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Giovanni Andrea dell’Anguillara, Delle Metamorphosi d’Ovidio, Libri VIII

 

Andando Giove in questa parte, è in quella

Per veder s’altro il mondo havea di guasto

Trova in Arcadia una vergine bella,

C’ha il sembiante lascivo, e ‘l petto casto.

Serve Diana e Calisto s’appella,

Figlia a colui, che lupo era rimasto,

Quando per far le temerarie prove,

Fè quel convito sì nefando à Giove.

 

Sopra tre lustri havea girato il Sole

Una volta il suo cerchio intorno intorno

Dal dì, ch’in terra uscì sì degna prole,

Che fè di sì bel dono il mondo adorno.

Ben mostran le bellezze uniche, e fole,

Che non ha più, né manco tempo un giorno

Che’l ben disposto corpo, e la beltade

Ben corrisponde à la sua verde etade.

 

Non vuol, né men l’accade per ornarsi,

Che capei biondi si procacci, ò finga:

Ch’assai l’è perché i suoi non cadan sparsi,

Ch’un sottil nastro li circondi e stringa.

A i vestimenti suoi succinti, e scarsi

Basta tanta cintura, che li cinga.

E sta sì ben disposta ogni sua parte,

Che rassembra un dispregio fatto ad arte.

 

Sola, e sicura la vergine bella

Figlia del Re d’Arcadia se ne gìa,

Vestita à guisa d’una pasterella,

come à la legge sua si convenia:

Perche costume fu d’ogni donzella,

Che di Diana la norma seguia,

Fuggir le pompe e vestir puro, e schietto,

Per dimostrar la purità del petto.

 

L’angelico suo viso il bel sembiante

Il vago dè begli occhi e lo splendore,

E le maniere graziose, e sante

Che mostran la bellezza interiore,

E l’altre cose belle, che son tante,

Quante n’ha fatte di sua mano Amore,

Con dolca vago fan, ch’insieme accolto

Fa Venere albergar nel suo bel volto.

 

Giove come farà, ch’incontra, e guarda

Un sì leggiadro, e sì divino aspetto,

Che nuovo amor per lei nol prenda, e arda

Che non cerchi gustar nuovo diletto?

Per lo piacer, ch’egli ha, pur si ritarda

Del suo libero andar senza sospetto.

Quel bello andar dal suo desio l’arretra

Che fa superbo l’arco, e la faretra.

 

Dal più supremo ciel Febo havea visto

Tutti il caldo fuggir del mezzo giorno:

Volta era al cerchio l’ombra di Calisto.

Ch’ella fe poi di si bel nome adorno,

Col metro la cicala infame, e triste

Rendea noioso il mondo d’ogni intorno;

Quando ella per fuggire quel caldo raggio

Volle por meta alquanto al suo viaggio.

 

Dal sole in sua selva si nasconde

Di grossi faggi, e d’elevati cerri,

Che cento volte havea cangiate fronde,

Né mai sentiti gl’inimici ferri.

Si ferma ad un ruscel di limpid’onde,

Ma l’arco allenta prima che s’atterri.

L’arco s’allonga, e ‘l nervo corto torna,

E tocca un sol de le distese corna.

 

Indi si china a la gelata fonte,

E spesso l’acqua in su con la man balza.

Le sitibonde fauci aperte, e pronte

Quella parte n’inghiotton, che più  s’alza.

Beve, e poi lava la sudata fronte,

Indi s’asside in terra, e si discalza:

Lava poi ( che veduta esser non crede)

Fin ‘al ginocchio il suo candido piede.

 

Vestito ch’ebbe il piè fatto più bianco,

E ben tre volte trattasi la sete,

E la faretra toltasi dal fianco,

Pensa prendere alquanto di quiete:

Distende il corpo travagliato, e stanco

Per darsi per un pezzo in preda a Lete.

La faretra le serve in quel, che puote,

E fa guanciale a le vermiglie gote.

