Eurfc04

II sec. a.C.

MOSCO, Idilli, 2

Traduzione tratta da: http://it.wikisource.org/wiki/Idilli_(Mosco)/II (traduzione a cura di Luca Antonio Pagnini, 1827)

Europa

Già Venere ad Europa un dolce sogno

Nella terza vigilia della notte

Spedì vicino all'alba, allorchè il sonno

Più soave del mel sulle palpebre

       Siede, e le membra rilassando, in molle

Laccio ritiene avviluppati i lumi,

Quando lo stuol de' veritieri sogni

Va spaziando. Allor nell'alte stanze

Dormendo Europa di Fenice figlia,

       Che vergine era ancor, veder le parve       10

Per sua cagion due Regioni in guerra

In sembianza di donne, quella d'Asia,

E quella opposta. Una a vederla estrania,

L'altra parea del suo terrea natía,

       E maggior lite avea per la donzella

Dicendo, ch'era a lei nutrice, e madre.

L'altra afferrò con man robuste Europa,

E lei non ripugnante a se rapìo,

Dicendo esser nei fati, che da Giove

       Egidarmato le si rechi in dono.                 20

Ella affannata e palpitante il core

Balzò dal letto, che pareale il sogno

Verace visïon. Ben lunga pezza

Sedendo taciturna, ambe le donne

       Negli occhi, benchè aperti, avea tuttora.

Ma tardi alfin la verginella in queste

Voci proruppe: E quale infra i Celesti

Tai larve m'inviò? Quali in mie stanze

Sogni mi sbigottîr mentr'io dormìa

       Sì dolcemente sulle agiate piume?            30

Chi fu quella straniera, che dormendo

Vidi, onde tanto amore il cor mi punse?

Con quale affetto m'accolse ella, e come

Sua figlia rimirò! Deh! piaccia ai Numi,

       Che per me si rivolga a bene il sogno.

 

Ciò detto in piè levossi e in traccia corse

Delle dolci compagne a lei d'etate,

Statura, e voglie, e nobiltà conformi,

Con cui sempre scherzava, o quando al ballo

       Si disponeva, o quando s'abbellìa             40

Alle correnti dell'Anauro, o quando

Cogliea dal prato gli odorosi gigli.

Queste le apparver tosto, e in man ciascuna

Di lor recava un canestrin da fiori.

       Uscîr su i prati alla marina, dove

Solano unirsi a stuol, piacer traendo

E dalle rose e dal fragor dell'onde.

Europa aveva un bel canestro d'oro,

Maraviglia a vederlo, e di Vulcano

       Raro lavor, che in dono ei diede a Libia,     50

Quando al talamo andonne di Nettuno

Scotitor della terra. Essa donollo

Alla chiara in beltà Telefaessa

Sua nuora; e questa alla sua vergin figlia

       Europa fenne un signoril presente.

Erano in quelle effigiate assai

Cose industri e splendenti. In oro sculta

Io, d'Inaco la figlia, che d'aspetto

Femmineo priva era tuttor vitella,

       E spinta da furor coi piè scorrea          60

Le salse vie di notatrice in guisa.

Eravi espresso il mare azzurro, e due

Sovra un ciglion dell'alto lido insieme

A mirar vôlti lei varcante il mare.

       Eravi Giove, che con man divina

Lei molle carezzava, e di giovenca

Ben fornita di corna in riva al Nilo

Di sette bocche la tornava in donna.

La fiumana del Nilo era d'argento,

       Di bronzo la Vitella, e Giove d'oro.       70

D'intorno intorno sotto gli orli ancora

Del rotondo canestro eravi inciso

Mercurio, e presso lui disteso er'Argo

D'occhi vegghianti adorno; indi nascea

       Dal suo purpureo sangue un grand'augello

De' color varj di sue piume altero,

Che qual rapida nave aprendo i vanni,

Al bel canestro d'or copriane i labbri.

Tal della vaga Europa era il canestro.

 

       Poichè fur dentro a' floridi pratelli,       80

Qual d'un fior, qual d'un altro il cor pascea.

Chi narciso odoroso, e chi giacinto,

Chi viola predava, e chi serpillo,

Gran foglie spicciolandosi per terra

       In quei di primavera alunni prati.

Altre a gara mietean del biondo croco

L'odorifera chioma. E la Regina

Stava nel mezzo, qual Ciprigna splende

Infra le Grazie, di sua man cogliendo

       Il primo onor delle fiammanti rose.      90

Ma non lunga stagion dovea co' fiori

Sollazzar l'alma, nè serbarsi intatta

La fascia virginal. La vide appena

Giove, che fu nel cor ferito, e domo

       Dagli strali improvvisi di Ciprigna,

Che sola può domar lo stesso Giove.

Ei per fuggir della gelosa Giuno

L'ire, e ingannar la tenerella mente

Della vergin, celò suo Nume, e corpo

       Mutato si fe' toro, non già quale         100

S'impingua entro le stalle, o qual tirando

L'aratolo ricurvo i solchi fende,

O qual si pasce infra gli armenti, o quale

Trae col giogo sul collo onusto carro.

