontana. La destra stringe un corno, la sinistra è poggiata sulla groppa. Tremolando le vesti si gonfiano alla brezza.

 

III, 1-5

Già, deposto l’ingannevole aspetto di toro, Giove si era rivelato e si trovava nella campagna di Creta, quando il padre della fanciulla rapita, ignaro, ordinò a Cadmo di ricercarla, minacciando di esiliarlo se non l’avesse ritrovata, spietato per troppo affetto.