 

Giove, che sempre n’ha seguita l’orma

Con l’animo, e con gli occhi ascosamente,

Et à la vaga sua maniera, e forma,

Di sì belle azzioni ha posto mente,

non si cura aspettar, ch’ella s’adorna

Ma si muta di volto immantinente:

Da lei la riverita forma piglia

De la triforme pudica figlia.

 

Già non saprà questo mio furto, è frodo,

Disse, la dispettosa mia consorte;

E fe ‘l sa ben; debbo io stimarlo in modo,

Che disprezzi un piacere di questa sorte?

E giunto a lei con la mentita faccia,

Le domandò dov’era stata a caccia.

 

Tosto si leva la Vergine bella,

E riverente a la sua Dea s’inchina;

E dice con la sua dolce favella,

O vera de le Vergini Regina

Sappi, ch’io preferisco la sua stella

A tutta quanta la corte divina.

Et anchor, ch’egli m’oda, dire ardisco,

Ch’a Giove padre tuo ti preferisca.

 

Tu sei di castitate un vero essempio

A le dilette tue pudiche ancelle:

Egli si fa tallhor rapace,e empio

Ver le donne, ch’a lui paion più belle,

Trasforma il volto e con lor grande scempio

Suole ingannar le simplici donzelle.

Ride ei, che preferir s’ode a se stesso,

Et accusar del suo propinquo eccesso.

 

Allegro Giove intanto al bacio viene,

Bacio, che poco a donna casta lice,

E non, che ad una vergine stia bene,

Ma faria bene ad una meretrice.

Ella per far quel, ch’a lai si conviene,

De la sua caccia le ragiona, e dice.

Ma trattosi egli le mentite spoglie,

Dir non la lascia, e l’honor suo le toglie.

 

La misera donzella per salvarsi

Con parole, e con fatti si difende.

Ma come puote una fanciulla aitarsi

Contra chi tutto move, e tutto intende?

Pur l’infelice fa quel, che può farsi

Guarda guarda Giunon, s’ella contende:

Che non saran si crudi i pensier suoi,

Nè il mal farai, che le facesti poi.

 

Giove nel ciel vittorioso riede,

e lascia quella sconsolata, e inesta,

c’ha quella selva in odio; e ciò, che vede,

C’ha veduto il suo caso, la molesta.

Dal consapevol loco a torreil piede

Si move sì sollicita, e sì presta,

Et ha tantola fretta d’andar via,

Che quasi l’arco, e la faretra oblia.

 

Mentre fra se la sua fortuna piagne,

E quasi ad ogni suo passo sospira,

Diana scevra da le sue compagne

Venirle incontro à l’improviso mira.

La Dea fa cenno a lei, che s’accompagne;

Ma quella al primo fugge, e si ritira;

Che teme anchor, che Gioue insidioso

Non si dimori in quella forma ascosa.

 

Ma come poi s’accorge, che le vanno

Non lungi l’altre sue caste sorelle,

E che conosce esser lontan l’inganno,

S’accosta, e cresce il numero di quelle.

Ahi come asconde mal seta, nè panno

Quel vitio, che fa donne le donzelle:

Come ne danno indubitato aviso

Le maniere, l’andar, la lingua, e ‘l viso.

 

Più non si vede andar lieta, e superba

Innanzi a l’altre, come star solea: 

Ma gli occhi non ardisce alzar da l’herba,

Nè il volto a l’alma, e riverita Dea

Pur cerca asconder la sua doglia acerba,

Per non far noto il caso, ond’ella è rea:

Ma di poterla ben celare l’è tolto

Dal raddoppiato suo rossor del volto.

 

Le Vergini hanno il cor pudico, e netto,

Nè fan  per segni accorgersi del vero:

Onde tutte ne van senza sospetto

Pensando, che le prema altro pensiero.

Ma ben saprete, onde viene il difetto

Prima che passi il nono mese intero:

Vivete pure, e conversate insieme,

Che saprete il dolor, c’hoggi la preme.