       Biondo era tutto, se non che lucea

Nel mezzo della fronte un cerchio bianco;

Folgoravan d'amor gli occhi cilestri;

Spuntavangli le corna sulla testa

Pari fra lor, come crescente luna,

       Che in mezzo cerchio le sue corna incurva.   110

Entrò nel prato, e il suo venir non feo

Spavento alle donzelle. A tutte in core

Destossi amor d'avvicinarsi a lui,

E di palpar l'amabile giovenco,

       Lo cui divino odor lunge diffuso

Vincea del prato l'olezzar soave.

Esso a' piè della bella oltre ogni segno

Europa si ristette: il collo a lei

Lambiva e l'adescava. Ella il venìa

       D'intorno palpeggiando, e dolcemente       120

Con le man dalla bocca a lui tergendo

La molta spuma, ed il baciava intanto.

Ei sì dolce muggìa, che detto avresti

Udir migdonio flauto modulante

       Uno stridulo suono. Indi a' suoi piedi

Chinò i ginocchi ed a lei vôlto il collo

La rimirava, e l'ampio dorso offrìa.

Alle giovani allor di lunghe trecce

Ella sì prese a dir: Fide compagne,

       Deh! sagliamo a seder su questo toro,       130

Che bel piacer n'avremo. Ei teso il dorso

Ben tutte ci accorrà qual navicella.

Come al vederlo, è mansueto e blando!

Ben diverso è dagli altri. In lui s'aggira

       Un senno d'uomo, e il parlar sol gli manca.

 

Disse, e ridendo ascese a lui sul tergo.

L'altre eran per salir; ma tosto il bue

In piè saltò colla sua dolce preda.

Ratto sen fugge al mar. Ella rivolta

       La faccia, e le man tese alto chiamava      140

Le care amiche; ma di lor nessuna

Raggiugnerla potea. Già scorso il lido

Il toro oltre n'andò come un delfino.

Galleggiâr le Nereidi sul mare

       Tutte schierate in dosso alle balene.

E lo stesso Nettun romoreggiante

Il fiotto rappianava, e fea pel mare

Strada al germano. A lui dintorno accolta

Gran turba di Tritoni abitatori

       Del profondo Ocean risonar fea                150

Un canto nuzïal su larghe conche.

Ella di Giove al bovin tergo affissa

Con l'una man del toro un lungo corno

Stringea, con l'altra le purpuree pieghe

       Del manto in su traeva, onde l'immenso

Flutto del bianco mar l'attratto appena

Orlo bagnasse. Il sinuoso velo

Su gli omeri d'Europa si gonfiava

Qual naval vela, e gir la fea più lieve.

       Ma poichè fu dal natìo suol lontana         160

Nè più marina spiaggia, od alto monte

Scoprìa, ma di sopra aer, di sotto immenso

Mar, guatandosi attorno alzò tai voci:

Dove, dove mi porti, o divin tauro?

       Chi se'? come puoi tu co' piè restìi

Aprirti il calle? non paventi il mare?

È certo il mare ai celeri navigli

Agevole cammin: ma le sue vie

Son terribili a' tori. E qual fia mai

       La tua grata bevanda? e qual dall'onde      170

Cibo n'aspetti? Sei tu forse un Dio?

Perchè fai tu quel, che agli Dii sconviene?

Nè i marini delfin sopra la terra,

Nè i giovenchi passeggiano su l'onde.

       Ma tu scorri del par la terra, e il mare

Senza bagnarti, e l'unghie ti son remi.

Forse aleggiando ancor per l'aere azzurro

Qual augello veloce in alto andrai?

Ahimè, tapina, ahimè! che il patrio tetto

       Abbandonato un navigar sì strano           180

Smarrita, e sola fo in balìa d'un bue.

Ma tu, che al bianco mar, Nettuno, imperi,

A me propizio accorri; e ben io spero

Di veder te, che mi sei scorta e duce

       Al viaggiar. Non certo senza un Nume

Solcando vo quest'umidi sentieri.

 

Tal disse; e il bue di corna ampie fornito

A lei prese a parlar: Fa cuor fanciulla:

No, l'onde non temer. Giove son io,

       Che da vicin di toro ho le sembianze,     200

E ben posso apparir qual più m'aggrada.

Ora l'amor di te sì lungo mare

In cotal forma a misurar mi spinse.

Te Creta or accorrà, che me nutrìo:

       Quivi tue nozze appresteransi, e quivi

Di me tu produrrai famosi figli,

Che su tutti i mortali avran lo scettro.

Disse; e l'effetto al suo parlar rispose.

Apparì Creta. Giove si converse

       In altre forme, e le disciolse il cinto.      210

L'Ore il letto acconciaro. Ella, che stata

Era pulcella infino allor, repente

Divenne sposa, ed al Saturnio Giove

Generò figli, e fu ben tosto madre.