 

Dal d’, che in forma de la filglia di Giove

Sfogò l’immoderato suo desio,

Nove volte mostrò le corna nove

La luna, e altretante il tondo empio,

Pria, che Diana un dì giugnesse, dove

Le parve di fermarsi appresso un rio,

In una selva di quercie, e di faggi,

Per fuggire a i fraterni estivi raggi.

 

Lodato c’hebbe l’ombra, il bosco, e il sito,

Le parve fare il faggio anchor de l’acqua

E dentro il piede postovi e sentito

Il suo temperamento, assai le piacque;

E fatto a tutte un generale invito

Di doversi bagnar, lor non dispiacque;

C’hanno il loco opportuno, e ben disposto,

Et ogni occhio, e ogni arbitro discosto.

 

Hor che farà Calisto? Se si spoglia,

Forz’è che l’erroe suo si manifeste.

S’indugia e mostra ben, che non ha voglia

Ma l’altre a forza le traggon la veste,

E scopron la cagion de la sua doglia,

E il bel ricetto del seme celeste.

Ella non può con man celar sì il seno,

Che l’error non palesi il ventre pieno.

 

Fuggi putta sfacciata, e come hai fronte

Star con noi senza il tuo virginal fiore’

Non profanar questo sacrato fonte

Non macchiar questo limpido  liquore.

Deh non Diana, non le dir tant’onte,

Che s’hà corrotto il corpo, à casto il core

Ha sano il suo dì dentro, ma la scorza

Non, che ‘l so genitor l’hà fatto forza.

 

La casta compagnia sdegnata diede

A la compagna rea perpetuo essiglio.

L’infelice Calisto, che si vede

Esser’in odio al virginal conciglio,

Scontente, e trista al patrio albergo riede

Dove poco dapoi dì è fuora un figlio,

Che riuscì da seme sì perfetto

Nobil di sangue, d’animo e d’aspetto.

 

Giunon lo stupro havea già presentito,

Che fatto havea l’adultero consorte,

Et haveva in buon tempo stabilito

Di castigar colei di mala sorte:

Ma come ha poi notitia, ch’al marito

Ha fatto un figlio, s’altera sì forte,

Che più la pena a lei tardar non vole

Per l’ira, c’ha del’odiosa prole.

 

Questo mancava un testimonio certo

De l’altrui fallo, e de l’ingiuria mia,

Disse, ma tosto n’haverai quel merto,

Ch’a la tua colpa convenevol sia.

Hor’hor’voglio che toglia il tuo demerto

A te la forma, a me la gelosia.

Non havrai più quel sì lodato volto,

Col quale il senno al mio marito hai tolto.

 

La prende con gran rabbia ne’ capelli,

E la declina a terra, e tira, e straccia.

Quell’alza gli occhi lagrimosi e belli,

E supplice ver lei stende le braccia.

Già copron le braccia horridi velli,

E ver la bocca s’aguzza la faccia;

Si veste a poco a poco tutto il dosso

D’un ruginoso pel fra ‘l nero, e ‘l rosso.

 

Poi le toglie i parlar grato, e giocondo,

Perchè non possa altrui mover col dire;

Un minaccevol suono, e iracondo

Dal roco gozzo suo si sente uscire.

L’unghia s’aguzza a la forma del tondo

E si rende atta a graffiare, e ferire,

Curuar prima la mano, e poi si vede

L’ufficio far del faticoso piede.

 

Quel sì leggiadro, e gratioso aspetto,

Che piacque tanto al gran rettor del cielo

Divenne un fero, e spaventoso obietto

A gli occhi altrui sotto odioso velo.

L’humana mente solo e l’intelletto

Servò sotto l’hirsuto, e rozzo pelo.

Questa, ch’in ogni parte Orsa divenne,

L’antica mente sua sola ritenne.

 

Se Giove ingrato ben chiamar non puote,

Ingrato dentro a l’animo il comprende,

E se non può con le dolenti note,

Quelle mani che puote al ciel distende.

E’n tutti gli atti suoi par, che dinote,

Che tutto il mal, ch’ella ha, da lui dipende:

C’ha per lui il volto, e l’honor suo perduto

E che appartenga a lui di darle aiuto.

 

O quante volte sola dubitando

Gir per le selve come l’altre fere,

Sen giva intorno a le sue case errando,

Ouer per mezzo a qualche suo podere,

De i propri noti suoi frutti mangiando

Pruni, mele, castagne, noci, e pere

Ch’anchor conosce, che fa mal colui,

Che del suo puote, e vuol mangiar l’altrui.

 

O quante e quante volte l’infelice

Scordasi, c’havea cangiata faccia,

Fuggì tai fiere, ch’a gli Orsi disdice,

Se non cercan di lor seguir la traccia.

Quante volte l’afflitta cacciatrice

Da i cani, e i cacciatori hebbe la caccia.

Se vide i lupi hebbe paura d’essi,

Anchor ch’el padre in loro ascoso stessi.

 

Fuggi gli Orsi essendo Orsa, e amor la sforza.

Fuggirsi al proprio albergo ò lì vicino

Misera dove vai? Ragione e forza

Ti toglie il tuo per l’empio tuo destino.

Non può la mente tua sotto tal scorza

Tenerne più possesso nè domino

Che la legge del mondo nol comporta;

Che sei fatta una fera, e t’ha per morta.

 

Quanto infelice sei, se ben ci pensi,

Tu vergine, e compagna di Diana

Sei per sfogar gli altrui sfrenati sensi,

Dal tuo tempio fatt’essule, e profana.

Quanti huomini hai col tuo bel viso accensi

Et hor non hai pur la sembranza humana.

Tu vedi il tuo bel regno, e ‘l tuo potere,

Nel puoi più dominar, nè possedere.

 

Giovane, e nobil ne le caccie altera

Ferir’osasti ogni animal feroce;

Et hor, che sei sì valorosa fera,

Ogni vil’animal, ti caccia, e noce

Deh mostra lor la faccia horrenda, e fera

Fa loro udir la tua tremenda voce.

Le forze, il morso, e l’unghie tue son tali,

Che non hai da temer gli altri animali.

 

O sfortunata, abbandonata, e priva

D’ogni commercio perchè fuggi gli Orsi?

De la lor specie sei, lor non sei schiva,

Non dei temer i lor graffi, i lor morsi.

Quanto meglio saria non esser viva,

Ch’ad animal sì brutto sottoporsi?

Pur per me mal d’andar con loro eleggi,

E i lor costumi impara, e le lor leggi.

 

Figlia del Re d’Arcadia, che potevi

Fra tanti Regi eleggerti un consorte,

Ahi, quanto quanto credo che t’aggrevi

Sopporti a un’animal di s’ vil sorte.

Fallo scontenta, fa, che farlo devi

Mentre non ha di te pietà la morte.

Per l’huom deforme sei, stuprata, e fella

Ma gl’Orsi almen t’havran per bona, e bella.

 

Io veggo, io veggo ben come tu piagni

Levata in piè, stendendo al ciel le braccia.

Col batter zampa a zampa ancho accompagni

Il suon, che ‘l gozzo rauco fuor discaccia.

Oimè non ti graffiar, vedi che bagni

Del sangue tuo la tua ferina faccia

Che l’onghia è troppo aguzza, e fora, e fende e

Quella solo usar dei, s’altri t’offende.

 

Arcade, il figlio, che già fe Calisto,

(così havea nome) del Rettor superno

Fra le stagion de l’anno havea già visto

Quindici volte esser signor il verno;

E l’Orsa in quello stato infame e tristo

Havea vagato il bel regno paterno,

Insidiata, e piena d’ogni male

Senza tor compagnia d’altro animale.

 

Cacciando per le selve d’Arimanto

Arcade e ricercando ogni pendice,

Con cani e reti e cento altri a canto,

S’incontrò ne l’ignota genitrice,

Come ei la vede,si ritira alquanto,

Ma non si ritirò quella infelice;

Ma come ben riconoscesse il figlio

Tenne in lui fermo il trasformato ciglio.

 

Ei, che s’accorge, ch’a lui sol pon mente,

Teme di qualche mal, se non s’aita

Lo strale e l’arco incontra immantinente

E pensa darle una mortal ferita.

Che farai scelerato, e sconoscente,

Darai la morte a chi ti diè la vita?

Provedi al paricidio o sommo padre,

Se non tuo figlio ucciderà tua madre.

 

Per vetar Giove, ch’Arcade non faccia

Quel maleficio, alquale il vede intento,

Gli cangia in un momento e sesso e faccia

Fallo un’altra Orsa, e fa levare un vento,

Ch’ambe le leva in aria, e via le caccia

Verso Boote assiderato, e lento:

E tanto le portò per l’aria a volo,

Ch’in ciel le collocò vicino al polo.

 

Là dove poi la lor rugosa pelle

Si fece un manto chiaro, e trasparente,

E si fer tutte le lor membra stelle;

Questa è men grade, e quella è più lucente

Hor l’Orse son del ciel lucide, e belle:

Et Orse anchor son dette da la gente:

E per l’Orsa minor la madre è nota,

L’altra è maggior, che fa più larga rota.

 

Ahi come si gonfiò d’ira e di sdegno

Giunon, visto colei splender nel cielo,

Et esser fatta del celeste regno

Senza l’hirsuto e rugginoso pelo.

Come se n’alterò, come fe segno

Del novo nato al cor timore, e gelosia

Come ando tosto à scoprir le sue voglie

Al canuto Oceano, e à la moglie.

 

Io sò, c’havete di saper desio

Disse, perch’io così passeggio l’onda.

Altri nel ciel possiede il loco mio,

Più grata al mio marito, e più gioconda;

E vederete ben, che non mento io,

Tosto, che ‘l Sol la sua luce nasconda,

Se in ciel ver Borea drizzate lo sguardo

Nel cerchio ch’è più picciolo, e più tardo.

 

Chi fia per l’avenir, che non m’offenda?

Chi, che mi tema più per quel ch’io vedo?

Come nel mondo il mio poter s’intenda?

Ch’allhora io giovo, che d’offender credo.

Da me tal pena ogni nocente attenda:

Questa è la gran possanza, ch’io possiedo:

Per nocer toglio altrui l’humana veste,

E giovo, e folla divenir celeste.

 

Perchè non rende a lei l’antica faccia,

Come a la figlia d’Inaco fe Giove?

Perchè dal letto mio me non discaccia?

Non fa divortio, e non mi manda altrove?

Perchè nel letto mio poi non abbraccia

Le bellezze per lui sì rare, e nove?

Che non la sposa oltre il comesso stupro

E per socero suo non sceglie un lupo?

 

Hor voi, so l’honor mio punto vi preme,

voi mei nutrice, e tutti i Deidelmare,

le sette stelle, che vedrete insieme

fra’l polo, e’l circolo artico girare,

che fan quell’Orsa, che nacque del seme

d’un lupo, non lasciate in mar tuffare,

ch’al vostro puro mar lavar non lice

una stuprata, e una meretrice

 

Gli amici Dei del mar tutti fer segno

Di volerle osservar quanto chiedea.

Onde tornossi al suo celeste regno

L’anchor gelosa, e vendicata Dea.

Nel canto suo tornò nobile, e degno,

che più chemai superbo risplendea:

poi che la morte d’Argo e’l suo gran lume

fece si belle al suo pavon le piume.

 

Con diligenza e tacito il pavone

A servir la sua Dea contento attese.

E quando venne poi l’occasione,

vedete il guiderdon che glie ne rese.

Imitata Henrico invitto hoggi Giunone,

et Alessandro il mio Signor Farnese.

Che chi con lealtà ben serve loro,

n’acquista honori, e dignitadi e oro.